Nell’autunno del 2020, Christo avrebbe finalmente realizzato la sua opera finale, conclusiva, escatologica – un aggettivo adatto visto il nome della persona di cui stiamo parlando – di un percorso artistico durato più di sessant’anni: avrebbe avvolto l’Arco di Trionfo a Parigi per 16 giorni. Ci pensava dal 1961, quando con la sua compagna d’arte e di vita Jeanne-Claude si trasferì in una piccola stanza con vista sul monumento. Dopo tutto questo tempo passato a progettare l’atto finale di questo spettacolo, soltanto la pandemia è riuscita a fermare l’artista bulgaro Christo Vladimirov Javacheff, che ha sempre portato avanti le idee e il ricordo della moglie Jeanne-Claude Denat de Guillebon, scomparsa nel 2009. Poi anche Christo ci ha lasciati senza poter vedere realizzata la sua opera più desiderata.
Christo, nato in Bulgaria nel 1935 figlio di un tessitore, fuggì nell’Europa occidentale nel 1956, durante la rivoluzione ungherese. Si stabilì a Parigi nel 1958, dove incontrò Jeanne-Claude, nativa di Casablanca. Come ha riconosciuto lo stesso Christo, fu la moglie ad avere l’intuizione di fare progetti su larga scala, ingigantendo i primi esperimenti con i tessuti. Cominciarono nel 1961, avvolgendo con ampi teli di plastica alcuni barili di petrolio al porto di Colonia durante una mostra personale di Christo alla Galerie Haro Lauhus. Per la prima volta i due artisti modificarono temporaneamente il paesaggio con una propria opera, usando un tessuto per coprire la forma di un oggetto in un ambiente pubblico. Nel 1962, la coppia tornò a usare i barili di petrolio, ma questa volta per costruire un muro che chiudeva il passaggio di Rue Visconti a Parigi, con un progetto intitolato The Iron Curtain, la cortina di ferro. “Questa cortina di ferro può essere utilizzata come barriera durante un periodo di lavori pubblici, o servire a trasformare definitivamente una strada in un vicolo cieco. Questo principio si può estendere a tutto un quartiere, oppure a un’intera città”, scrisse nel progetto dell’opera. Il richiamo al muro di Berlino, costruito un anno prima, è molto evidente, anche se Christo ha sempre rifiutato di riconoscere una natura di denuncia nelle sue opere: “Non è tanto la rappresentazione della politica, quanto la reale politica”, dirà a proposito del wrapping del Reichstag di Berlino nel 1995.
Per Christo, che cominciò la sua produzione avvolgendo lattine e statue, il tessuto è capace di svelare le caratteristiche di ogni oggetto nascondendole. I grandi teli che coprono monumenti o aree del paesaggio non hanno significato in sé, ma il loro senso va ricercato sia nel gesto artistico stesso che nel modo in cui le persone possono fruire della “nuova veste” di ciò che viene avvolto. Ogni opera si realizza infatti in un lungo processo, che richiede non solo la “semplice” progettazione dell’avvolgimento, ma anche l’immenso lavoro di ricerca dei siti, l’ottenimento dei permessi da parte delle autorità e soprattutto l’auto-finanziamento che avviene, in una logica di completa autosufficienza, tramite la vendita dei bozzetti del progetto stesso. Quindi ogni opera non si esaurisce nella sua installazione, ma comincia anni, persino decenni prima, per poi scomparire per sempre in una manciata di giorni. Il wrapping dell’Arco di Trionfo è forse il più lungo dei progetti di Christo e Jeanne-Claude, tanto che il primissimo esito di questo percorso risale al 1962, quando Christo realizzò il primo fotomontaggio del monumento impacchettato.
