Ricordo bene la prima volta che sentii la canzone Alfonso di Levante. Era il 2013, come canta lei stessa, e la cosa che notai subito era che il pezzo sembrava arrangiato con una di quelle basi senza copyright che usano gli youtuber per i video di ricette o di make-up: ukulele, clapping, fischietti e buonumore. Poi ascoltai il testo con molta attenzione, visto che già dalle prime parole mi sembrava un delizioso manifesto di giovanilismo contemporaneo. “Che vita di merda”, esplode Levante nel ritornello, appellandosi al grande tema della nostra generazione: un concentrato di hashtag che alludono alla nostra perenne sfiga e al senso di disagio che ci accumuna quando manifestiamo il nostro – serissimo, per carità – dissenso verso il trattamento che ci ha riservato l’universo. Brava, Levante, hai fatto centro: sei nel 2013, sei carina, giovane, tatuata, attenta alla moda, ma non tanto da farlo sembrare mainstream; sei perfettamente a tuo agio in quella zona grigia tra il pop e l’indipendente che fa sentire chi ne fruisce una spanna sopra rispetto a chi si stordisce con i best of di Laura Pausini. E grazie a queste innegabili doti camaleontiche ne ha fatta di strada la ragazza spregiudicata che mette la parola “stronzo” nelle sue canzoni. Ne ha fatta talmente tanta che oggi, nel 2017, ha definitivamente consacrato la sua immagine underground per la causa del pop più estremo: è diventata giudice di XFactor, e da cantante per playlist indie su Spotify si è trasferita nella televisione di un bel po’ di italiani.
Va da sé che una volta calcato il palco di un talent in veste di giudice Levante abbia fatto un gran balzo in avanti con la sua carriera, destando quel senso di stupore misto a tradimento in chi la conosceva da prima. È una sensazione che di questi tempi sperimentiamo sempre più spesso quando il mondo della musica entra in contatto con la televisione, e personaggi fino a questo punto relegati a circoli più ristretti si trasformano in idoli della cultura di massa (come nel caso di Manuel Agnelli). Viene svelato il grande trucco che sta alla base di quella presunzione di superiorità tipica di chi ascolta qualcosa che non è mainstream: non è che Levante sia diventata pop, è che non è mai stata indie, come non lo è mai stato Tommaso Paradiso, personaggio eccentrico che oggi scandalizza tanto i puristi del genere con le canzoni da cinepanettone e le hit estive da ballo di gruppo in spiaggia, come se prima di diventare così famoso facesse cantautorato impegnato o musica sperimentale. Ecco, anche Levante ha saputo giocarsi bene le sue carte da cantante che si esibisce nel bistrot con la chitarra acustica per quattro spettatori che sorseggiano whisky, trasformando ogni piccolo circolo Arci in un’arena ma preservando allo stesso tempo la sua immagine da “alternativa”. La strategia artistica e commerciale di Levante si gioca dunque su due piani: da un lato quello autentico e irriverente dell’artista tutto pepe che fa i giochi di parole sbarazzini tipo “sei un pezzo di me…” e che si veste come se fosse perennemente in un film di Wes Anderson, dall’altro quello degli hashtag, delle sponsorizzazioni, delle strizzate d’occhio alla tendenza del momento e alla sua innegabile attitudine da influencer.
Non serve molto per apprezzare il lavoro certosino che Levante ha fatto sulla sua immagine e la cura che c’è in ogni manifestazione della personalità di questa musicista, basta farsi un giro sul suo profilo Instagram. Partendo proprio dalla base, dalla sua storia personale e dal suo modo di parlarne, Levante non si è lasciata sfuggire l’efficacia di una matrice esotica sul pubblico, cavalcando spudoratamente quell’onda di mistificazione del Meridione che utilizza pale di fichi d’India e cannoli come uno strumento di marketing: non c’è un’intervista in cui non sottolinei il fatto che sia una siciliana trapiantata a Torino, rimarcando puntualmente quanto l’elemento meridione influisca sul suo carattere da ribelle. Perché, del resto, chi non lo sa che le siciliane sono tutte passionali e indomite? Io, da siciliana, non mi sento di confermarlo.
Il mio chiodo fisso. Eh sì che il tempo certi amori dovrebbe lasciarli appassire eppure io e te non siamo solo innamorati, io e te ci apparteniamo. A cu appattegnu iu?
All’Etna.
Come dovremmo interpretare questa didascalia a un suo post su Instagram dove si arrampica romanticamente tra le pietre diroccate di una decadente, ma per questo affascinante, Scicli? È uno spot perfetto: andate in Sicilia, che è tutta una puntata di Montalbano e comprate il disco di Levante, che è una siciliana moderna, coi tratti e il carattere mediterranei, ma il look da impeccabile fashion blogger.
