In un pezzo del 2016 apparso su McSweeney’s dal titolo If women wrote men like men write women, l’autrice Meg Elison fa un esperimento letterario molto interessante. Si tratta di una raccolta di piccolissimi estratti di narrativa che ricalcano situazioni e dialoghi tra personaggi maschili e femminili, ma con un’inversione di ruoli che rende evidente quanto possa essere ridicola la rappresentazione dei rapporti tra uomo e donna all’interno di certi stereotipi. “Bred si sfilò dalla testa il top e si guardò nello specchio a figura intera. Tirò giù i jeans, poi i boxer, e si immaginò il momento in cui Jennifer lo avrebbe visto nudo per la prima volta”. È normale leggere, guardare o ascoltare delle scene in cui capiti che la descrizione delle azioni e la caratterizzazione dei personaggi femminili – in mano ad autori uomini – prenda una piega simile, mentre immaginarla al contrario, come fa Meg Elison, produce un effetto comico innegabile. Una Amélie Poulaine o una Clementine Kruczynski al maschile genererebbero la sceneggiatura di una gag, più che di un film.
I motivi per cui la donna è stata spesso (ma per fortuna non sempre) raffigurata in questi termini sono tanti: da quelli strettamente culturali che si attaccano a luoghi comuni – le femmine sono tutte sensibili, vanitose e non sanno guidare – a quelle invece più naturali – non esiste l’isteria ma esiste la sindrome premestruale, per esempio. Perciò inneggiare contro una rappresentazione passata e obsoleta della donna in qualsiasi produzione culturale dall’origine dell’uomo a oggi mi risulta inutile, oltre che stupido. L’arte non deve essere necessariamente attuale, non bisogna per forza sentirsi rappresentati dalla dolce Pamela di Samuel Richardson o dalla bella Rossella O’Hara di Via col vento: semplicemente, esistono perché in quel contesto sociale e storico avevano senso di esistere. Ciò che mi diverte, piuttosto, è che ancora oggi, a distanza di anni da certi ritratti di donna che sembrano solo funzionali al decoro di una trama, si tenda a incasellare in alcuni involucri pregni di stereotipi molte delle protagoniste femminili, specialmente quelle che diventano le muse ispiratrici di una scena musicale che fa proprio di questa rappresentazione il suo cavallo vincente. Ho l’impressione che se facessimo lo stesso esperimento di Meg Elison con i testi dell’indie italiano (o dell’itpop, come è stato recentemente ribattezzato il genere, o più goliardicamente “la musica pe’ scopa’”) e invertissimo i ruoli tra ragazze complicate e cantori della bellezza semplice e problematica il risultato sarebbe altrettanto ironico. Calcutta, Gazzelle, Thegiornalisti, Canova, Coez: la nuova leva di cantanti italiani emersi dal sottobosco indipendente e ormai pienamente consacrati al mainstream, ma che mantengono una certa aura di alternatività – tranne ovviamente nel caso di Tommaso Paradiso, orgoglioso alfiere del nazionalpopolare.
La cifra connotativa per eccellenza di questo genere musicale è quella di usare termini e immagini che mischiano frasi degne del miglior Marco Ferradini declinate con un’estetica romantica e adolescenziale. La ragazza rappresentata nelle canzoni indie è sempre a metà tra il liceo e i primi anni di università, la sua camera è piena di poster ingialliti, la sua foto copertina su Facebook è uno screen da qualche film della Nouvelle Vague con i sottotitoli in inglese. Carina ma non canonicamente bella, fumatrice incallita e inguaribile ritardataria, la sua presenza diventa un contenitore di vanità per l’uomo che la canta: nella sua raffigurazione, infatti, il poeta della semplicità riversa tutta la sua esigenza di auto-definirsi come un ragazzo diverso, che è più attratto da una ragazza che va a letto con i suoi boxer che da una modella di Victoria’s Secret. È fondamentale sottolineare infatti che entrambi sono diversi: la diversità è il concetto chiave. La differenza tra Gianluca Grignani che dice “ti raserò l’aiuola quando ritorni da scuola” e Calcutta che invece decanta “tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande”, appunto, sta proprio nella cornice di immagini in cui si inseriscono le due varianti di ballata romantica. Il primo è un volgare e spicciolo gesto di insolenza maschile, il secondo invece è una manifestazione volutamente esagerata con ironia che trasuda anche una certa goffaggine del cantante. Grignani è un figo in motocicletta coi pantaloni di pelle e il fegato ingrossato, Calcutta è un ragazzo cicciottello di provincia col faccino dolce – cosa che sembra gradire molto, a giudicare dalla quantità di selfie presenti sul suo profilo Instagram.
