La legge Basaglia: da rivoluzione a psichiatria di collocamento

La mia vita è sempre stata molto influenzata da loro, i miei genitori, e dalle loro esperienze. Nonostante abbia vissuto in altre città o in altri Paesi, parlato altre lingue e fatto esperienze a mia volta, sono sempre tornati in tutte le mie relazioni, al momento della fatidica domanda: “Che lavoro fanno i tuoi?” “Psichiatri.” “Tutti e due?” “Tutti e due,” con conseguente occhio spalancato dell’interlocutore. Questo stupore – che mi ha sempre un po’ irritato – è il segno più evidente del fallimento dell’utopia di Franco Basaglia, che oltre a essere promotore della legge quadro che ha ridisegnato i servizi psichiatrici in Italia (la 180 emanata il 13 maggio di 40 anni fa) voleva cambiare la società e il suo rapporto con la salute (e la malattia) mentale. Perché l’idea era “Liberare liberandosi”, riportare la follia nel posto in cui appartiene, la società, ma purtroppo ancora lo stigma e la paura del malato mentale sono ancora ben presenti. Secondo il mio lessico famigliare, invece, il “matto” non era niente di spaventoso o strano, così come gli altri personaggi che frequentavano la famiglia, psichiatri, infermieri, operatori, psicoterapeuti, sociologi e assistenti sociali. E, poiché dal loro punto di vista stavano facendo la rivoluzione, erano sempre tutti insieme: in vacanza, la domenica, la sera tardi. E noi bambini con loro.

Manicomio di Mombello – foto di Vincenzo Aragozzini, tratte da “Era Mombello”

A Firenze il Sessantotto era iniziato con gli scontri tra studenti e polizia il 30 gennaio in Piazza San Marco, un mese prima della battaglia di Valle Giulia, e la contestazione investiva anche la facoltà di medicina, in particolare gli studenti già decisi a specializzarsi in psichiatria. Molti di loro avevano optato per questa strada proprio grazie a Basaglia, che già da tempo rappresentava un esempio di coraggio contro un sistema obsoleto e oppressivo. Nel 1961, arrivato come direttore all’ospedale psichiatrico di Gorizia, si rifiutò di firmare gli ordini per la “contenzione”, cioè l’immobilizzazione, degli ospiti dell’ospedale. Un gesto che segnò l’inizio della fine dei manicomi. Fra quegli studenti che avevano scelto psichiatria nel 1968 a Firenze c’erano anche i miei genitori. Loro, insieme a un piccolo gruppo di compagni di corso, avevano chiesto e ottenuto di entrare a San Salvi, l’ospedale psichiatrico della città attivo dal 1890. Il direttore era il professor Mario Nistri, mentre tra gli psichiatri c’erano Graziella Magherini, Giuseppe Germano – ora presso la Fondazione Michelucci di Firenze – e Alberto Parrini, già orientati verso un nuovo modo di fare psichiatria. Mio padre, il professor Maurizio Ferrara, racconta che all’epoca c’erano due reparti più attivi dove già si facevano assemblee e dove lui e mia madre andarono a fare volontariato, ma in genere la situazione era quella degradante simile a tutti gli altri ospedali psichiatrici in Italia. Esistevano ancora i nomi dei reparti che venivano dalla legge del 1904 sugli “alienati” – gli agitati, gli epilettici, gli alcolisti, i minori – persone che non avevano nessuno. “La parte fondamentale di questa storia,” racconta mio padre, “è che il manicomio ricoverava la povera gente, non solo per povertà, c’era anche la malattia, ma certo chi aveva i soldi andava nelle case di cura.” C’era anche il “reparto merde”, riservato ai gravissimi insufficienti mentali che non erano in grado di andare in bagno da soli. Quando i miei iniziarono a frequentare San Salvi era dizione comune, ed era parte del disprezzo generale dell’individualità e dell’umanità dei pazienti psichiatrici. “Quando siamo arrivati,” ricorda la dottoressa Giuliana Archi, mia madre, “c’erano ancora gli stanzoni senza nulla, con i pazienti sporchi seduti dove capitava e il reparto femminile era ancora peggiore, con donne sedute sul pavimento, schiena appoggiata alla parete, e un puzzo di urina rivoltante che è rimasto per anni, anche dopo la ristrutturazione.”

Anche mia madre entrò all’ospedale psichiatrico nel 1968 come volontaria; poi, nel 1975, fu assunta dalla Provincia come medico psichiatra. La riforma Basaglia e la chiusura dei manicomi non arrivarono come una cosa improvvisa: in Inghilterra era già attiva l’esperienza delle comunità terapeutiche e della cosiddetta antipsichiatria, mentre in Francia la psichiatria di settore e la psicoterapia istituzionale segnavano l’ingresso della cultura psicoanalitica negli ospedali dedicati. In Italia, intanto, erano nati dei movimenti, con cui i medici erano in contatto diretto. Nel ‘77, ad esempio, ci fu un importante convegno femminista a San Salvi intitolato “Donne e Follia” che portò a gruppi di lavoro in cui molte psichiatre si impegnarono per tutto l’anno. Il movimento, secondo mia madre, si occupava di manicomi perché erano un elemento di esclusione facile da evidenziare che in quel momento risultava altrettanto da ribaltare. Poi, la legge. “La prima notte della sua promulgazione,” mi racconta ancora mia madre, “portarono da me una ragazza di sedici anni con la richiesta di ricovero: io avevo già la fotocopia della 180 pubblicata in Gazzetta ufficiale, quindi decisi che poteva essere mandata in un ospedale generale, evitandole il ricovero in manicomio. I miei colleghi pensavano avrei passato dei guai, ma così non fu.”

