Chernobyl è diventata un’oasi per animali e piante 33 anni dopo il disastro nucleare

Il tipico paesaggio post atomico nell’immaginario collettivo è una landa desolata, arida e disabitata, dove ogni essere vivente è morto o fuggito per sempre. Ora immaginate una regione verde, fitta di alberi, popolata da lupi, alci e bisonti, dove non esistono automobili a disturbare le abitudini dell’abbondante fauna locale. Sembrerebbe un paesaggio del Nord Europa o dell’Alaska durante la stagione primaverile, una zona da cui le condizioni climatiche invernali e la lontananza dalle città hanno impedito gli insediamenti umani. Invece questo è lo scenario che si presenta sul confine tra Ucraina e Bielorussia, nelle vicinanze di Pripyat. Divenuta tristemente nota nel secolo scorso come scenario del disastro atomico di Chernobyl, l’omonima centrale nucleare a tre chilometri di distanza, Pripyat è oggi una città fantasma ferma a 33 anni fa, quando quasi 50mila abitanti l’hanno abbandonata in pochi giorni. Oggi le sue strade sono abitate dalle radici degli alberi che lentamente stanno riconquistando il luogo.

Qui, il 26 aprile del 1986, a causa di un errore tecnico durante un test, un’esplosione nel reattore numero 4 provocò la dispersione nell’aria di una quantità di radiazioni più elevata di quella causata dalle bombe atomiche statunitensi sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Nell’immediato, un’intera foresta di conifere morì dopo essersi tinta di rosso – da allora è chiamata Foresta Rossa –e dalla zona scomparvero gli animali. ll governo sovietico, che in un primo momento tentò di nascondere le reali implicazioni dell’incidente, dovette comunque fare evacuare migliaia di persone, molte delle quali non poterono più tornare indietro perché l’accesso alla zona – chiamata Exclusion Zone – fu interdetta al personale non autorizzato, come lo è tuttora. 

Nonostante siano state dichiarate ufficialmente solo una cinquantina di vittime, il bilancio è ancora oggetto di controversie, ma si pensa che almeno 4mila persone  siano morte nei giorni successivi all’esplosione – principalmente i cosiddetti liquidators, cioè gli incaricati della messa in sicurezza della centrale e della gestione dell’evacuazione – o nel lungo periodo per l’esposizione ai livelli eccessivi di radioattività. Tra coloro che avevano meno di 18 anni e vivevano nella zona colpita, dal 1986 al 2006 sono stati diagnosticati 6mila casi di cancro alla tiroide. Un altro effetto – che oggi si ritiene quello di maggiore impatto sul piano sanitario, e relativamente poco studiato, soprattutto in tempi recenti – è quello sulla salute mentale, con un’incidenza di ansia, depressione, disturbo post traumatico da stress e tendenze suicide di molto superiore tra liquidators e popolazioni coinvolte nel disastro rispetto al resto del mondo. Oggi alcune stime stimano che, a causa di quell’episodio, sarebbero morte oltre 90mila persone.

Si pensava che l’impatto dell’esplosione atomica, con la nube che raggiunse l’Europa occidentale colpendo anche l’Italia, sarebbe stato irreversibile anche sulla popolazione animale e vegetale dell’area, all’epoca confine occidentale di un’Unione Sovietica al tramonto. Invece, a oltre 30 anni di distanza, la biodiversità e la ricchezza delle popolazioni di alci, orsi bruni, volpi, cavalli di Przewalski (che erano quasi estinti e qui si sono moltiplicati indisturbati), ma anche uccelli e roditori è sorprendente, non solo pari a quella precedente al disastro, ma addirittura all’insediamento umano nella regione (Pripyat fu costruita nel 1970 per ospitare i lavoratori della centrale, ingrandendosi rapidamente). La popolazione dei lupi è addirittura sette volte più numerosa di quelle presenti in altre parti del mondo con caratteristiche geografiche e meteorologiche simili. Questa abbondanza è dovuta alla completa assenza dell’uomo e può dare un’idea di quel che succederebbe agli ambienti oggi abitati se un giorno venissero abbandonati, o addirittura se l’uomo dovesse estinguersi.

Esiste un certo disaccordo tra gli scienziati sulle conseguenze a lungo termine dell’esplosione sull’ambiente locale, soprattutto per l’assenza di dati concordi sulle quantità di radiazioni e su come queste stiano variando nel corso degli anni. Alcuni ritengono che la contaminazione sia molto diffusa e la vita presente nella regione danneggiata. Tra questi studiosi c’è Anders Pape Møller, ecologo dell’Università di Parigi che studia Chernobyl da quasi trent’anni: le sue ricerche, un’imponente raccolta di dati sulle anomalie negli animali, hanno mostrato gli effetti della radioattività sulle rondini, tra cui mutazioni visibili anche esternamente nel parziale albinismo delle piume. 

