Com’era ampiamente prevedibile, l’unica cosa che ci è dato sapere dopo queste elezioni è che in Italia non c’è una maggioranza. Non è una novità, anzi: con questa legge elettorale era l’unico risultato possibile, cosa che dovrebbe far sorgere il dubbio su quanto il diritto di voto sia in realtà quasi del tutto svuotato di significato. Nel momento in cui scrivo le proiezioni danno il Centrodestra al 37,5% (con la Lega oltre il 17%, record assoluto, tre punti sopra Forza Italia), il M5S quasi al 32% (il che lo porta a essere il primo partito), il Centrosinistra al 23% col Pd quasi al 19%, minimo storico. Dunque malgrado la comprensibile esultanza del M5S, ha vinto il Centrodestra – e all’interno del Centrodestra, la Lega di Matteo Salvini, che in una legislatura ha quadruplicato i suoi voti. Questo è uno dei dati più importanti, forse il più cruciale: Salvini ha ottenuto un successo clamoroso e l’ha ottenuto anche cannibalizzando il suo partner più importante, Silvio Berlusconi. A questo punto, in teoria, il leader di centrodestra è il leghista (c’era un accordo esplicito, tra i partiti della coalizione: il partito più votato avrebbe espresso il candidato premier). Secondo la prassi istituzionale, il presidente Mattarella dovrebbe offrire l’incarico a lui. Ma quante possibilità ha Matteo Salvini, segretario della Lega (ex Nord), di formare un governo?
Forse adesso è più facile capire quel fuori-onda di qualche giorno fa, in cui Salvini affermava di sperare in un Pd al 22%. Salvini in questi anni ha prosperato, vendendo ai telespettatori rabbia e odio. Ha promesso di ruspare i campi rom ; di respingere i barconi; ultimamente ci ha avvertito di voler vietare l’Islam. Tutte queste cose, Salvini non può realizzarle davvero: non solo perché sono in effetti misure disumane e incostituzionali, ma soprattutto perché una volta esaudite queste promesse, Salvini non saprebbe che altro promettere. Probabilmente sperava di poter rimanere il protagonista dell’opposizione (se Berlusconi fosse riuscito ad arrivare al 20% da solo e a trovare un accordo con Renzi); oppure, se il centrodestra fosse arrivato al 50%, avrebbe potuto portare la Lega in un governo, ma in una posizione subalterna, come la Lega di Bossi che chiese per dieci anni a un governo Berlusconi il federalismo fiscale e poi si accontentò di aprire qualche ministero a Mantova. Ma se sale a palazzo Chigi, Salvini deve passare dall’arte di promettere alla scienza del mantenere. E a proposito di promesse: molti suoi elettori si aspettano che ci faccia uscire dall’Euro. L’ha promesso varie volte – sempre meno convinto, va detto – ma è quello che molti suoi sostenitori si augurano. A quel punto però si ritroverebbe in conflitto con lo stesso Berlusconi: una situazione interessante (magari improvvisamente i canali Mediaset smetterebbero di pompare l’emergenza criminalità-migranti, che alla fine ha favorito l’elemento più estremista della coalizione ai danni di chi quei canali li possiede e ci mette i soldi). Potrebbe, certo, proporre un accordo di governo al Movimento Cinque Stelle. In teoria sarebbe la maggioranza più stabile, sia alla Camera che al Senato. Ma solo in teoria.
Nella pratica, il M5S si trova nella situazione speculare a Salvini: anche loro vendono un prodotto, e non è nemmeno un prodotto così diverso; ma non sempre ha senso mettersi d’accordo con la concorrenza. Basta guardare la cartina: non era forse mai successo nella storia della Repubblica che due partiti si dividessero il territorio in modo così netto. La Lega è il partito delle fabbrichette del nord umiliate dalla globalizzazione e dall’Euro; il Movimento è il partito del meridione depresso e disoccupato. La Lega vuole la flat tax, cioè sborsare di meno; il M5S vuole il reddito di cittadinanza, ovvero intascare di più. Possono mettersi d’accordo? Fino a settembre, magari: poi c’è la finanziaria, e ciao. Entrambi vogliono uscire dall’Euro, a parole: nei fatti, l’uno può fornire una comoda scusa all’altro per non realizzare mai nemmeno questa promessa. Basta che Di Maio affermi “mai con Salvini, è un razzista!” e Salvini “mai con Di Maio, è un populista!” ed entrambi possono rimanere padroni dei rispettivi feudi elettorali, senza troppo compromettersi con la realtà. A quel punto però la realtà chi la può gestire? Una coalizione dei disperati, PD + Forza Italia + Fratelli d’Italia + chiunque ci sta? Anche questa sembra una combinazione troppo instabile.
In particolare, ci sono tre partiti che insieme potrebbero costituire una solida maggioranza, e che stanno per perdere la loro identità pre-elettorale: ormai sono anonimi contenitori di parlamentari.