Una volta entrati a San Salvi, questi studenti appoggiarono una rivendicazione sindacale, con grande fastidio degli infermieri. La battaglia era volta a far avere ai pazienti un armadietto e un comodino personali, visto che ai tempi esisteva il “cestone di tutti”, da cui ognuno poteva pescare una giacca, dei pantaloni, le mutande – l’ennesima misura tesa a negare l’individualità dei pazienti. Ma uno dei maggiori problemi non era convincere i medici o gli infermieri, bensì riattivare persone che per trent’anni erano state completamente passivizzate, spogliate di qualsiasi desiderio o impulso, azzerate per qualsivoglia tipo di autodeterminazione. Basaglia sulla malattia aveva idee molto chiare: negli ospedali andavano prima di tutto eliminate quelle misure e atteggiamenti che portavano il malato a sentirsi isolato, umiliato, anonimo, recluso e privo di stimoli. Il manicomio, attraverso la segregazione, portava infatti il malato a un’inabilitazione dal punto di vista sociale.

Non erano solo i lacci fisici a legare i malati mentali al letto: c’erano da una parte i farmaci utilizzati non come terapia, ma soprattutto come contenimento, e dall’altra l’elettroshock, pratica che gli specializzandi della clinica psichiatrica all’Ospedale di Careggi, aperta nel 1972, iniziarono a sabotare, finché non venne più praticata. L’idea era quella di produrre un forte trauma che potesse fare da contro-trauma a quello che faceva stare male psicologicamente il paziente. L’elettroshock, secondo gli studenti, era però una tecnica estremamente invasiva e non sufficientemente scientifica; non era supportata da una spiegazione meccanico-biologica, bensì epidemiologica, non era cioè possibile capire con esattezza che cosa succedesse alla persona. Si sapeva solo che a volte funzionava.

Mio padre continuò a lavorare nella Clinica Universitaria e iniziò a insegnare all’Università. Mia madre, invece, da San Salvi si trasferì per lavorare in provincia di Firenze: lo scopo della riforma era infatti quello sottrarre i malati al manicomio e riportarli nei propri territori, così che fosse la comunità locale a farsi carico dei pazienti. Nascevano allora i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), Centri di Salute mentale, centri di crisi e strutture intermedie di cura locali (case famiglia, centri diurni). Mia madre lavorò nella zona del Mugello e poi si spostò all’SPDC di Pontassieve, ricavato da una piccola clinica privata; poi, negli anni Novanta si spostò all’ospedale di Ponte a Niccheri, nella campagna sud di Firenze, e lavorò all’apertura di un nuovo servizio un Centro Diurno a Bagno a Ripoli, per garantire residenze e attività aperte a tutti. Nel 1996 si formò la squadra di pallavolo e ne diventai allenatrice: furono anni meravigliosi e insieme terribili. Meravigliosi perché i pazienti psichiatrici spesso non hanno filtri e i loro sentimenti ti investono, diretti e forti, nel bene e nel male, arricchendoti molto; terribili, perché ci si accorge in fretta che non sono troppo diversi da noi, e viene da chiedersi se mai capiterà di trovarsi dall’altra parte. Proprio grazie allo sport nacque un movimento straordinario e poco raccontato, quello delle polisportive sociali, in cui non esistevano più paziente, infermiere o dottore, ma c’erano solo i soci. La nostra si chiamava “Rugiada” e alla squadra di pallavolo si erano aggiunte quella di calcio e quella di vela, e all’inizio degli anni 2000 iniziammo a organizzare un meeting annuale di una settimana, a cui invitammo tutte le polisportive sociali d’Italia. Non so se il meeting annuale venga ancora organizzato o meno, ma le polisportive funzionano ancora e si stanno espandendo – basta una banale ricerca su Google per rendersene conto.

Manicomio San Salvi – foto di Renato Bartolozzi

Oggi i miei sono entrambi in pensione, come molti dei pionieri fiorentini dell’epoca, alcuni dei quali sono persino deceduti, come il già citato Parrini e Carmelo Pellicanò, ultimo direttore di San Salvi. Oggi l’istituto è presidiato da un gruppo teatrale, i Chille de la Balanza di Claudio Ascoli, gli unici che sembrano avere davvero a cuore la memoria di quel luogo. Mio padre sostiene che la psichiatria ha perso quell’idea iniziale di dare una risposta complessa a un problema complesso come quello della malattia mentale. Oggi la psichiatria sarebbe diventata una “psichiatria di collocamento”, in cui gran parte dell’interesse nei confronti dei pazienti cronici è volto alla loro collocazione: un interesse che non riguarda la terapia, ma che mira a organizzare un nuovo modo di internare. Anche questo, per la verità, era stato previsto da Franco Basaglia, persona lungimirante che nel momento in cui si stava mettendo a punto la legge 180, aveva avvertito i colleghi del pericolo di costruire un’organizzazione legislativa che sarebbe andata contro il metodo di trasformazione della società, con un rivolgimento rivoluzionario nei confronti dei malati mentali. Aveva previsto il rischio di promuovere, anziché di liberarsi, dell’istituzione, trasformatasi da “totale” a molle. Un’istituzione più civile, che non avrebbe indignato, ma pur sempre istituzione, dominata dalla funzione. Sono passati 40 anni dalla promulgazione della Legge Basaglia, ma chissà quanto tempo ci vorrà ancora prima che le idee dello psichiatra veneziano vengano finalmente applicate.

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