Per essere ecologisti dobbiamo fare a meno della Natura

L’estate sta arrivando e le bacheche dei nostri amici iniziano a riempirsi di foto di paesaggi idilliaci: declivi di montagne dal verde acceso o coste dal profilo incontaminato. È probabile che queste foto siano accompagnate da commenti che inneggiano al piacere di sfuggire dalla società brutta, cattiva e inquinata; i nostri conoscenti in vacanza in qualche resort alle Maldive (sempre che ci siano andati veramente) dipingono una comunione panica che neanche D’Annunzio ne La pioggia nel pineto. Rossi dall’invidia, non ci rimane che tentare la fuga dagli idrocarburi imbastendo un week-end in campeggio, dove il nostro contatto con la Natura si risolverà nella micosi presa nella doccia comune di uno sterrato in Abruzzo. Oppure, di ritorno dall’insolazione del fine settimana, potremmo metterci a maledire la coda in autostrada e il nostro stile di vita consumista, ripromettendo di convertirci al solo reparto bio del supermercato. Ho una notizia da darvi: non siete ecologisti.

Qualche anno fa il comico George Carlin se la prendeva con gli ecologisti e affermava, con il solito stile iperbolico, che “anche le scorie di un’industria petrolchimica sono naturali”; Carlin concludeva dicendo che “quando saremo estinti come fossimo un errore nella catena evolutiva, allora la Terra si adatterà alle nostre scorie, e magari implementerà nel suo paradigma la plastica!” Quella del comico è una provocazione, ma contiene un pizzico di verità. Il concetto di Natura è ed è stato facilmente frainteso e idealizzato, e si tende oggi a stigmatizzare un archetipo naturale tramandato da secoli. Quando pensiamo all’immagine di colline e campi coltivati, lo crediamo appartenere all’ordine “naturale” delle cose. Eppure non c’è niente di bucolico nell’agricoltura: essa è tecnica, è l’azione dell’uomo sull’ambiente e noi, con il nostro orticello o un vigneto siamo già nel campo dell’artificiale. È frequente che la costruzione di pale eoliche venga bloccata dalle proteste, perché secondo i detrattori di questo tipo d’energia i giganti di metallo “rovinerebbero il paesaggio”. In Italia a esprimersi in questo senso è stato per esempio Vittorio Sgarbi, che ha dichiarato che “la questione dell’eolico in Sicilia è questione di vita o di morte della bellezza”, o Emiliano Izzo, alfiere della crociata contro l’eolico in Italia, che si spinge verso il romanticismo affermando: “Voglio che mia nipote possa guardare il cielo senza quei mostri dalle braccia rotanti che spezzano l’azzurro.” Ma che tipo di paesaggio difendono le persone come Sgarbi o Izzo? Un paesaggio costiero balneare, in cui è palese l’intervento umano, o un paesaggio montano, dove in lontananza si scorge un piccolo borgo arroccato.

Se crediamo che l’agricoltura sia nell’ordine naturale delle cose ci dimentichiamo anche che, nella sua forma intensiva, è la prima causa mondiale del disboscamento. Probabilmente quell’orizzonte di campi coltivati, che ci meraviglia con il suo spettro di colori, è un segmento della hamburger connection, il sistema globale di coltivazioni e allevamenti messo in piedi dalle multinazionali del cibo per sostenere il business planetario dei fast food. Non sono così sicuro che per essere ecologisti basti tirare in ballo la Bellezza e indignarsi per una decina di pale generatrici di energia rinnovabile.

La città abbandonata di Pentedattilo in Calabria

La prima scena di Blade Runner 2049 ci fornisce una buona metafora delle illusioni ecologiste. In una scena il protagonista sorvola un ambiente sterminato di un bianco uniforme e noi spettatori ci meravigliamo a guardare questa utopica distesa di ghiaccio. Nella scena successiva, però, la navicella atterra e viene svelato l’inganno: ci ritroviamo in un dedalo di serre e coltivazioni intensive, quello che credevamo uno spettacolo straordinario non era altro che la dimostrazione di un ambiente sfruttato fino all’osso. La nostra idea di bellezza si fonda su un gusto che diamo per scontato, e influenza il concetto di Natura: sbarazzarcene è il primo passo per ripensare seriamente la problematica ambientale.

