Come forse sapete, si sta votando alla Camera l’ennesima legge elettorale – la terza in questa sola legislatura. Per evitare che venga impallinata come la penultima, il governo Gentiloni ha deciso di porre la fiducia, come fece il governo Renzi con l’Italicum tre anni fa. L’avrete immaginato, la legge elettorale che verrà approvata è brutta – come del resto era brutto l’Italicum, anche se lì la filosofia era diversa. Quest’ultimo era concepito per regalare il Parlamento al leader che fosse riuscito a conquistare il 40% dei voti. Dopo le europee Renzi era convintissimo di riuscirci; pochi mesi dopo, i suoi uomini stavano già bisbigliando che forse la legge andava cambiata. La nuova legge, invece, scaturisce da un’amara constatazione: al 40% non ci arriverà né Renzi né nessun altro. Quindi è abbastanza normale, se i partiti sono tre, che ce ne siano almeno due che si accordano in Parlamento per rendere più complicata la vita al terzo. Specie se il terzo in questione è il M5S, che potrebbe perfino vincere la conta dei voti, ma che tra tutti è il meno disponibile alle alleanze post-elettorali.
Avremo dunque due partiti (il PD e Berlusconi in coppia con Salvini) che lotteranno come leoni fino alla mattina delle elezioni, per accordarsi come agnelli quando si farà sera, dopo lo spoglio dei voti. Questo meccanismo, che nel lessico degli osservatori politici viene chiamato “inciucio”, è universalmente esecrato, ma al momento appare abbastanza inevitabile. Nel caso i numeri lo permettessero, potrebbero esserci delle scissioni. Ad esempio, un pezzo di centrodestra potrebbe staccarsi (ricordate Alfano, tre anni fa?) e andare al governo col centrosinistra, oppure il contrario: è un fenomeno che sul finire dell’Ottocento fu battezzato “trasformismo” e che ha resistito a cinque o sei sistemi elettorali diversi. Al centro del Parlamento, nel loro dorato isolamento, i grillini continueranno a recitare il ruolo dei duri-ma-puri.
Salvo meteoriti o altre catastrofi, dovrebbe finire così. Le proiezioni e i sondaggi, che spesso sbagliano, ci dicono che finirebbe in questo modo qualunque fosse il sistema elettorale, e quindi tanto varrebbe trovarne uno semplice e condivisibile. Ma la legge che verrà votata alla Camera nei prossimi giorni è particolarmente complicata – un po’ uninominale un po’ proporzionale – e sembra voler raccogliere il peggio di entrambi i sistemi (il first-past-the-post dei britannici e i capolista ubiqui italiani). E c’è pure il rischio che non sia costituzionale. Naturalmente questo ce lo potranno dire soltanto i Giudici costituzionali, e sappiamo che ci metteranno un po’, ma visti i precedenti è lecito diffidare. Come forse ricorderete, hanno già dichiarato incostituzionali le ultime due leggi elettorali, con quegli odiosi nomi in finto latino: il Porcellum di Calderoli, attraverso cui venne eletto in maniera incostituzionale il Parlamento, e l’Italicum di Renzi, con cui il Porcellum venne rimpiazzato nel 2015. In particolare i giudici avevano obiezioni sul ballottaggio, che sarebbe scattato qualora nessun partito avesse raggiunto il 40%. Una cosa che non esiste in nessun’altra democrazia del mondo. Il ballottaggio viene fatto in Francia, per esempio, ma per eleggere una carica monocratica (il presidente della Repubblica). Possibile che gli estensori della legge non si rendessero conto della differenza tra una repubblica presidenziale come la Francia e una parlamentare come la nostra? Più che un problema politico sembrerebbe un problema culturale, soprattutto quando ci si rende conto che tra gli ingegneri costituzionali più competenti che abbiamo in Parlamento c’è Calderoli (non sto scherzando, ormai è davvero uno di quelli che ne sa di più: figurati gli altri).
In Italia il dibattito sulla legge elettorale sembra pesantemente condizionato da un paio di argomenti molto rozzi e quasi universalmente condivisi:
La governabilità: qualsiasi legge i parlamentari scrivano e approvino, dovrebbe avere come fine ultimo rendere l’Italia governabile. Cioè, come Renzi ha ripetuto fino allo sfinimento, la sera delle elezioni si dovrebbe avere il nome del capo del Governo: e questo capo del Governo dovrebbe durare tutti e cinque gli anni della legislatura. Peccato che la democrazia parlamentare non funzioni così – ma non importa. Prima ancora che una democrazia parlamentare, l’Italia dev’essere governabile;
Niente inciuci: le alleanze pre- o post-elettorali, gli accordi, i compromessi, i rovesciamenti di fronte, tutto quello che in fondo è l’essenza della politica, è sporco. Anche quando è inevitabile. Anche quando sono gli stessi elettori a non esprimere una maggioranza definita. Si vede che gli elettori sbagliano. La legge elettorale dovrebbe correggerli.
