La depressione non si cura su Internet

Internet è sinonimo di “facilità con cui si possono reperire notizie e pareri” dal 1991. Google è diventato oracolo e nonna coi suoi consigli, e gli sconosciuti online si sono trasformati in confidenti irrinunciabili, mentre i forum e Facebook sono sempre più spesso visti come sicure scialuppe di salvataggio. Non andiamo al cinema da soli, non riusciamo a stare seduti a un tavolo apparecchiato per uno, ma vogliamo essere autosufficienti quando si tratta dei nostri problemi. Google o le piattaforme Wiki ci vengono in soccorso ogni qualvolta abbiamo un dubbio, o vogliamo ricevere un consiglio (come diventare Presidente degli Stati Uniti resterà per sempre il mio tutorial preferito). Secondo Enzo Lucchini, presidente dell’Istituto dei tumori di Milano, “l’88% delle persone va a cercare informazioni per la propria salute sui siti Internet e quasi la metà si affida alla prima pagina dei motori di ricerca.” Di questi, secondo uno studio di Demoskopea e Dottori.itil 49% vede in Google un vero e proprio sostituto del parere medico. Il 38% degli specialisti intervistati ha rilevato che i pazienti tendono a presentarsi nei loro studi già con un’autodiagnosi elaborata su internet, mentre il 22% ha avuto a che fare con persone che avevano elaborato da soli una cura per sé o per i propri parenti. 

Sono tantissimi i siti in cui inserire gli ingredienti rimasti in casa e, con un click, scoprire cosa potremmo preparare per pranzo; altrettanti quelli in cui inserire i propri sintomi e rinunciare al pranzo, dopo che si sarà chiuso lo stomaco. Di questi ultimi ne ho usati un paio in particolare per capirne il funzionamento, concentrandomi perlopiù sulla ricerca dei sintomi legati a quelle patologie “invisibili”, da sempre avvolte da stereotipi, timori e disinformazione: le malattie mentali. Gli unici portali in italiano per l’autodiagnosi di disturbi di questo genere sono sapere.it e sanihelp.it.

Secondo questi siti, se ti senti molto stanco, potresti avere un aborto in corso o un problema di circolazione agli arti inferiori; potrebbe trattarsi di Aids o di tumore alla vescica. La possibilità di una carenza di potassio o magnesio? Non pervenuta. Ma la spossatezza, così come l’insonnia o i cambiamenti nell’appetito, non sono solo sintomi di disturbi fisici, e possono essere bensì legati a patologie mentali, come ad esempio la depressione. Questa non è contemplata nelle soluzioni offerte dalla piattaforma, tuttavia, non è difficile trovare dei test per procedere con un’autodiagnosi. Chi non lo ha mai fatto? Dopotutto, esistono test per qualsiasi cosa, da quelli per delineare il profilo psicologico a quelli per capire se il tuo partner ti ha tradito o se sei un buon amico.

La depressione è un disturbo dell’umore, una “modificazione del tono del sentimento in senso malinconico” e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ne soffrono più di 300 milioni di persone al mondo. Il “male di vivere”, come lo aveva definito Eugenio Montale, o quella disperazione che ci costringe a nutrirci di lacrime e di dolore”, per citare Francesco Petrarca, causa 800mila suicidi all’anno. È la seconda ragione di morte fra i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 29 anni. L’adolescenza è quasi sempre il periodo più difficile per i giovani, tra cambiamenti fisici e ormonali, la scoperta del sesso e della friendzone. Per questo è terreno fertile per una possibile depressione, il cui tasso di prevalenza sale proprio in questa fascia d’età.

La “depressione maggiore” è attualmente la patologia più diffusa in Occidente, nonché e la prima causa di disabilità al mondo. Tuttavia, ancora oggi, non sappiamo come affrontarla. Quando se ne parla si finisce sempre per essere banali. Le frasi più quotate di amici e parenti vanno da un irritante quanto inutile “Non vedo il motivo per cui tu stia così male: hai tutto, sei fortunata!” a un vergognoso quanto frustrante “Pensa a chi sta peggio di te”, passando per l’imbarazzante “La vita è bella, basta sorridere”. Come se non fosse già abbastanza difficile stare male e non saperne spiegare il motivo. È molto più facile allora rifugiarsi in rete, cercando risposte a domande che abbiamo paura di fare apertamente.

È chiaro che non si possono fare auto-diagnosi senza competenze mediche, sarebbe opportuno abbandonare paure o presunzione e chiedere aiuto a uno specialista. È bene ricordare che, sebbene i test possano darci un risultato simile o uguale a quella che eventualmente sarà la nostra diagnosi, sono solo indicativi e non attendibili. È interessante, a tal proposito, dare un’occhiata al quadro realizzato dal dottor Matteo Pacini, psichiatra, psicoterapeuta e medico delle dipendenze.

