Provate a ricordare un momento particolare della vostra vita in cui, per un motivo o per l’altro, vi siete sentiti paralizzati dalle preoccupazioni. Il torace stretto dalle palpitazioni troppo ravvicinate. Lo stomaco annodato, la mente in una corsa convulsa da un pensiero all’altro. Tutto ciò che sarebbe potuto andare storto in quel momento era lì, di fronte a voi, pronto per essere sezionato, scomposto in tutti gli scenari più o meno verosimili, in cui la peggiore delle ipotesi si sarebbe certamente concretizzata.
Ora provate a estendere questo stato d’animo e questa sensazione all’intero arco di una vita.
Forse avete appena capito cosa significhi dover convivere con l’ansia.
Il mio primo attacco di panico è arrivato a 18 anni – una sorta di regalo per la maggiore età, tanto simbolico, quanto ironico e brutale. Liceo, seduta in classe, stava per iniziare l’ora di fisica. Dopo un anno all’estero la mia media dei voti era passata da una serie di 8 e 9 a delle sufficienze stentate: entrare in aula ogni mattina significava ricordarmi quotidianamente di non essere più all’altezza della situazione. Quel giorno il mio corpo deve averne avuto abbastanza di quel costante stato di tensione. Ho iniziato a fissare l’orologio, aspettando che i secondi passassero, che la campanella suonasse, così da poter finalmente correre fuori da quell’aula diventata strettissima. Ho iniziato a sudare freddo, a sentire la testa pesante; la mia mente era come dissociata. Ogni movimento intorno a me – la matita che cadeva per terra, i gesti della professoressa, la pagina voltata – era troppo veloce e aveva un suono assordante. Ero nel bel mezzo di un attacco d’ansia, ma non lo sapevo. E mentre la testa mi girava e il cuore sembrava volersi lanciare fuori dal petto continuavo a domandarmi in maniera ossessiva: “Cosa mi sta succedendo? È un infarto? Dev’essere per forza un infarto.” Non la strategia più indicata in questi casi. Ho alzato la mano, temendo che qualcuno intorno a me si accorgesse che qualcosa non andava, e ho chiesto il permesso di uscire dall’aula.
Da lì in poi gli attacchi sono aumentati – esponenzialmente – senza che io avessi la minima idea di quello che stava accadendo al mio corpo. Esami del sangue, test per controllare la pressione e i livelli degli zuccheri: i valori erano tutti normali. Il medico di base, dopo essersi assicurato che il mio cuore fosse a posto, ha concluso la visita somministrandomi della valeriana, il cui effetto è durato per circa mezza giornata. Neanche troppo male come risultato.
Il fondo l’ho toccato quando ho fatto il test per entrare all’università. Erano passati circa quattro mesi dal primo attacco e ormai, qualsiasi cosa facessi, pregavo che non mi venisse la tachicardia. L’ansia si è presentata, puntuale, anche in quell’occasione: arrivata a metà della prova attitudinale sono dovuta correre fuori, passando davanti a un centinaio di sconosciuti, nel silenzio più totale. Il test l’ho inspiegabilmente passato, ma sulla via di casa non sono riuscita a scendere le scale della metropolitana: avevo paura che ritornassero le palpitazioni. Ho preso atto della situazione e ho deciso di consultare uno specialista.
L’ansia di per sé non ha nulla di negativo: è un meccanismo fisiologico funzionale alla sopravvivenza della specie umana. Momenti particolarmente stressanti portano all’attivazione dei circuiti sottocorticali che fanno capo all’amigdala e al sistema limbico – parti estremamente antiche del nostro cervello. Essa comporta un aumento della produzione di adrenalina e dopamina e una riduzione di serotonina, dando il via alla risposta ansiogena. I nostri sensi si acuiscono, il battito cardiaco accelera e la pressione sanguigna aumenta, mentre i nostri riflessi si preparano a gestire quello che verrà. Tale risposta può essere di due tipi: fisiologica e adattiva, e rientrare nel giro di poco tempo, o patologica. Ed è tra questi due volti dell’ansia che si gioca la partita, perché fino a una certa soglia, cioè finché essa mantiene la sua funzione originaria di sopravvivenza, può addirittura costituire un asset, un vantaggio. Oltre quella soglia, però, l’ansia tende a determinare un peggioramento della nostra performance e, come effetto secondario, l’evitamento di circostanze simili a quelle che in primo luogo hanno scatenato l’ansia. Alcuni conosceranno tutto questo con il semplice nome di fight or flight response.
La mia ansia, ovviamente, vuoi per fattori genetici, vuoi per particolari processi biochimici a livello cerebrale, vuoi ancora a causa della mia storia personale, superava di gran lunga la soglia citata poco sopra. Con grande nonchalance balzava oltre, rendendomi la vita un inferno.
La masturbazione mentale è prerogativa dei più ansiosi: mi sono chiesta mille volte da dove venisse questo costante senso di pericolo, questa malsana idea che se solo avessi provato ad allentare la presa sulla mia vita sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Ed è proprio lì che sta il nodo del problema: il controllo.
Risparmiando i discorsi inflazionati – da quelli sull’incertezza della situazione economica a quelli su una società votata alla perfezione o su un mondo che ormai da anni sembra sull’orlo di un terzo conflitto mondiale – resta piuttosto facile capire perché noi, generazione Y, siamo molto più ansiosi dei nostri genitori. C’è effettivamente un senso di angoscia diffuso tra ventenni e trentenni, un malessere più che legittimo. Siamo la generazione fregata dalla trickle-down economy, o per citare un bellissimo meme: “Ricordate quando i nostri genitori ci dicevano: ‘te lo do io qualcosa per cui piangere’? Pensavamo che stessero per darci una sberla, invece hanno distrutto il mercato immobiliare e hanno sciolto la calotta polare artica”. Altro che tachicardia. Chi ne ha la forza butta tutto sotto il tappeto con un variegato repertorio di coping mechanism, ma chi non ne è in grado, rimane schiacciato.
Non è detto che si tratti di un affogamento definitivo, nemmeno quando il peggiore degli attacchi di panico ti porta a pensare di stare per morire. Certo, in alcuni momenti, quando per esempio le crisi si presentano con una frequenza di circa tre volte al giorno, vorresti tanto che arrivasse davvero la morte, così da mettere fine a questa pagliacciata. Ma, per quanto sia debilitante, alla fine ti accorgi che la situazione può essere gestita. Non con una pastiglia di valeriana, ma attraverso trattamenti – non per forza farmacologici (anche se nelle fasi più acute questi sono forse la soluzione-tampone più efficace) – che aiutino a spezzare quel circolo vizioso per cui si ha “l’ansia di avere l’ansia”. La soluzione, controintuitiva e quasi irritante, è smettere di voler tenere le briglie di tutto: acconsentire a mollare la presa e lasciarsi aiutare. E imparare ad accettare l’ansia, senza demonizzarla o ingigantirla, così da imparare a gestirla. Studiarne i meccanismi e capire che conseguenze ha questo stato sui nostri neurotrasmettitori e sul nostro corpo, è il modo migliore per ridimensionarlo, eliminando quell’aura da presagio funesto.
Basterebbe accettare l’idea di perdere il controllo, una volta tanto. Il che significherebbe dire definitivamente addio a quell’estenuante – e del tutto irrealistica – pretesa di perfezione. La vita andrà avanti anche senza la nostra costante supervisione, gli errori saranno commessi comunque, ma, sorpresa: non sarà un tragedia.