La storia della ginecologia moderna è stata scritta sul corpo delle schiave afroamericane

Nel 1844 a Mount Meigs, Alabama, in una piantagione nacque il primo ospedale femminile degli Stati Uniti. La struttura era diretta da un luminare della medicina americana, considerato ancora oggi tra i padri della ginecologia moderna, James Marion Sims. Sims all’epoca era un trentenne ed esercitava la professione da una decina d’anni, ma non aveva ancora intrapreso gli studi sull’apparato riproduttivo femminile che l’avrebbero poi fregiato di questo titolo. Quando il proprietario della piantagione di Mount Meigs lo chiamò per curare le sue schiave affette da fistole vescico-vaginali – all’epoca un esito comune dei parti difficili, considerato incurabile – Sims scoprì il suo interesse per la ginecologia. Nell’ospedale per circa quindici anni lavorarono con lui tre schiave, Anarcha, Betsy, Lucy, e almeno altre nove donne mai identificate. La maggior parte delle scoperte e degli studi di Sims si svolse non solo sfruttando il lavoro di queste donne, ma anche facendo esperimenti su di loro senza anestesia.

Il 2 marzo 1807 il congresso americano votò per cessare la tratta atlantica degli schiavi, provvedimento che diventò effettivo a partire dal 1° gennaio 1808. Negli Stati Uniti si trovava infatti già una popolazione di 4 milioni di persone provenienti dall’Africa e non c’era bisogno di aumentarla, dal momento che la chiusura della tratta non implicava l’abolizione della schiavitù: i figli degli schiavi lo diventavano a loro volta in maniera automatica. Fu a partire da questo momento che la comunità scientifica degli Stati Uniti si interessò particolarmente alla ginecologia: era necessario infatti che le donne fossero in grado di fare molti figli in salute e che non morissero di parto, per assicurare sempre nuova manodopera gratuita. Fino al diciottesimo secolo infatti la ginecologia si basava ancora sulle conoscenze dei greci e dei romani e la chirurgia era pressoché assente. In generale si utilizzava il salasso come cura generica, oppure si riconducevano i problemi ginecologici alla malattia mentale, in particolare all’isteria. Nel 1809, il dottor Ephraim McDowell asportò per la prima volta un tumore ovarico a una donna bianca che era convinta di essere incinta di due gemelli. L’operazione si svolse senza anestesia e fu eseguita intenzionalmente il giorno di Natale, per avere una più sicura benedizione divina. Questa storica operazione è considerata da molti l’inizio della ginecologia moderna, anche se all’epoca McDowell venne disprezzato: era considerato quasi un sacrilegio aver “profanato” con il bisturi il ventre di una donna bianca. Gli scienziati gli consigliarono di provare in futuro questo genere di esperimenti sulle donne nere, “che sopportano di essere tagliate con una simile indifferenza, se non la stessa, di cani e conigli”.

Robert Thom, “Illustration of Dr. J. Marion Sims with Anarcha”; Pearson Museum, Southern Illinois University School of Medicine

Era infatti una credenza molto diffusa che le persone nere avessero una forza fisica e una soglia di sopportazione del dolore molto più alta dei bianchi, giustificata dalle teorie razziste. Queste teorie erano estremamente contraddittorie e sostenevano che il corpo nero fosse biologicamente inferiore, ma in qualche modo dotato di qualità che i bianchi non avevano, come un’eccezionale resistenza o addirittura capacità soprannaturali. La storica Deirdre Cooper Owens, nel suo saggio Medical Bondage. Race, Gender, and the Origins of American Gynecology, scrive che i dottori di quel tempo consideravano le donne nere dei “super-corpi medici”: si credeva che non provassero alcun dolore e anche che non vi fossero particolari differenze con il corpo maschile. Per questo, anche durante la malattia, la gravidanza o pochi giorni dopo un parto ci si aspettava che le donne continuassero a lavorare come se nulla fosse, e le punizioni che venivano inflitte loro erano le stesse degli uomini.