Lo schema è una sintesi dell’esperienza sull’autodiagnosi e ci mostra quanto questa possa essere approssimativa e variabile. Per esempio, il paziente psicotico tenderà a sottovalutare, mentre quello ossessivo si concentrerà su un sintomo che gli genera particolare ansia e I’ipocondriaco tenderà a divenire un esperto di farmaci e cercherà quello che potrebbe fare al caso suo.

Quello che ci spinge a cliccare il bottone “Inizia il test” o a scrivere sulla bacheca di un gruppo di supporto, quando si tratta di un disturbo fisico è spesso il desiderio di essere tranquillizzati. Nel caso di un disturbo mentale, specialmente in quanto non è possibile comprenderne i confini, a muoverci è la paura, oppure la presunzione di essere sempre in grado di controllare le proprie emozioni.

“Sei depresso o giù di morale?”, recita il test che ho trovato su sanihelp.it. Sì, in effetti, diagnosticata da un medico e trattata con una cura farmacologica. Decido di provarlo: a giudicare dalle domande mi sembra realizzato abbastanza bene. Lo faccio provare anche a un ragazzo di 20 anni che soffre di depressione e disturbo ossessivo compulsivo – altrettanto acclarato e trattato – e a un ragazzo di 24 anni che ha semplicemente avuto una settimana difficile e per questo si sente triste. Il risultato è lo stesso per tutti: “Presenza di un moderato stato di depressione”.

Cosa significa? Basta essere giù di morale per soffrire di un “moderato stato di depressione”? Clinicamente no, e questo dimostra che la prima fase, quella dell’autodiagnosi, è approssimativa. Anche per quanto riguarda la seconda fase, quella dell’auto-aiuto, i rimedi proposti non sono certo risolutivi: secondo il sito, il modo più semplice per “aiutarsi da soli” quando si scopre di avere una malattia mentale è quello di chiedere supporto online attraverso uno dei numerosi gruppi a disposizione, sui forum o su Facebook. Per giudicare l’eventuale utilità di tali comunità, ho provato a farne parte. Tra filtri Snapchat, emoticon tristi, manga e frasi motivazionali scritte da daydreamers e catlovers, ho capito quanto la maggior parte delle persone non sappia gestire la depressione degli altri (oltre che la propria, ovviamente).

In entrambi i gruppi – uno americano e uno italiano – mi viene chiesto se ho già letto o se leggerò il regolamento. Rispondo, di sì. Del gruppo americano fanno parte 5.150 membri – diventati in appena 4 mesi 34.298 – provenienti da quasi tutto il mondo. Le regole sono semplici: rispetta le opinioni altrui, non giudicare i post che riguardano l’orientamento sessuale, la religione, la razza, la politica, l’età, non parlare male degli altri membri, usa l’etichetta TW (Trigger warning) se il post contiene linguaggio esplicito, non fare pubblicità. In apertura, la descrizione del gruppo riporta un avvertimento e un numero di telefono: “If in immediate danger call 1-800-273-8255”, “Se in una situazione di pericolo imminente, chiamare il numero…”

Nel gruppo italiano invece i membri sono 11.136, saliti a 12.078 nei 4 mesi in cui ne ho fatto parte. Anche in questo caso è vietato mancare di rispetto, giudicare, parlare di suicidio, di politica o di religione, oltre a fare pubblicità, creare gruppi Whatsapp o fare nomi di psicofarmaci o del loro principio attivo. Il gruppo è inoltre chiuso ai minorenni. In coda alla descrizione c’è una sorta di augurio: “Un abbraccio di luce! Un abbraccio di sole!” Capisco quindi subito che l’approccio è diverso rispetto a quello americano.

Le differenze principali tra i due gruppi stanno nell’età media dei membri e nell’approccio generale ai problemi: quello italiano è chiuso ai minorenni, dunque la fascia d’età è tra i 18 e i 50 anni, e la comunità serve più che altro a farsi forza a vicenda nel quotidiano. Inoltre, i post più comuni e che ottengono più reazioni sono quelli che hanno come contenuto immagini colorate con scritte motivazionali, piuttosto che link in grado di fornire informazioni utili. In quello americano l’età si abbassa a 14 anni e il supporto si basa più sulla possibilità sfogarsi raccontando le proprie emozioni e il proprio malessere. Almeno un quarto dei post in entrambi i gruppi riguarda la solitudine, l’abbandono e il sentimento d’inadeguatezza.