Questo è uno degli aspetti più interessanti e originali dell’opera di Christo e Jeanne-Claude, che non hanno mai esitato a definirsi una “venture capitalistica”, a partire dalla creazione di quel brand, “Christo e Jeanne-Claude”, che è sopravvissuto alla morte di Denat e probabilmente lo farà anche a quella di Javacheff. La tenace volontà di non chiedere alcun tipo di sovvenzione pubblica – anche per opere molto complesse e costose come The Floating Piers, la passerella galleggiante sul Lago d’Iseo che aveva scatenato la solita indignazione all’italiana – può essere vista sia come una forma di libertà che di protezione del proprio marchio e della propria autonomia commerciale. Alcuni critici hanno biasimato questo modus operandi, anche se Christo ha sempre insistito sul fatto che questo processo è il vero cuore delle sue opere, rispondendo anche a chi cercava di sminuire il lavoro di Jeanne-Claude, che si è sempre occupata soprattutto della parte burocratica e amministrativa. In varie interviste Christo, che si definiva un “marxista erudito” ha spiegato di voler sfruttare appieno il sistema capitalista e le sue dinamiche per dare vita alla sua arte.
La lunga fase preparatoria culminava poi nell’apertura al pubblico di ciascuna opera, che di solito durava due settimane, per poi scomparire velocemente. Le opere di Christo e Jeanne-Claude sono “di massa”, gratuite, non prevedono un biglietto d’ingresso o una conoscenza particolare per essere fruite e apprezzate. Christo ha sempre detto che le sue opere non avevano un significato, ma che volevano veicolare “la gioia, la bellezza e nessun senso preciso”. Per questo si è sempre detto aperto a ogni interpretazione, perché è nel momento in cui lo spettatore vede e interagisce con l’opera e il paesaggio che la circonda e che ne è modificato che si realizza il senso di tutti quegli anni passati a progettarla. Chi ha visitato The Floating Piers nel 2016 sa esattamente di cosa parlo: c’era un’idea generale di cosa fosse la passerella, alimentata anche dal clamore mediatico che generò l’arrivo di un grande artista in un piccolo comune bresciano, ma poi solo camminandoci sopra, fruendola in prima persona, ci si sentiva parte di un momento irripetibile.
L’elemento temporaneo e nomadico nell’opera di Christo e Jeanne-Claude è sempre stato uno degli aspetti più importanti della loro arte. Dopo anni passati a progettare e simulare la resa di ogni progetto, in poche ore i due artisti “piantavano le loro tende nel deserto” come fanno i beduini, per poi scomparire dopo qualche giorno. Questa concezione di nomadismo in un mondo moderno sempre più schizofrenico è simile a quella espressa dalla filosofa Rosi Braidotti, dove esso diventa una forma di resistenza al “più grande nomade d’oggi”, il capitale. Christo e Jeanne-Claude allora si prendono gioco del capitalismo e delle sue dinamiche raccogliendo milioni per un’opera destinata a scomparire, e che alla fine non verrà né venduta a qualcuno né esposta in qualche galleria. La restituiranno alle persone, dando a tutti la possibilità di vedere, attraverso l’occultamento, un’altra cosa rispetto all’abitudine. Il nomadismo è anche insito nella biografia di Christo, che trascorse gli anni nel blocco comunista come disertore e poi come profugo, arrivò negli Stati Uniti senza un permesso di soggiorno. Forse anche questo ha contribuito alla sua ostinata ricerca per la libertà, sia per sé come artista, sia di chi quelle opere le guarda e le fruisce.
Oggi ha poco senso chiedersi cosa volessero dirci Christo e Jeanne-Claude o quale fosse il significato ultimo delle loro opere: non c’è. “I nostri progetti sono totalmente irrazionali, totalmente inutili. Non servono a nessuno, il mondo può andare avanti senza di loro”, diceva l’artista l’anno scorso presentando il progetto dell’Arco di Trionfo. “Questo è il loro potere: non possono essere comprate, possedute né riviste”. È un peccato che, dopo tutti questi anni, Christo non potrà vedere con i suoi occhi il wrapping dell’Arco di Trionfo. Se tutto andrà come previsto, il 18 settembre 2021 il monumento francese verrà avvolto comunque con 25mila metri di polypropylene riciclato blu e 7mila metri di corda rossa, portando finalmente a compimento il sogno che l’artista portava con sé da oltre sessant’anni. Christo ha raccontato di aver avuto l’idea vedendo delle foto del 1885 quando, durante i funerali di Victor Hugo, l’Arco fu avvolto con un velo nero. E se oggi, a causa del distanziamento sociale, non è possibile celebrare in modo degno la morte di Christo, ci penserà l’Arco di Trionfo l’anno prossimo, questa volta vestito non a lutto, ma a festa.