Chi teme che il presidente rischi d’essere colto da una crisi di nervi all’idea di dover scegliere il nuovo premier fra Di Maio e Salvini, dimentica che Sergio Mattarella è un giurista. Un democristiano. E un siciliano.
Come giurista, ed ex giudice della Corte costituzionale, Mattarella sa bene che la Costituzione non lo obbliga affatto a scegliere fra Di Maio e Salvini. Può affidare un incarico esplorativo a una figura di mediazione, di trattativa, di melina, al prossimo presidente del Senato o della Camera, chiedendogli di verificare se la maggioranza che l’ha eletto è disposta a tapparsi il naso e sostenere anche un eventuale governo del Presidente, di Scopo, di Ammuina, possibilità che il risultato bifronte delle urne non ha affatto eliminato dallo scenario, come molti fingono di credere. Più passano i giorni, più si allontana la campagna elettorale e si avvicina l’inesorabile scadenza della manovra finanziaria aggiuntiva che dovrà evitare le clausole di salvaguardia. Quale dei due semi-vincitori vorrà rischiare di rendersi l’unico responsabile d’un aumento dell’IVA davanti agli elettori cui ha promesso meno tasse, più condoni, sussidi, sgravi ed sms gratuiti verso tutti?
Proprio in quanto democristiano, Mattarella sa bene che democristiani sono in realtà anche i presunti nuovi barbari. La Lega è già stata al governo con Berlusconi per più di dieci anni, e ha avuto una decina di ministri-chiave: fra cui quelli dell’Interno, del Bilancio, dell’Industria, del Lavoro, dell’Agricoltura, dei Trasporti, della Giustizia, della Salute, e delle Riforme. Ha avuto centinaia fra sottosegretari, sindaci, assessori, governatori, e boiardi. La Lega è attualmente al governo locale in quasi tutto il Nord. Matteo Salvini è in politica da 25 anni. Eppure riesce ancora a spacciarsi per un outsider, convincendo gli italiani che la causa dei loro guai non sia la parassitaria classe dirigente della quale fa parte, ma i profughi appena scampati ai lager libici avallati dall’Europa.
Il Movimento 5 Stelle governa da anni Torino e Roma, amministrando l’ordinaria amministrazione con ordinaria incompetenza, senza turbare minimamente lo status quo politico economico. E ogni giorno a colazione si rimangia uno dei suoi principi “non negoziabili”. Il più recente è stato il veto alle Olimpiadi. Un record. “O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”. Alla prova del governo locale, e della ghiotta prospettiva del governo nazionale, il Movimento 5 Stelle si sta rivelando così ragionevole, responsabile e compatibile con quel sistema di potere che diceva di voler combattere che adesso l’establishment sembra preferire lui alla Lega di Salvini, e a colui che aveva promesso di tenerla “sotto controllo”, cioè Berlusconi.
All’ex Cavaliere, invece, l’ennesima resurrezione è riuscita solo a metà. Salvini non può permettersi di scaricarlo tanto facilmente, pena la caduta di troppe giunte regionali e comunali, ma al momento le élites sembrano fidarsi più delle rassicurazioni grilline.
Come siciliano, Mattarella sa bene che a volte bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Le possibili alchimie sono tante, a cominciare da quelle che potrebbero scaturire da una decomposizione del PD. Dai diamanti non nasce niente, ma dal PD potrebbe nascere di tutto. Sempre sconfitto alle elezioni, pur di piazzarsi ugualmente al governo, il PD finora è stato pronto ad allearsi con chiunque. Ha sostenuto i tecnici di Monti e la loro macelleria sociale, ha governato con Berlusconi e con tutti i suoi fuoriusciti, da Verdini ad Alfano, nominandolo prima ministro dell’Interno e poi degli Esteri; ha imbarcato riciclati, rianimati, e scilipoti d’ogni specie. Non sono quindi motivazioni etiche né di coerenza politica a trattenere la maggioranza del PD dal saltare sul carro del Movimento 5 Stelle, ma l’istinto di sopravvivenza. Governare come socio di minoranza del Movimento, con un Salvini all’opposizione che ogni giorno strilla “Inciucio!” da tutte le reti di Berlusconi, il quale a sua volta grida al sesto golpe consecutivo, significherebbe alle successive elezioni sparire definitivamente.
Appena quattro anni fa, il PD era era stato affidato al giovane rampante Matteo Renzi perché lo guidasse alla maggioranza assoluta, e invece l’ha schiantato contro un muro, dieci volte di seguito. In soli quattro anni, con le sue controriforme e la sua narrazione, ha perso tutto quello che c’era da perdere. A oggi, Renzi sembra coetaneo di Berlusconi. Il suo disfacimento è stato rapido quanto il suo sviluppo.
Al PD, se non si decompone, non resta che puntare a un altro stallo all’italiana stile 2013, che alla fine costringa tutti a quel Governissimo che era l’obiettivo originale del Rosatellum.
Nel frattempo resta in carica il conte Gentiloni, a cui Mattarella ha prescritto di non dimettersi proprio perché potesse rimanere a gestire gli affari correnti in una condizione di sostanziale impunità, tecnicamente già all’opposizione benché ancora al potere. Un governo di Schrödinger, contemporaneamente vivo e morto, mentre il presidente cerca di persuadere a convergere nello stesso esecutivo tutti quelli che si sono reciprocamente chiamati ladri, mafiosi, fascisti, assassini, rincoglioniti, analfabeti e zombie, e che hanno giurato di rottamarsi a vicenda. E non sarebbe neanche il suo dovere. La responsabilità di fare proposte costruttive sarebbe in teoria del vincitore. Se non ce ne fossero due, che hanno semi-vinto anche grazie alla loro ostentata irresponsabilità. Giurista, democristiano, e italiano, Mattarella sa bene che comunque tutti i governi sono fatti per cadere. Se ogni tentativo fallisse, scioglierà le Camere, e si tornerà a votare. Ogni sei mesi. Finché non avremo imparato.