Facciamo gli anti-americanisti usando slogan, cultura e strumenti americani. È una ipocrisia. - THE VISION

Un giorno lessi una scritta curiosa su un muro: “Cristoforo Colombo poteva farsi i cazzi suoi”. La trovai divertente, ma per la logica del fa ridere ma fa anche riflettere iniziai a interrogarmi sull’odio che gran parte del mondo nutre, direttamente o indirettamente, per gli Stati Uniti. Io l’America l’ho sempre avuta sotto il naso. Qui a Catania le ragazze vanno a ballare a Sigonella, sposano soldati americani e si trasferiscono a Cincinnati, a Cleveland o a Seattle. Non ero ancora nato nel 1985, quando proprio a Sigonella si sfiorò la crisi irreversibile tra Craxi e gli Stati Uniti. Non ero nato nemmeno quando l’antiamericanismo tornò di moda durante la guerra in Vietnam. I miei genitori erano in piazza per chiedere agli yankee di tornare a casa. Andavo però al liceo quando in piazza ci scendevo io e gli americani erano i nemici a cui chiedere di smettere di “esportare la democrazia” con le loro orrende guerre in Iraq e in Afghanistan. Lì capii per la prima volta che c’era un’altra America fuori da Hollywood e da Elvis. Il sentimento contro l’America era un collante identitario. La pena di morte, le armi vendute al supermercato, il capitalismo, l’esistenza basata sul dio denaro, Bush padre e figlio: c’erano insomma tutti gli elementi per portare un adolescente sognatore, e non solo, a detestare quel tipo di mondo, che spesso veniva e viene considerato un vero e proprio modello da cui prendere esempio.

Crescendo, l’integralismo ha lasciato spazio a nuove riflessioni. L’antiamericanismo, che in questo periodo pulsa con una rinnovata veemenza, viene espresso con modalità bizzarre che spesso mi disorientano. Che vengano da destra o da sinistra, nel 2024 le proteste contro gli Stati Uniti hanno linguaggi e ideologie che abbiamo inconsapevolmente importato da loro. E non solo perché vengono propagandate da un un dispositivo probabilmente americano, scrivendo su un social americano, ripetendo concetti americani, ma questo perché si tenta di sconfiggere un sistema usando gli stessi codici da esso generati. In poche parole: siamo antiamericanisti con il mindset americano.

In Italia la destra antiamericanista da anni si concentra su alcune battaglie specifiche. Penso alla cancel culture, all’ideologia woke o agli infiniti dibattiti sul politically correct. Si scaglia contro Netflix per la politica estrema dell’inclusività e in generale contro quella che considera una “deriva americana”, una minaccia erroneamente associata alla libertà di pensiero. I destrorsi che puntano il dito contro gli Stati Uniti in realtà si aggrappano a termini che nel nostro Paese non possono avere le stesse connotazioni. E dunque il politically correct è una copertura del proprio vittimismo strumentalizzato da qualche politico retrogrado per non essere accusato di razzismo o dai Pio e Amedeo di turno per far credere che negro e frocio siano simpatici appellativi tra amici. La stessa cultura woke in Italia ha sfumature solo accennate, e il massimo dell’ostruzionismo è sul tema schwa, che negli Stati Uniti nemmeno esiste. Quindi a destra si appropriano di parole americane usandole a modo loro, ripetono a pappagallo gli slogan dei conservatori repubblicani, brucerebbero la bandiera a stelle e strisce, ma sono dei cloni di Joe Rogan, inconsapevolmente imbevuti di quella cultura che, attraverso il soft power, è diventata capillare anche in Europa, continente che pure nei lamenti sembra sempre di più il ventriloquo degli Stati Uniti. 

A sinistra la situazione non è tanto differente. Gli Stati Uniti vengono visti giustamente in modo negativo per tematiche sociali come le violenze della polizia contro gli afroamericani, la pena di morte o la Sanità nazionale. Anche qui, gli slogan e i movimenti di riferimento usati per combattere razzismo e violenza sulle donne vengono direttamente dagli Stati Uniti, come per esempio il MeToo o il Black Lives Matter. L’antiamericanismo di sinistra si basa anche sulle sacrosante battaglie contro il greenwashing e il pinkwashing. Pure in questo caso, ideologicamente si combatte contro storture del capitalismo americano, ed è giusto che sia così. Il punto è che troppo spesso ci si dimentica che le principali azioni di contrasto contro questi fenomeni vengono proprio dagli Stati Uniti. Il termine greenwashing è stato coniato nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, e pinkwashing nei primi anni Zero dagli attivisti dell’organizzazione, anch’essa americana, Breast Cancer Action. Ci ritroviamo quindi davanti all’ennesimo paradosso del soft power a stelle e strisce: sia il problema sia la soluzione hanno matrice americana.

La potenza degli Stati Uniti nella cultura di massa si nota proprio nel processo che porta a rendere un po’ tutti noi degli americani. Qui entra in gioco la Storia a ribaltare la prospettiva: non siamo noi a essere diventati americani, sono loro a essere degli europei in una terra diversa. Sin dalla colonizzazione dopo la sua scoperta, l’America – e in particolare quelli che sono poi diventati gli Stati Uniti – ha basato il suo culto e le sue fortune sulle nostre migrazioni. Siamo stati noi – inglesi, olandesi, francesi e via dicendo – a cancellare i nativi americani, i popoli indigeni. Siamo stati noi, e qui in larga parte anche gli italiani, a cercare fortuna in quelle terre nel Novecento, rendendolo il secolo americano. Dobbiamo quindi renderci conto che stiamo riversando l’acredine contro noi stessi, a meno che non vogliamo prendercela con qualche povero cristo confinato in una riserva indiana accanto a un casinò.

