Le piante si estinguono 2 volte più velocemente di mammiferi, uccelli e anfibi messi insieme

Il panda è forse l’animale a rischio estinzione più conosciuto al mondo. Fin dagli anni Quaranta il governo cinese ha promosso la nascita di riserve protette, il Wwf lo ha scelto come suo simbolo e da tutto il mondo arrivano donazioni per proteggerlo. Il panda è solo una delle specie in pericolo, ma anche per altri animali esistono programmi di sensibilizzazione e di difesa, nel giusto tentativo di rimediare ai danni che l’azione dell’uomo sta causando al Pianeta e agli esseri viventi che lo abitano. Andrebbe fatto anche per le specie vegetali in pericolo, ma per loro non si assiste allo stesso livello di mobilitazione. Uno studio svolto dai ricercatori dei Kew Gardens di Londra e dell’Università di Stoccolma, pubblicato a giugno su Nature, Ecology & Evolution con il titolo Global dataset shows geography and life form predict modern plant extinction and rediscovery, mostra uno scenario allarmante per la biodiversità vegetale. Basandosi su ricerche sul campo, dati degli archivi internazionali, studi e osservazioni di musei ed erbari di tutto il mondo, la ricerca ha dimostrato che il tasso di estinzione delle specie vegetali è molto più alto di quello del regno animale: le piante si estinguono due volte più velocemente di mammiferi, uccelli e anfibi messi assieme.

La ricerca – distinguendo tra specie “estinte”, “estinte allo stato selvaggio”, “gravemente in pericolo”, “in pericolo”, “vulnerabili” e “a basso rischio” – mostra numeri fino a ora gravemente sottostimati, anche a causa delle difficoltà di ricerca e catalogazione in questo ambito, come dimostra l’ampia sezione di specie non classificate per “dati insufficienti”. Con 571 specie di piante scomparse negli ultimi 250 anni, le perdite subite dal regno vegetale viaggiano a ritmo doppio rispetto a uccelli, mammiferi e anfibi messi insieme. Il bilancio potrebbe essere ancora più alto, considerando che la conoscenza della popolazione vegetale di alcune aree del globo (soprattutto America meridionale e Africa subsahariana) è ancora limitata. L’ondata di estinzioni, comunque, colpisce soprattutto le regioni temperate, come quelle mediterranee e subtropicali, caratterizzate da una maggiore biodiversità. Le ricerche condotte dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), istituito dall’Onu che monitora e tutela lo stato della biodiversità, hanno dimostrato che sono complessivamente un milione le specie a rischio di estinzione, e di queste circa il 14% sono piante.

Nel corso della storia si sono verificate estinzioni per così dire fisiologiche (dette “di fondo”), dovute al cambiamento delle condizioni ambientali non influenzato dall’azione dell’uomo, ma si è sempre trattato di fenomeni graduali e diluiti in un lungo periodo di tempo. Quella a cui stiamo assistendo in questi anni, invece, è fino a 500 volte più veloce del normale. È vero che alcune piante ritenute estinte in passato in realtà non lo sono: l’errore può essere dovuto a difficoltà relative alla ricerca e al recupero dei dati esistenti o alla loro assenza. Purtroppo non è il caso della scomparsa di massa messa in luce dallo studio dei ricercatori di Londra e Stoccolma; inoltre, quando si scoprono degli esemplari di una specie che si riteneva estinta c’è poco da festeggiare, come sottolineano i ricercatori stessi nelle dichiarazioni riportate da Greenreport: “La riscoperta di una specie ritenuta estinta spesso significa trovare solo pochi individui sopravvissuti e il 90% delle piante riscoperte ha ancora un alto rischio di estinzione […] Sfortunatamente, di solito non significa che una specie sia viva e vegeta”.