Nella piantagione di Mount Meigs, però, le schiave affette da fistole vescico-vaginali non riuscivano a lavorare in alcun modo. La prima paziente di James Marion Sims fu la diciassettenne Anarcha, che il dottore aveva già assistito durante il parto. Sims decise di creare un piccolo ospedale, non solo per poter curare le pazienti, ma anche per praticare esperimenti su di loro e studiare i numerosi problemi ginecologici che vivevano le schiave, continuamente sottoposte a stupri e gravidanze non volute. Assunse due medici specializzandi che però, di fronte ai continui fallimenti iniziali del medico, decisero di lasciare l’ospedale. A questo punto a Sims, che nel frattempo si era anche attirato le antipatie della comunità locale, non rimaneva altra possibilità che istruire le sue stesse pazienti, che acquistò e che diventarono contemporaneamente soggetti dei suoi esperimenti e sue assistenti. Si creò quindi una situazione paradossale: le donne nere erano viste come delle cavie e spesso trattate come tali, i loro corpi venivano disprezzati, ma allo stesso tempo erano necessari. Più che corpi malati da curare, fa notare Owens, erano trattate come oggetti rotti che necessitavano di essere aggiustati. Anarcha fu sottoposta a trenta operazioni chirurgiche prima che Sims riuscisse a chiudere la sua fistola. E contemporaneamente doveva lavorare come infermiera e tuttofare. Le operazioni si svolgevano tutte senza anestesia: se è vero che all’epoca si trattava di un’opzione costosa e anche pericolosa, non appena Sims cominciò a operare pazienti bianche garantì a tutte la sedazione. Anarcha, Betsy, Lucy e le altre nove donne mai identificate che diventarono le aiutanti del dottor Sims furono indispensabili per lo svolgimento delle sue ricerche. “Se gli uomini bianchi della medicina sono elogiati come i ‘padri’ della ginecologia moderna”, scrive Owens, “Le donne nere, specialmente quelle che furono schiavizzate, possono essere a buona ragione considerate le ‘madri’ di questa branca della medicina per il ruolo che ebbero in quanto pazienti, infermiere delle piantagioni e ostetriche. I loro corpi resero possibili le ricerche che produssero i dati necessari ai dottori bianchi per scrivere i loro articoli sulle malattie, la farmacologia, i trattamenti e le cure ginecologiche”.

Foto di Henry P. Moore

Ovviamente i risultati del contributo involontario delle donne nere al progresso della medicina non furono equamente ridistribuiti. Se l’obiettivo iniziale del fiorire di sperimentazioni di ginecologia era mantenere in salute il più possibile le schiave – di certo non per il loro bene – le reali destinatarie di questi progressi furono le donne bianche e ricche. Sims divenne uno dei medici più famosi del suo tempo nonché presidente dell’American Medical Association. Negli anni Sessanta dell’Ottocento viaggiò a lungo in Europa, chiamato alle corti dei re e dei presidenti per curare principesse, regine e first ladies. “Le vite nere contavano da un punto di vista medico perché resero migliori e più sane le vite bianche”, scrive Owens. Le donne nere, anche dopo l’abolizione della schiavitù, rimasero completamente ai margini del sistema sanitario americano. Ancora oggi, per fare un esempio, una madre nera ha più del triplo di probabilità di morire di parto rispetto a una bianca.

La ginecologia moderna quindi affonda le sue radici in un passato profondamente razzista e misogino, in cui i medici scrivevano sulle riviste scientifiche quanto ribrezzo provassero nel toccare il corpo di una donna nera. Eppure senza quei corpi oggi non avremmo le conoscenze di cui disponiamo. Le femministe si sono a lungo interrogate su come rapportarsi a questo passato. Owens ad esempio ha dedicato il suo libro Medical Bondage alla memoria di Anarcha, Betsy, Lucy e a tutte le altre “madri” dimenticate della medicina, valorizzando il loro ruolo indispensabile e attivo. Un’altra invenzione di James Marion Sims, lo speculum, è stato oggetto di una lunga riflessione teorica nel femminismo. Per la filosofa francese Luce Irigaray è diventato metafora del modo in cui l’identità femminile sia costruita come specchio di quella maschile (“speculum” in latino significa appunto specchio). Nella pratica dell’autocoscienza, viene trasformato in uno strumento semplice, accessibile e indispensabile per conoscere il proprio corpo. Alcune esperienze si spingono oltre, proponendo una ginecologia decolonizzata, come il collettivo spagnolo GynePunk, che organizza laboratori per una sorta di “ginecologia fai da te”.

Alcune donne protestano davanti alla statua di J. Marion Sims a New York – foto di Eduardo Munoz

Oggi anche la comunità scientifica e medica ha cominciato a mettere in discussione la figura di Sims che, seppur abbia indubbiamente contribuito al fondamento della disciplina, l’ha fatto a discapito delle sue pazienti. Come spesso accade per figure controverse come la sua, c’è chi lo dipinge come un torturatore alla Mengele e chi invece lo difende a spada tratta, arrivando a negare qualsiasi aspetto xenofobo nel suo operato. Ma, come scrive Owens nel suo libro, un conto è il razzismo perpetrato dalla singola persona, un altro il concetto di razza: l’utilizzo sistematico e disumanizzante che i medici dell’epoca fecero del corpo degli schiavi e la mentalità schiavista con cui conducevano le loro operazioni contribuirono a radicare la gerarchia tra le razze e il sistema di potere che la giustificava. E che ancora oggi definisce una società che deve fare i conti col proprio passato.

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