Master of None è partito a bomba ed è atterrato nell’Italia del 1948
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Trovo molto divertente la stand-up comedy di Aziz Ansari, penso abbia una naturale predisposizione all’intrattenimento, come una sorta di cartone animato ipnotico in carne e ossa. Tuttavia, non ho provato la stessa sensazione quando ho deciso di guardare la seconda stagione Master of None, serie prodotta da Netflix, vincitrice di un Emmy per la sceneggiatura. L’episodio premiato s’intitola Thanksgiving ed è uno spaccato divertente su un tema piuttosto attuale, la vita di una lesbica afroamericana, raccontato attraverso la crescita di un’amica del protagonista, nonché co-autrice dell’episodio, Lena Waithe. Si parla di religione, del rapporto complesso tra emigrati di prima e seconda generazione, di molestie sessuali sul lavoro, del vortice sentimentale delle dating app.

Il problema però è che si parla anche di Italia, ma soprattutto di una ragazza italiana, Francesca, nomen omen, che incarna con il suo sorriso rassicurante e angelico da Cesaroni la svolta sentimentale del protagonista. Il problema è che, come succede spesso ai personaggi femminili ai quali è stato assegnato questo compito epifanico, lo fa in modo molto piatto e sostanzialmente passivo. La serie che è stata osannata per la sua rappresentazione delle diversità sprofonda improvvisamente in un pozzo di cliché e luoghi comuni sull’Italia e sulla protagonista italiana, motivo per il quale ho passato buona parte della visione di questo show con un’espressione a metà tra l’interrogativo e l’infastidito stampata in faccia, coronata da un picco di imbarazzo nel vedere due persone che ballano il twist in pigiama sulle note di Edoardo Vianello. 

Le prime due puntate di Master of None hanno come intento quello di omaggiare il nostro Paese attraverso quelle che dovrebbero essere citazioni ma che sembrano più dei goffi scimmiottamenti di un’idea di Italia che si è formata all’estero tra gli anni di Ladri di Biciclette e de La Dolce Vita. Che sia chiaro, non è certamente Aziz Ansari il primo a essere caduto vittima di una sorta di malattia per la Bella Italia fatta di cestini di vimini colmi di ortaggi, bici da passeggio e “buongiorno” urlati dal balcone. Tanti registi, compreso Woody Allen con il suo terrificante To Rome with Love, in cui per chi non lo sapesse ci regala un ritratto di vita romana favoleggiante e ridicolo, hanno optato per la solita strada pizza-spaghetti-mandolino. In Master of None l’intento citazionistico e surreale è assolutamente esplicito, ma il risultato rimane comunque una pessima caricatura, un’accozzaglia di banalità come la storia di un carabiniere corrotto dal ragù, l’idolatria spasmodica per il cibo, l’obbligatoria corsa in Vespa tra le colline, ma soprattutto Francesca. Francesca, lo stereotipo dentro lo stereotipo.

Insomma, dentro la cornice stucchevole di una Modena in bianco e nero abbiamo i tortellini, il bambino grassoccio e goloso vestito da Marcellino Pane e Vino che parla un creativo quanto generico italiano meridionaleggiante, la nonna con la vestaglietta a pois e poi Francesca, la versione 2.0 della Manic Pixie Dream Girl termine che dovrebbe ormai essere ufficialmente estino – potenziata dalla sua adorabile provenienza europea. Probabilmente l’unica attrice provinata che avesse un inglese abbastanza decente.

Non bastava già dover far fronte alle varie Zooey Deschanel, che con la loro deliziosa eccentrica follia ci portavano nel pazzo mondo della ragazza complicata, della ragazza “diversa”, dell’Amélie sedici anni dopo (ve la ricordate la sindrome di Amélie?), in Francesca si aggiunge anche la variante geografica a conferire ulteriore autorevolezza in fatto di carinissime stramberie. Come ogni MPDG che si rispetti, Francesca non ha altra funzione se non quella di regalare al protagonista un momento di svolta esistenziale. Di Francesca, ovviamente, sappiamo ben poco, giusto quelle vaghe informazioni che servono a crearne un idilliaco quadretto di irresistibile bellezza acqua e sapone. Vive facendo i tortellini con la nonna e il piccolo Mario, ma possiamo dedurre da alcuni sfuggenti dettagli che la sua vera e grande passione è la Storia dell’Arte; parla in modo buffo, nonostante si esprima con un inglese assolutamente fluente, storpiando parole e inventandone altre perché è importante che nessuno si dimentichi l’elemento portante della sua presenza, ovvero il fatto che sia italiana; ride tanto, non è mai triste, non è maliziosa, non conosce Tinder e non ha avuto altri uomini al di fuori del suo storico fidanzato Pino, un Riccardo Scamarcio relegato a ruolo di cornuto italico leggermente prevaricante, con una certa dedizione all’esportazione del Made in Italy; adora le piccole cose della vita, che nel suo caso a differenza di Amélie, quintessenza della MPDG, non si manifestano in gesti igienicamente discutibili come infilare una mano in un sacco di legumi, ma in una sfrenata passione per le farmacie americane, passione che lascia trapelare un altro elemento decorativo di Francesca, una leggera inclinazione all’ipocondria che condisce perfettamente il quadro della ragazza che “non è come tutte le altre”.

Dev e Francesca passano il loro tempo a passeggiare per i musei e a godersi la bellezza dell’autunno a New York (cosa vi ricorda?), la stagione perfetta per innamorarsi di una MPDG. Qui, tra una scultura e un romantico quanto imbarazzante bacio dato attraverso un vetro, Dev capisce di essere follemente cotto della sua bella (forse pure un po’ troppo per lui) ragazza italiana ed esprime questo suo profondissimo sentimento in una lista, dove appaiono ragioni per amarla (cosa vi ricorda?) come “è bellissima”, “ti fa ridere” ma soprattutto “fa la pasta”. Dunque, una donna sceglie di lasciare l’uomo che sta per sposare e di trasferirsi dal set di Ladri di Biciclette a quello di Manhattan rinunciando a tutto ciò che le appartiene per cominciare una storia d’amore con un altro uomo che include nelle ragioni del suo sentimento anche quella di saper fare i tortellini, unica qualità che la differenzia da un animale domestico. E Francesca? Cosa prova Francesca? Come facciamo a sapere cosa pensi Francesca di tutta questa rivoluzione esistenziale se l’unica cosa che ci è resa nota è il fatto che sia italiana, che rida sempre di gusto e che, molto genericamente, ami la Storia dell’Arte?

Francesca è unicamente un accessorio narrativo che serve alla trama per accompagnare la storia di Dev, senza nessuna personalità se non quella vuota e stereotipata della ragazza della porta accanto con un senso dell’umorismo “travolgente” e una serie di piccole eccentriche stranezze, servite su una base di candore e ingenuità. Francesca è bella, punto. Non ha difetti, non è cattiva, non se la tira. Francesca, in sostanza, non è reale e non è meno fasulla di quell’immagine dell’Italia che mischia un’atmosfera neorealista a una canzone di Mina. Una serie che si ripromette di dare voce a temi così diversi, che è stata apprezzata soprattutto per la sua capacità di esplorare e di includere realtà spesso trascurate, contiene in sé uno degli stereotipi di genere più duri a morire, quello della donna angelicata che con la sua carica di energie positive e vestitini leziosi dà una smossa alla vita noiosa di qualche inguaribile romantico che sta aspettando “quella giusta”. Il tutto supportato da una ridonante e posticcia cartolina dall’Italia, la terra del buon cibo e delle belle donne.

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