Sul fronte opposto un report del 2006 redatto dal Chernobyl Forum (comitato di esperti riuniti dall’Onu e dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha dimostrato che, nonostante la radioattività sia ancora alta e dannosa nella Foresta Rossa, in gran parte dell’area circostante è calata di centinaia di volte rispetto ai livelli immediatamente successivi al 26 aprile 1986. Oggi sembra che l’Exclusion Zone sia diventata un santuario della biodiversità. James Beasley, ecologo dell’Università della Georgia, ha sottolineato che, contrariamente alla squadra di intervento che lavorò a Chernobyl subito dopo l’incidente subendo una quantità di radiazioni letale, gli animali della zona non sono esposti allo iodio 131, sostanza radioattiva molto aggressiva che però scompare in un periodo piuttosto breve. Questo ha permesso alle specie animali di sopravvivere e riprodursi. Questo non significa che piante e animali siano sani come quelli delle zone incontaminate in altre parti del mondo: le ricerche di Beasley e colleghi non si occupano di questo, ma di monitorare la prosperità delle specie, dovuta innanzitutto all’assenza di uomini e in parte al fatto che gli animali si riproducono più velocemente di quanto li uccidano gli effetti collaterali delle radiazioni. Prima che le malattie facciano il loro corso hanno il tempo di moltiplicarsi o di morire per altre cause. In sostanza i danni sui loro organismi dovuti alle radiazioni non sono macroscopici o comunque non tanto da interferire con la vita e la preservazione della specie. 

Tree Project ha partecipato a uno studio internazionale sulla ricchezza di biodiversità nella Exclusion zone: studiando le immagini rilevate dalle telecamere, posizionate nel corso degli anni in varie aree, di grandi mammiferi, uccelli, anfibi, e analizzando pesci, bombi, vermi, batteri e la decomposizione delle foglie, ha evidenziato l’assenza di effetti rilevanti delle radiazioni su queste popolazioni. Problemi gravi sono stati riscontrati soprattutto negli uccelli, alcuni dei quali hanno un cervello più piccolo del normale e danni alla fertilità, mentre altre specie mostrano una grande capacità di adattamento agli ambienti contaminati; l’organismo di alcuni volatili ha imparato a utilizzare gli antiossidanti in modo diverso, resistendo meglio alle radiazioni, così come la colorazione più scura degli anfibi all’interno dell’area rispetto agli omologhi all’esterno potrebbe essere una strategia difensiva. La fauna subisce ancora le radiazioni, ma è più resistente e adattabile di quanto pensassimo e, in assenza di uomini, prospera. 

Poter studiare oggi gli effetti del nucleare sull’ambiente è una grande opportunità per valutare le possibili conseguenze in caso di disastro, dal momento che oggi al mondo esistono 454 centrali nucleari attive e altre 54 sono in costruzione. Il nucleare è una risorsa energetica relativamente ecologica – almeno rispetto ad altre ancora molto diffuse e largamente sfruttate – e piuttosto sicura, a patto di utilizzare le dovute cautele e protocolli di sicurezza, conoscendone le conseguenze negative, soprattutto ora che l’ambiente è costantemente minacciato. L’Exclusion Zone di Pripyat è oggi un laboratorio ideale per i ricercatori che indagano gli effetti delle radiazioni su piante e animali, ma anche per quelli che studiano la diffusione e il comportamento della fauna in assenza di esseri umani. Un altro motivo per cui Chernobyl è un eccezionale laboratorio a cielo aperto è che offre prospettive inedite sull’impatto del cambiamento climatico: ad esempio perché la zona è teatro di molti roghi spontanei, che sono oggi sempre più frequenti anche nelle aree urbane abbandonate in Europa, proprio a causa dell’emergenza climatica. L’area intorno alla centrale nucleare rappresenta una possibilità unica per studiare gli effetti di un disastro nucleare in relazione alla crisi climatica. 

Per non sprecare queste lezioni, è fondamentale preservare il più possibile l’area evitando di intaccarla, ad esempio istituendo riserve naturali come quella radioecologica di Polesia, nella parte bielorussa dell’area contaminata. Sul lato ucraino, invece, il turismo delle ghost town è arrivato anche a Pripyat che l’anno scorso ha ospitato il suo primo rave party: con le loro tute di protezione, all’ombra della ruota panoramica arrugginita, i partecipanti sembravano esploratori venuti dal futuro per vedere come si viveva un tempo sulla Terra. Da un disastro senza precedenti come quello avvenuto a Chernobyl si può trarre l’opportunità di studiare i cambiamenti dell’ambiente e, pur non ripagando gli immensi danni fatti alle persone, agli animali e alla salute dell’ecosistema in generale, valutare così i modi migliori per gestire situazioni simili e chiarire cosa potrebbe aspettarci un domani. Insegnandoci qualcosa in più sulla natura e sulla resilienza degli animali, la regione di Chernobyl ci aiuta a osservare da una prospettiva diversa il potenziale danno che, in quanto uomini, siamo in grado di provocare sul Pianeta e allo stesso tempo lo scarso impatto che possiamo avere nel corso della sua vita lunga miliardi di anni. 

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