Per avere un esempio più concreto di questa sostanziale diversità del soggetto artista, dell’oggetto artistico e degli ascoltatori, basta guardare uno dei tantissimi video. Uno dei più emblematici a mio parere è quello di Manzarek dei Canova: la canzone sembra una rivisitazione indie (con l’accezione contemporanea di questo termine) di Marmellata #25 ma con la sostanziale differenza di avere come protagonista la rappresentate massima del genere, l’influencer (Youtuber? Showgirl? Web personality? Astrologa?) Camihawke, la studentessa dall’aspetto di modella, la simpatia da stand-up comedian, la goffaggine di una tutta mattah. Nel video si accende una sigaretta, si arrabbia, si lava i denti, tutto dalla prospettiva del suo amato in adorazione per la semplicità della sua bellezza che si manifesta nelle piccole cose. “Se c’è una cosa che odio di più è che non posso vederti quando ti spogli,” cantano i Canova, mentre seguono con fare un po’ voyeuristico i passi della ragazza. Esattamente come Coez in La musica non c’è, Calcutta in Oroscopo, Gazzelle in Zucchero filato, Galeffi in Occhiaie o come sulla copertina del disco dei Thegiornalisti: la ragazza davanti ai nostri occhi ci fa immedesimare nella parole e nella rappresentazione del poeta cantore, il quale ci dipinge un ritratto piuttosto vago ma molto suggestivo della Matilde di turno. Ed è in questa raffigurazione che si manifesta tutto l’ego di chi canta: Matilde, poverina, non serve a nulla se non a fornire i suoi tratti particolari e le sue piccole follie per un fine superiore, quello dell’arte.
Vista così sembrerebbe che il punto di vista maschile domini incontrastato, ma non si spiegherebbe perché anche le donne siano grandi fan di questo genere di musica se non ci fosse anche un processo di immedesimazione nelle immagini che propone. Altrimenti Maria Antonietta – che ci aveva provato a fare la musica pe’ scopa’ – sarebbe diventata la pioniera di una lunga serie di donne che vogliono intonare inni all’amore universitario, e così non è stato. Non ci sono cantanti indie donne, infatti, se non qualche caso isolato ma comunque ben lontano dall’essere esemplificativo di quella poetica: al massimo è delle ragazze il dominio delle cover chitarra e voce da cameretta, con reinterpretazioni in chiave domestica di hit dolci e sbarazzine – cosa che le rende ancora più cariche di tutte le loro componenti estetiche aggiungendo la spontaneità dell’ambientazione in stile “tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori”.
Il fatto, semmai, è che alle ragazze piace essere rappresentate – e rappresentarsi a loro volta – così: è il gioco delle parti, ascoltiamo quelle parole di romantica poesia e ci immaginiamo un tizio con la GoPro che ci segue in giro per il mondo e che ci osserva tanto bene da saper trasformare in versi ogni nostro piccolo dettaglio, colui che ci “spaccherà la faccia” se non gli diamo il cuore. A fare l’esercizio di inversione, è evidente, l’estetica a cui rimandano i testi e le scene dell’indie italiano risulterebbero decisamente ridicoli: non riesco proprio a immaginare una cantante che si figura il suo amato con “Il tuo maglione mio […] ma non capisco niente quando indossi cose grandi, le maglie che ti arrivano fino alle ginocchia”.
In questa grandissimo spazio di mavovra che concede la musica leggera italiana, l’indie contemporaneo si dirama come una sorta di prosecuzione di quell’universo semantico cominciato con Alex Britti e la sua Mi piaci e con Cesare Cremonini – forse primo vero cantante itpop – entrambi autori che hanno puntato sull’ironia romantica e leziosa, senza rinunciare alla simpatia. Alle ragazze piace sentirsi ritratte così, ai ragazzi piace immaginarsi in un amore “violento e tenero se vuoi” e infine alle case discografiche piace creare un prodotto assolutamente conforme al gusto e al desiderio della massa che lo ascolta, la fascia liceale-universitaria di persone diverse. Il risultato – per quanto sia assolutamente gradevole e continuativo di una certa tradizione artistica – è in fin dei conti anche un po’ comico, se ci spingiamo in una riflessione che inverta i termini e ne sbugiardi tutta la paraculaggine (senza necessariamente disprezzarla).