Questi due argomenti li trovo perfettamente sintetizzati, purtroppo, nell’amaca domenicale di Michele Serra: “Parlando non da costituzionalisti, ma da avventori appoggiati al bancone di un bar, diciamoci che un maggioritario secco secco, papale papale, avrebbe per questo paese un difetto imperdonabile: consentirebbe di sapere, appena chiuse le urne, quale partito o coalizione governerà per cinque anni; e gli altri li manderebbe a fare il nobile mestiere dell’opposizione”. Questo nobile mestiere, parrebbe di capire, consiste nella semplice rappresentanza: chi ha la maggioranza comanda, mentre gli altri si limitano a protestare civilmente, senza nemmeno tentare di spostare il baricentro.
Per inciso: ve lo immaginate Michele Serra appoggiato a un bancone, che ciancia di sistemi elettorali con la cassiera? Io ho qualche difficoltà. Abbiamo tutti diritto ad avere opinioni da bar, approssimative e tagliate col coltello; a tutti, anche alla firma prestigiosa in cima a La Repubblica è concessa la facoltà di fare un passo indietro, ogni tanto, di togliersi gli occhiali e guardare i problemi da lontano. Perché a volte un po’ di miopia selettiva aiuta: i dettagli inutili spariscono, il quadro d’insieme si chiarisce. Ma credo che ci sia un limite oltre il quale la miopia diventa cecità. Questo “maggioritario secco secco” che per cinque anni chiuderebbe ogni questione che cos’è? È mai davvero esistito fuori dai sogni umidicci dei politici italiani?
Vediamo. Se per “maggioritario secco” s’intende l’uninominale anglosassone, il confronto è presto fatto. Il Regno Unito è politicamente più stabile della Repubblica italiana? Non esattamente. Non ultimamente. L’uninominale secco – un sistema un po’ rude, che data dal Seicento – assegna ogni seggio al candidato che abbia preso anche un solo voto in più degli altri (appunto, “First past the post”). Questo rende le elezioni britanniche uno sport completamente diverso da quelle continentali. Si può vincere un seggio con quindicimila voti e perderne uno con ventimila. Il che significa che si può ottenere una maggioranza di seggi anche senza una maggioranza di voti (qualcosa di simile a quello che ha combinato Trump negli USA, anche se lì il sistema è ancora più complicato). Ai partiti piccoli conviene quindi concentrarsi su pochi distretti, invece che far campagna a livello nazionale (i partiti autonomisti in Scozia e Ulster risultano sovrarappresentati, da noi c’è da aspettarsi un ritorno al territorio da parte della Lega). Con lo stesso numero di voti a volte un partito ha la maggioranza assoluta e altre volte no: Cameron nel 2015 ce l’aveva con 11 milioni di voti, Theresa May l’ha persa con 13 milioni (e ha dovuto cercare un accordo sottobanco con gli antiabortisti dell’Irlanda del Nord).
Agli occhi di un continentale ha tutta l’aria di un terno al lotto, ma se gli inglesi fanno così da secoli si può anche capire la loro resistenza a cambiare. Si fa più fatica a capire chi propone sistemi del genere in Italia; e invece con la nuova legge elettorale farà sbarcare anche da noi il first-past-the-post. Sarà il modo in cui eleggeremo 232 deputati su 630, e 102 senatori su 315. Gli altri li dovremo eleggere con un sistema proporzionale, ma siccome non sarà concesso il voto disgiunto, i partiti più forti saranno comunque avvantaggiati rispetto ai più piccoli. Con tutte queste distorsioni, almeno, la Repubblica diventerà più governabile? Le simulazioni dicono il contrario: anche con l’uninominale secco nel 2013 ci saremmo ritrovati con un hung parlament, un Parlamento senza una maggioranza definita.
Ma immaginiamo che invece funzioni: che grazie a qualche misteriosa alchimia, uno dei tre partiti che attualmente i sondaggi danno tra il 28% e il 20% riesca a ottenere una maggioranza finalmente stabile in Parlamento. Dobbiamo ipotizzare che uno dei tre prenda, diciamo, 10 milioni di voti (il PD alle europee ne prese undici, e sembrava già un exploit incredibile), così uniformemente distribuiti da vincere la maggior parte dei seggi uninominali e proporzionali. Resta il problema che di solito alle elezioni politiche in Italia votano più di 30 milioni di persone. E quindi avremmo un partito con 10 milioni di voti su trenta che ottiene la maggioranza assoluta dei seggi – sicuri che la Corte Costituzionale non troverebbe niente da eccepire? A me pare che l’Italicum sia stato bocciato per molto meno. Certo, magari mi sbaglio, non sono un costituzionalista. Ma a questo punto mi domando se in Parlamento ce n’è almeno uno. A parte Calderoli, naturalmente.