La responsabilità della recente estinzione di massa è in gran parte dell’uomo: tra le cause principali ci sono infatti la degradazione dei terreni, l’inquinamento (da plastica, ma anche da pesticidi, solventi e metalli pesanti) e la pesca su scala industriale. A tutto questo si aggiunge la distruzione degli habitat naturali di numerose specie vegetali, con la cementificazione per l’espansione delle aree urbane, ma soprattutto per far spazio agli allevamenti intensivi e dell’agricoltura industriale. È quello che accade, ad esempio, in Amazzonia, specialmente nell’area brasiliana della regione dove vaste porzioni di foresta pluviale vengono regolarmente annientate per essere sostituite da coltivazioni di soia, necessaria a nutrire i bovini degli allevamenti intensivi di tutto il mondo. Negli ultimi anni è stato raggiunto un picco nella perdita di foresta amazzonica brasiliana, con oltre 1200 migliaia di ettari distrutti nel 2016 e un’attività di disboscamento che dal giugno del 2018 a quello del 2019 ha registrato un aumento del 60%. La distruzione non è solo il frutto delle attività illegali, ma anche delle politiche del governo brasiliano, soprattutto dall’elezione di Jair Bolsonaro alla guida del Paese: sostenuto dalle lobby economiche a favore dello sfruttamento intensivo della regione Amazzonica, ha ridotto il budget destinato all’Istituto brasiliano per l’Ambiente e le Rinnovabili pochi giorni dopo il suo insediamento.

Foresta amazzonica, Brasile

Un’altra minaccia al regno vegetale è lo sfruttamento intensivo del legname e di altri prodotti naturali per scopi commerciali, senza un’attività di rimboschimento per limitarne l’impatto.   Esistono diversi casi di specie scomparse per questo motivo, come accaduto nel secolo scorso per il Sandalo del Cile (Santalum fernandezianum), il cui legno profumato è stato sfruttato al punto da causarne la scomparsa all’inizio del Ventesimo secolo, meno di trecento anni dopo la sua scoperta. Queste responsabilità sono aggravate dal disinteresse verso il mondo vegetale dell’uomo, che dimentica come in natura gli ecosistemi si reggano su equilibri perfetti, ma molto delicati. Come ricorda lo studio pubblicato su Nature, Ecology & Evolution, “L’estinzione delle piante mette in pericolo altri organismi, ecosistemi e il benessere umano, e deve essere compresa per programmare un’effettiva conservazione”.

La sfida dei prossimi anni è mettere la tutela delle piante del Pianeta al centro del dibattito pubblico, dato che tra gli effetti positivi della riforestazione e della conservazione delle specie esistenti ci sono la tutela della biodiversità, il miglioramento delle riserve globali di acqua dolce e il miglioramento delle temperature globali. Non è neanche superfluo preoccuparsi per l’estinzione di piante scoperte solo di recente (e quindi non utilizzate dall’uomo), perché lo scopo dello studio è creare una casistica di tempi e modalità delle estinzioni avvenute o in corso per impedire che ne accadano in futuro. Inoltre, se anche una specie è sconosciuta agli scienziati o all’interesse del mercato, non significa che non sia utile a qualche popolazione che la sfrutta localmente o all’intera umanità, grazie al suo contributo alla qualità dell’aria e al contrasto dell’inquinamento.

Lo studio Global restoration opportunities in tropical rainforest landscapes, pubblicato a inizio luglio su Science Advances, ha tratteggiato un piano  di riforestazione, individuando le aree in cui questa ha maggiori possibilità di successo. L’intervento dovrebbe concentrarsi nelle regioni tropicali, dove  sono stati individuati degli hotspot in cui la riforestazione avrebbe il miglior rapporto tra costi e benefici e un impatto positivo. Nel complesso, si tratta di circa 100 milioni di ettari, localizzati  in aree considerate “hotspot per la conservazione della biodiversità” già 18 anni fa; oggi la prospettiva che muove i ricercatori non è però la conservazione di una specie particolare, ma la difesa di interi ecosistemi. Secondo gli scienziati, anche le aree che non rientrano negli hotspot possono essere oggetto di interventi di protezione che tutelino sia le economie locali che l’ambiente, ad esempio investendo nell’agroforestazione.

Anche se non possiamo più negare i danni che abbiamo causato all’ecosistema, vegetale e non, siamo ancora in tempo per sistemare le cose: non solo è necessario, ma è anche economicamente sostenibile. Sommersi dai nostri rifiuti e soffocati dall’inquinamento e dal cemento di cui ci siamo circondati, dobbiamo renderci conto il prima possibile della gravità dell’emergenza che abbiamo creato, abbandonando la strada di un omicidio di massa che ha sempre più i contorni di un suicidio collettivo.

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