In tempi di poche certezze ho un solo punto fermo: l’immagine delle donne fa sempre notizia e la bellezza genera ancora una grande diffidenza. Mi ha colpito per esempio che il cambio di look di Arisa non sia stato perdonato da alcuni fan che l’avrebbero voluta tenere a lungo nel campo delle donne alternativamente affascinanti. Pena la disistima. Quasi che non si possa perdonare a una donna di essere bella e talentuosa, simpatica e abile con la piastra per capelli al tempo stesso. Sulla stessa linea dell’equazione bellezza uguale diffidenza, mi stupisce la scarsa sensibilità alla pratica del body shaming quando il bersaglio è una donna ‘troppo magra’ come Chiara Biasi o ‘troppo poco visibilmente incinta’ come Chiara Ferragni. Credo che tutte queste vicende, pur nelle loro piccolezze, tocchino un punto comune. In Italia tutto ciò che riguarda il rapporto tra esteriorità e identità femminile, tra aspetto fisico e competenza, vive di un continuo controsenso e di una curiosa instabilità emotiva. Ho trovato un nome per il doppio standard che caratterizza tutta la discussione su questi temi: il paradosso Rosy Bindi; forse l’avete provato anche voi.
Si tratta di meccanismo contorto, per cui una donna appare a più competente, credibile e accettata socialmente nel suo tentativo di essere altro oltre a un oggetto sessuale o alla pura esteriorità se si avvicina a un’immagine mascolina o androgina piuttosto che a uno stereotipo tradizionalmente attribuito al femminile. Tra l’altro, la storia ha dimostrato che non si è al riparo dalla discriminazione nemmeno così e che quando arriva la shitstorm del body shaming crollano tutte le certezze. “Lei è più bella che intelligente”, disse Berlusconi a Rosy Bindi in una celebre puntata di Porta a Porta, facendo scuola in fatto di body shaming ante litteram. “Eri più simpatica con i capelli corti”, la critica ad Arisa. Controllo sociale a mezzo bellezza direbbe un tribunale.
Il paradosso Rosy Bindi, che spesso regola anche la mia vita, reale e virtuale, è quell’incertezza che ti prende quando devi scegliere cosa indossare in un contesto professionale o pubblico e non sai mai se sarai troppo nuda, troppo poco truccata, troppo colorata, troppo pettinata, troppo sciatta, troppo sorridente o troppo imbronciata per far sì che il giudizio degli altri tenga conto anche del tuo livello intellettuale e della tua preparazione sul campo. È quel fenomeno incomprensibile per cui le donne possono essere brutte e sgradevoli in un solo modo e gli uomini invece diversamente belli in tantissime varietà, nessuna di queste squalificante. È quell’incongruenza per cui il capello grigio su un capo maschile è sinonimo di saggezza, fascino, esperienza, mentre su una donna corrisponde un’imperdonabile rinuncia alla tinta.
Il paradosso Rosy Bindi si ritrova anche in quella logica per cui, spesso, si fa fatica a parlare di body shaming in maniera trasversale. Tra stereotipi femminili, idee politiche, simpatie personali, si fanno grandi distinzioni. Ricordiamoci di Diletta Leotta. L’anno scorso a Sanremo il suo tentativo di esprimersi sul tema della violazione della privacy, un abuso che tra l’altro aveva vissuto in prima persona, fu commentato così da Caterina Balivo: “Non puoi parlare di violazione della privacy con la mano che cerca di allargare la gonna”. Va bene, per l’occasione si era fatta la manicure, indossava un abito corto ed era andata dal parrucchiere. Magari si era fatta pure la pedicure; e quindi? Alla fine, la conduttrice di Detto fatto si scusò.
Diciamo anche che nel nostro Paese quasi mai si appare abbastanza qualcosa da essere credibile e che si corrono più rischi in questo senso avvicinandosi all’immaginario leottiano più che a quello bindiano.