Certo, di generazione in generazione gli europei-americani hanno modificato i propri tratti genetici, aggrappandosi a un patriottismo che ha in parte sciolto i legami con il proprio sangue. E proprio nel Novecento l’antiamericanismo ha assunto tratti ben delineati segnando un confine tra loro e noi. Restando all’Italia, i primi pruriti sono arrivati in seguito alla vicenda di Sacco e Vanzetti. Poi è stato il fascismo a chiudere i ponti. Mussolini ha proibito forestierismi – e ci sta riprovando qualche ministro dell’attuale governo – e ha impedito l’arrivo della cultura statunitense nel nostro Paese. Gli scritti di Hemingway erano vietati, il fumetto Topolino, versione italiana del personaggio americano Mickey Mouse, venne sostituito da Tuffolino, Luis Armstrong veniva chiamato Luigi Fortebraccio. Persino la pastasciutta era nemica del fascismo, in quanto cibo associato agli italoamericani: Mussolini e D’Annunzio tentarono di sostituirla con il più patriottico riso delle nostre mondine. La tregua avvenne con l’intervento statunitense nella Seconda guerra mondiale per liberarci dal nazifascismo. Inoltre, attraverso il Piano Marshall, gli Stati Uniti ci riempirono di soldi per ricostruire il Paese e lanciarlo verso il boom economico. In cambio sul nostro suolo sorsero basi militari americane. Per alcuni il giusto prezzo da pagare per una guerra persa e per un aiuto nella rinascita, anche se da anni quel sentore di sudditanza non è mai andato via.

Gli Stati Uniti restano tuttora l’epicentro del capitalismo e di paradossi di ogni tipo. Mi sono accorto però che le maggiori critiche all’American Dream vengono proprio da lì. In qualche modo è una democrazia difettosa, ingenua, brutale, ma con gli anticorpi. Se c’è da protestare per una guerra a stelle e strisce sbagliata, i primi a scendere in piazza sono i membri dello star system americano. Lo stesso dicasi quando ci si rende conto che gli Stati Uniti non stanno rispettando gli accordi sull’ambiente per la salvaguardia del pianeta. Guardo Susan Sarandon mentre si fa arrestare su un marciapiede durante una protesta per il salario minimo o Leonardo DiCaprio che si presenta alla Casa Bianca per sollecitare Obama ad agire per la salvaguardia del pianeta e penso che sono questi gli anticorpi. Il mio stesso pensiero critico è stato plasmato da scrittori americani che gettavano letame sull’America, da Roth a McCarthy. Fahrenheit 9/11 è di un regista americano, non nordcoreano. Mi son dunque detto che Michael Moore ha vinto un Oscar mentre Anna Politkovskaja è stata ammazzata, e forse anche l’antiamericanismo che alberga in me deve se non altro cambiare prospettiva.

Riconosco però come non sia facile farlo nell’epoca della polarizzazione. L’esempio della Russia che invade l’Ucraina calza a pennello. Una cospicua porzione della popolazione, soprattutto in Italia, ha dato vita a un fenomeno inedito: per la prima volta non è stato chiesto all’invasore di tornare a casa, ma all’invaso di arrendersi. Uno dei motivi principali è proprio l’antiamericanismo. Il supporto degli Stati Uniti e della Nato al popolo ucraino e la conseguente contrapposizione alla Russia ha generato un moto di collisione contro il passato guerrafondaio statunitense, senza concentrarsi sul presente. Non si riesce a scindere un fatto dal suo retropensiero, un avvenimento dalle scorie del passato. Bisogna essere fedeli alla linea sempre. Dunque se per una vita è stato criticato l’interventismo americano, adesso “il nemico del mio nemico è il mio amico”. È invece possibile, e probabilmente doveroso, condannare contemporaneamente la Russia per la distruzione dell’Ucraina e gli Stati Uniti per l’omertà di fronte alla distruzione di Gaza.

Chi era in piazza negli scorsi decenni per chiedere agli yankee di tornare a casa non si deve vergognare di chiedere lo stesso, adesso, alla Madre Patria Russia. Invece tra veterocomunisti e antiamericanisti per partito preso stiamo assistendo alla contorsione del dibattito pubblico, all’obbligo di schierarsi a tutto campo da un lato o dall’altro. Io mi sento bloccato, impotente, vorrei urlare al mondo che detesto le armi sul comodino degli americani e al contempo amo Fitzgerald e Faulkner; che Hiroshima e Nagasaki sono una macchia indelebile dell’umanità e gli hamburger sono buoni; che ho provato vergogna per i bombardamenti a Kabul e a Mariupol nello stesso modo; che Las Vegas è la città più pacchiana del mondo e New Orleans una delle più belle. Verrei però tacciato di schizofrenia: nel 2024 posso solo essere antiamericanista o atlantista, non esistono vie di mezzo. E pazienza se me lo comunicheranno con mezzi più americani di Taylor Swift che bacia il campione di football americano al Super Bowl; sarò comunque dalla parte del torto e a dirmelo sarà un antiamericanista con una maglietta della Marvel.

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