Appena tre giorni dopo il mio ingresso nella comunità, la regola di non parlare di suicidio viene subito infranta da uno dei membri, che scrive: “Oggi sono stradepresso vorrei tanto morire uccidermi ma sono troppo vile per farlo.” Sii positivo, non mollare, prima o poi tutto passa, tutto migliora, non essere egoista, cerca di distrarti, non sei l’unico. Leggo i commenti velocemente e penso che ci dovrà pur essere qualcuno in grado di dire una cosa che possa essere davvero d’aiuto. Ma più scorro l’elenco, più sale la mia frustrazione. Infastidita, mi sposto nell’altro gruppo e leggo il post di un ragazzo che scrive, in inglese, “Domani mi ammazzerò, ci vediamo nell’aldilà”. Le mie dita vanno veloci sulla tastiera, quasi senza pensare: “Non farlo, per favore. Se hai bisogno di parlare con qualcuno sono qui, aggiungimi.” Mi risponde: “SONO STANCO DELLA VITA.” Di nuovo, senza pensare: “Datti una possibilità,” gli dico, “Dalla a noi, al mondo di essere per te un posto meraviglioso.”

È fatta. Gli ho fornito le stesse risposte irritanti, banali e inutili che tanto mi ha infastidito leggere poco prima. Qualcuno commenta: “Perché non oggi?”, e il post viene prontamente rimosso dai moderatori. Scrivo un post io, allora. Mi aspetto qualche “Dai ce la puoi fare”, ma ottengo solo una serie di “Anch’io sono nella tua stessa situazione”: una sorta di “Non sei da sola” uscito male. Non so se il tizio che commenta dicendomi “Io vivo a Pittsburgh, qui piove molto e il pensiero che l’inverno stia arrivando è davvero deprimente” stia scherzando o sia serio. In questi gruppi è come se tutti non vedessero l’ora di dirti che sì, anche loro stanno male, come se si trattasse di una competizione o di un confronto. “Di cosa soffri?/Io di depressione maggiore ansiosa. Tu?”

Qualche mese dopo, mi iscrivo al “Gruppo auto-aiuto..pastedGraphic.png Depressione, Ansia, Ipocondria e Attacchi di Panico!pastedGraphic.png”. I due puntini di sospensione (badate bene, due non tre) e i cuoricini avrebbero dovuto mettermi in guardia, ma ho voluto rischiare. Il gruppo è nato recentemente e i membri sono pochi. Dopo qualche settimana scrivo un post per chiedere se qualcuno è disposto a farsi intervistare. Non ottengo risposta, per giorni.

La paura che non riceverò mai alcun messaggio mi assale, ogni mattina, così decido di disinstallare WhatsApp e di congelare il mio account Facebook. Scrivo un post di commiato in cui spiego che lascerò temporaneamente il gruppo perché sto attraversando un periodo difficile. Per essere una comunità la cui immagine di copertina recita “L’unione fa la forza”, in cui si professa un’idea di “famiglia”, di affetto e di aiuto reciproco, il trattamento riservatomi – iniziale indifferenza, e poi, quando ho comunicato che me ne sarei andata, accuse di essermi inventata tutto – è stato per me inaspettato. Mi sono sentita come quando si sbatte il mignolo del piede sullo spigolo del comodino, al buio. Forse perché nessuno di noi è stabile lì dentro e nessuno di noi è in grado di aiutare gli altri, non sapendo nemmeno come aiutare se stesso.

Le emozioni che ho provato leggendo i post in questi gruppi di supporto sono state di ogni tipo, ma mai di serenità o di sollievo. Forse però sono riuscita ad avvicinarmi, di poco, alla risposta sul perché, quando si parla di depressione, cerchiamo di uscirne senza l’aiuto di nessuno e ci scopriamo ripetitivi, banali e a primo impatto irritanti: perché probabilmente non la conosciamo così a fondo, perché è un mostro troppo grande ed è normale non saperla affrontare, figuriamoci saper sostenere un altro.

Esserci, semplicemente esserci, questo potete fare, se conoscete una persona che soffre di depressione. Non siate egoisti, non siate egocentrici: non potete curarla solamente col vostro amore, né potete “sistemarla”, come pensa di poter fare Jimmy con Gretchen nella serie americana You’re the worst, che riesce a trattare il tema della depressione clinica con incredibile naturalezza. La depressione è vuoto, un dolore che ti scava dall’interno e ti paralizza a tal punto da impedirti di vivere la tua vita, da non farti alzare dal letto per lavarti i denti e andare a lavoro, da non farti scendere al supermercato sotto casa per comprare l’indispensabile per sopravvivere.

La depressione è scomoda, ed è scomodo parlarne, ma non possiamo smettere di farlo perché la renderemmo semplicemente invisibile e ancora più difficile da spiegare.

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