Il primo è Forza Italia, ormai niente più che il marchio privato di un anziano signore che ha ancora un seguito notevole nel Paese, ma residuale. Potrebbe anche essere stata la sua ultima corsa: molti suoi eletti, una volta installati in Parlamento, non potranno che cercare un migliore offerente. In questi casi si privilegia sempre la stabilità, una cosa che Salvini coi suoi contenuti esplosivi non può offrire. Bisogna guardare altrove.
Il secondo contenitore anonimo è il Movimento Cinque Stelle, che dopo aver perso il suo guru Gianroberto Casaleggio negli ultimi mesi ha divorziato persino da Beppe Grillo, e ha vinto le elezioni lo stesso. Ora in cabina di comando c’è Casaleggio Junior, che conosciamo ancor meno del padre: con lui però c’è stata un’evidente normalizzazione del Movimento. Anche la mossa – tanto criticata – della presentazione di una lista di governo mandava un segnale preciso: non siamo disfattisti, stavolta siamo pronti a governare e anche a collaborare. Alcuni ministri-ombra del M5S erano ex sostenitori di Renzi: più espliciti di così, Casaleggio e Di Maio non potevano essere.
Perché a sinistra del M5S c’è il terzo contenitore in cerca di identità: il Pd post-renziano. Quando Renzi lo rilevò, il Pd valeva 10 milioni di voti, che nel 2013 sembravano una batosta. Con lui al timone alle Europee dell’anno successivo volò al 40%, ma si trattò in parte di un effetto ottico: aveva preso appena un milione di voti in più. Per contro forse gli capitò di sopravvalutare la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, quando comunque più di 13 milioni di italiani votarono sì alle sue proposte di riforma. Il vero crollo è avvenuto nei mesi successivi e oggi l’elettorato del Pd si ferma davvero intorno ai 7 milioni, con intere porzioni dell’Emilia e della Toscana che lo abbandonano. Non si può nemmeno puntare il dito sugli scissionisti di Liberi e Uguali, che ambivano a un risultato a due cifre e non arriveranno al 4%. È tutta la sinistra, dalla più moderata alla più radicale, a essere sconfitta, malgrado i risultati non tutti disprezzabili ottenuti negli ultimi cinque anni. Il problema è che dall’altra parte c’era chi soffiava sulle paure più basilari, chi raccontava di un assedio e di un’invasione: su internet, certo, ma soprattutto in tv (e sui giornali, e sui libri).
In un qualche modo, Renzi pensava che avrebbe ovviato il problema forse soltanto grazie alla sua brillante personalità: in un primo periodo probabilmente fraintese la benevolenza con cui veniva trattato anche dai media berlusconiani, forse lo scambiò per fair play e lo diede per scontato. Renzi non è il primo leader della sinistra a farsi fregare dalla controparte, ma a questo punto sarebbe maramaldesco infierire. Di solito a quest’ora aveva già pronunciato uno di quei concession speech che appassionavano tanto i suoi ammiratori; per come si sono messe le cose faccio persino fatica a immaginare che riesca a restare in Parlamento, dove è stato eletto per la prima volta, ma a far cosa? Ad ascoltare gli altri che parlano? Si annoierà subito. Dopo la sconfitta al referendum, invece di ritirarsi come pure aveva promesso, ha trasformato il Pd nel suo comitato elettorale: ora, senza di lui, anche il Pd non è che un involucro in cerca di identità. Un Pd renziano non potrebbe mai allearsi col M5S: ma un Pd post-renziano, cosa avrebbe da perdere? Di Maio potrebbe limitarsi a imporre l’allontanamento di Renzi – la pelle di un orso già caduto. La base del M5S si lamenterebbe? Si è già visto durante le parlamentarie quanto poco i vertici M5S si preoccupino dei rumori della base e di Rousseau. E persino se ci fosse una piccola scissione, si potrebbe tamponare coi voti dei forzisti post-berlusconiani, anche loro in libera uscita. Tutto questo stamattina può sembrare fantascienza: ma anche un governo Pd + Forza Italia sembrava impossibile all’indomani delle elezioni di cinque anni fa: finché Enrico Letta non giurò al Quirinale. Se cinque anni fa è successo davvero, da oggi può succedere tutto. Almeno viviamo in tempi interessanti.
Chiedo scusa se non uso il tono depresso che è di prammatica, tra persone di sinistra (io sono di sinistra) ogni volta che la sinistra perde (perde anche quando vince, ma oggi perde proprio). Non so neanch’io perché non riesco ad abbattermi, forse ho sofferto troppo una sconfitta precedente e ormai non sento il dolore. Oppure mi ha tirato su il morale Potere al Popolo. È che a un certo punto della maratona notturna, dopo aver intervistato un frignosissimo esponente di Casapound che riusciva soltanto a recriminare di essere stato poco in tv, Mentana ha dato la linea al quartier generale di Potere al Popolo, una lista che ha preso appena il doppio di Casapound – non che il doppio di uno zero virgola sia un granché – ma evidentemente non se lo aspettavano: festeggiavano più loro dei leghisti. È che abbiamo bevuto, ha spiegato la portavoce Viola Carofalo: “e continueremo a bere”. Ecco, beviamoci sopra.