Un profilo Instagram con mezzo milione di follower e un’immagine così ben costruita però non si reggono solo su qualche scatto sognante alla luce di un tramonto sullo Ionio – la musica, a questo punto, supponiamo non sia l’unico fattore alla base del personaggio, nonostante il suo oggettivo talento canoro e la sua preparazione. E per quanto il trend della riscoperta del sud sia molto efficace, ci sono un paio di altri temi che è bene aggiungere al cocktail di eccellenza mediatica che spazia tra foto di riflessi densi di metafore, pezzi di corpo che emergono da vasche da bagno piene di schiuma e riflessioni intense che includono anche importanti consigli di lettura accompagnati dagli immancabili hashtag che affiancano Il secolo breve di Eric Hobsbawm a #levanteama. Levante non poteva certo lasciarsi sfuggire il più succulento dei trend di questi ultimi anni: il femminismo.
Così, l’auto-fiction di Levante non si limita solo a rappresentarsi come l’Amélie Poulaine dell’industria musicale italiana, una ragazza che vive Nel caos di stanze stupefacenti tra mille specchi, disordine mentale e torte di mele piene di cannella. Levante è anche femminista, in quell’accezione contemporanea del termine che lo conforma a una moda, più un abito da indossare che un movimento culturale e sociale. È la solita vecchia storia del pink-washing: nella prima puntata dell’undicesima edizione di XFactor, Levante si presenta con una bella scritta sulle spalle in rosa, “GIRL POWER”.
Accattivante, empowering, il femminismo sbandierato nella scritta dipinta sulle spalle della cantante è quanto di più distante da una vera battaglia per la parità dei sessi, perché è semplicemente un decoro. Anzi, è un decoro che svilisce in pieno il significato dell’ipotetico messaggio che Levante dovrebbe lanciare, come in quei post in cui mette assieme a uno slogan che di per sé non significa nulla – quel “GIRL POWER”, buttato lì così, cosa dovrebbe significare? Che le donne sono state sottomesse per secoli e quindi ora devono sottomettere a loro volta gli uomini? O è solo una citazione delle Spice Girls? – sponsorizzazioni per importanti marchi di moda. E non solo, se associare un presunto messaggio di emancipazione a una pubblicità non è abbastanza fastidioso, si aggiunge anche la difesa a una sua concorrente contro la polemica – spietata e sconsiderata – dell’opinione comune, che si è scagliata su una ragazza di soli ventun anni, trasformata da idolo a demone nel giro di poche settimane. Parole giuste e sensate che fanno riflettere sul perché basti così poco a distruggere un mito che si è creato su basi per nulla solide. Poi però scorri alla fine del post, ci trovi un marchio taggato e riproposto in tutti i modi possibili durante le ultime settimane, e ti ricordi che quell’immagine che stai guardando è pur sempre una pubblicità, e il suo obiettivo finisce con il sembrare più quello di dare visibilità a un brand, che non di sollevare l’umore di Rita Bellanza.
Sarà dunque colpa dello spirito del tempo, sarà che oggi, in certi ambienti, è tutto assoggettato ai diktat del marketing, e il personaggio di Levante – il personaggio, la persona non so dire se avesse questo obiettivo quando ha cominciato a fare la cantante – risulta un prodotto confezionato sotto forma di influencer. Questa orrenda parola che hanno usato spesso per definirla spazia semanticamente tra l’inspiegabile fama che deriva dalla semplice esistenza di un certo personaggio alla rincorsa verso un impiego che legittimi la propria presenza nel mondo dello spettacolo. Per quanta passione o talento possa esserci nel profondo dell’anima di questa cantante, quel filtro di Instagram prevarica ogni possibilità di fiducia nei confronti della sua sincerità di artista. E pensare che proprio nel suo singolo Non me ne frega niente si scaglia contro le dinamiche logoranti di internet e delle conseguenze che ha sulle persone.
Lo avevo intuito già dal primo ascolto di “Alfonso”, con tutto il fastidio che derivava da un’immagine femminile stereotipata ma spacciata invece per qualcosa di diverso – la ragazza goffa che non sa mettere le scarpe da sera, che non si diverte alle feste, la rivincita di tutte quelle sognatrici che vivono nel loro mondo – e la piega della carriera riconvertita a icona di stile gipsy che balla a piedi scalzi sul parquet di casa non fa altro che confermare il mio sospetto: siamo di fronte a una farsa.