Quando si parla di “Natura” si sta già commettendo un errore implicito: personificare un concetto e renderlo oggettivo; trasformarlo in un ente con il quale confrontarsi e di cui indagare le relazioni, in un orizzonte al di fuori dell’uomo. L’idea di natura come entità a sé stante, presente a prescindere da chi prova a conoscerla, è una credenza che ha origini antichissime, risale alle personificazioni religiose e filosofiche dell’universo, ed è poi trascesa in credenza assoluta anche quando i culti religiosi sono venuti meno. Nonostante il pensiero occidentale si fregi di essere materialista, quest’idea passa come un dato di fatto: è con la Natura che parla l’Islandese nel famoso dialogo di Leopardi. Se la Natura è fuori da noi, la conseguenza sembra sempre la stessa: la natura non si cura dell’uomo, si fa beffe di lui e spesso lo seduce.

Gianfranco Marrone, autore del pamphlet Addio alla Natura, individua due atteggiamenti preponderanti nel confronto con la natura personificata, che egli chiama “prometeico” e “orfico”. Il primo riguarda il mito di Prometeo: il titano ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini; è come se avesse strappato alla natura i suoi segreti e paga questo furto con la propria pelle. Questo atteggiamento nei confronti della natura appare il più razionale: il mondo al di fuori da noi è qualcosa da conoscere, investigare nelle sue meccaniche profonde, cercare di trasformare in modello intellegibile e – dopo averne capito il funzionamento – sfruttare. L’atteggiamento prometeico è quello della tecnica che cerca il paradigma della “sostenibilità”, ovvero una negoziazione fra noi e il mondo, in modo che l’essere umano riesca a sfruttare le risorse naturali a minor danno possibile per l’ambiente. Non si tratta di una reale preoccupazione nei confronti della natura; si prende piuttosto in considerazione la nostra sopravvivenza come specie, postulando che l’uomo è padrone del mondo, che può agire in maniera indiscriminata su di esso e che di conseguenza ha il dovere morale di “amministrare” in maniera oculata le risorse di cui dispone. Vediamo quotidianamente gli effetti di questo paradigma utilitarista degenerato: l’ecologismo prometeico è quello delle grandi potenze e del protocollo di Kyoto, del green washing delle multinazionali. Questo ecologismo ci invita al consumo consapevole, e con la scusa dell’imperativo morale ci suggerisce di comprare la nuova Tesla a energia elettrica. Il messaggio che passa non riguarda il reale cambiamento dei rapporti di forza globali, ma semplicemente un consumo diverso, che non prende in considerazione altro paradigma economico all’infuori del capitalismo.

La Gigafactory di Tesla nel deserto del Nevada

L’atteggiamento orfico si basa invece su un tentativo di intima connessione con il contesto naturale: è un punto di vista contemplativo, che ci vede come parte di un tutto più grande, un segmento nell’ampio ordine del cosmo. Si tratta del pensiero “dell’ecologia profonda”, che arriva a sfociare in comportamenti new age. Quanto l’attitudine prometeica è utilitarista, tanto quella orfica è contemplativa, disinteressata. La natura non è nemica dell’uomo, né è a lui esterna: c’è come una sorta di simbiosi di fondo, radicale e misteriosa, la cui comprensione deve passare comunque da una serie di iniziazioni, di prove ed errori qualificanti. La Natura, per Orfeo e i suoi seguaci, non è una cittadella nemica da conquistare e dominare, ma un ambiente generoso e disponibile ai cui ritmi adeguarsi per vivere nel migliore dei modi possibili: “vivere secondo natura” è il lascito stoico che arriva sino al pensiero verde e all’attivismo ecologico contemporaneo. Anche in questo caso le conseguenze ricadono su un atteggiamento minoritario, che verte sul consumo consapevole, o sull’impossibilità di qualsiasi azioni dell’uomo sul mondo, poiché la natura è qualcosa di già dato, e per questo dobbiamo sottostare alle sue leggi.

Per uscire da questa doppia impasse del pensiero non basta una risposta univoca che sia in grado di sintetizzare le mille sfumature del vivere umano. Forse bisognerebbe iniziare a considerare la natura non come qualcosa al di fuori da noi, e nemmeno come ordine immutabile del cosmo, ma invece come campo di possibilità che ci attraversa, uno spazio che si apre come un ventaglio di scelte in potenza che possiamo cambiare e da cui, di rimando, siamo cambiati. Solo quando smetteremo di pensare alla Natura come un’entità statica e ideale riusciremo a prendere in considerazione delle pratiche ecologiste che non siano fallaci, e a pensare nuovi modi di vivere in armonia con il mondo e con la nostra specie.

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