Come mai, però, quando il body shaming tocca una donna dall’estetica più canonicamente femminile, la cosa suscita meno indignazione? Dipende dalla professione – politica vs musica vs spettacolo – oppure dal disagio che il femminismo sembra intrattenere con la bellezza non puramente androgina e con la sua difesa trasversale in nome del body shaming?
Il doppio standard sul body shaming si manifesta soprattutto nel suo habitat preferito: i talk show del pomeriggio. C’è della schizofrenia nel caso della soubrette che un attimo prima si difende da chi vorrebbe giudicarla sulla base delle sue scelte in merito alla chirurgia estetica e un secondo dopo passa al contrattacco usando le stesse modalità dalle quali si cercava di difendere. “Rifatti di nuovo, criceto”. È successo per davvero.
In questo il paradosso è democratico. È il suo antidoto a essere lontano dall’universalità. Per questo il femminismo deve lavorare ancora come un piccolo Stakanov ed evitare una contraddizione: quella di dover rinunciare all’espressione esteriore – come si farà mai, poi – in modo che ciò che si indossa e come lo si indossa non diventi uno strumento per deprezzare l’identità personale. Dovrà pur esistere un ruolo positivo per l’esteriorità esibita, androgina o prorompente, colorata, silente, evidente, omologata o meno, in una società che non vuole rinunciare del tutto alla sua importanza. Dovrà pure scatenarsi una nuova logica più includente che spieghi perché quella tra l’ideale bindiano e quello leottiano, e non senza rischi in entrambe le opzioni, tra più credibilità e più trolling, non è affatto qualificabile come libera scelta.
Si potrebbe per esempio smettere di demonizzare lo stereotipo canonicamente riconosciuto come più femminile e di guardarlo con diffidenza. Quando si tratta di difendere una donna curvy abbiamo capito la logica discriminatoria del giudizio sul corpo, ma siamo un po’ meno sensibili quando lo stesso meccanismo coinvolge una donna come la Leotta. Potrebbe essere un’idea non pensare subito all’oggettificazione sessuale e alla complicità con il sistema patriarcale ogni volta che una donna semplicemente dimostra di voler apparire in un certo modo. Mi immagino insomma un mondo dove Maria Elena Boschi che si leva la giacca durante un comizio politico non suscita un’immediata sequela di “ooooh”. Un posto dove come ti vesti e quanto sei sensuale non sono strumenti usati per colpire le tue idee politiche.
Dovremmo sperare di arrivare al punto in cui l’esteriorità possa essere considerata una forma di espressione come le altre e non l’unico metro di giudizio e canale di affermazione del potere per le donne. Allora, la pressione sull’esteriorità diminuirà da sola e potremmo addirittura dimenticare il body shaming. Forse un domani considereremo la scelta di Arisa non tanto una compulsione e una volontà aderire al modello dominante, quanto una libera scelta e una valutazione in prima persona di ciò che le sta meglio addosso. Fino a oggi, nonostante abbia più volte detto chiaramente che così si piaceva di più, alla fine abbiamo scelto, almeno parzialmente, di non crederle.
Come possiamo uscire davvero dal paradosso e dare il benvenuto ufficiale al #metoo? Naomi Wolf, autrice del bestseller “The Beauty Myth”, ha suggerito una terza via non oppressiva per considerare l’esteriorità e il suo posto – equilibrato – nella società. “Una donna – scrive Wolf – vince quando dà a se stessa e alle altre donne il permesso di mangiare, di essere sensuale, di invecchiare, di indossare tute da lavoro, una coroncina, una gonna di Balenciaga, un mantella di seconda mano o degli anfibi, di coprirsi o andare in giro totalmente nuda; di fare qualunque cosa desideri per seguire o ignorare la propria idea di estetica. Una donna vince quando sente che qualunque cosa un’altra donna faccia con il proprio corpo, senza essere costretta, è solo affare suo”.