Come ha fatto la sinistra a perdere il popolo?

Il signor Pluck è un ex senzatetto di Peterborough, nell’Inghilterra orientale. È stato fortunato a migliorare la sua condizione: solo nel corso dell’ultimo anno il numero dei senza dimora nella zona è cresciuto del 50%. Eppure, alle elezioni del 12 dicembre per la prima volta nella sua vita ha voltato le spalle al Labour e si è astenuto, temendo che il partito di Jeremy Corbyn non portasse a termine la Brexit. I giornalisti del Guardian che lo hanno intervistato si sono stupiti delle sue motivazioni. “Perché non ha votato per il programma laburista di un milione di nuove case popolari? Non ne sapevo nulla”, ha risposto.

La storia del signor Pluck potrebbe diventare un caso di scuola per confermare la tesi che i ceti bassi votino ormai contro i loro stessi interessi. In Italia circa il 40% degli operai e quasi il 20% degli iscritti alla Cgil hanno scelto la Lega alle europee di maggio, nonostante la flat tax di Matteo Salvini vada a esclusivo vantaggio dei redditi alti e comporti addirittura maggiori aggravi per i lavoratori a basso reddito. Negli Stati Uniti Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca trascinato anche dagli operai del Michigan e dai minatori del Wyoming, ma della sua riforma fiscale hanno beneficiato gli azionisti delle grandi corporation, ai quali il Tesoro sta di fatto trasferendo la ricchezza del restante 90% degli statunitensi. Oppure, per restare in Gran Bretagna, oltre il 30% di chi si considera parte della working class è schierato con i conservatori, sebbene siano stati proprio i governi Cameron e May, con tagli e privatizzazioni, a far lievitare di mezzo milione in cinque anni il numero di persone che vivono in stato di indigenza pur disponendo di un impiego.

La tendenza sembra essere generalizzata. In tutti i Paesi occidentali è avvenuta una mutazione antropologica di quello che una volta era definito proletariato. La classe lavoratrice ha abbandonando i partiti della grande famiglia socialista, che si trova a fare i conti quasi ovunque con la peggior crisi di consensi dal dopoguerra.

Tra le élite cosiddette “progressiste” si fa strada la spiegazione che la destra populista trionfi grazie al voto di pancia. I meno istruiti non compiono scelte ragionate, non capiscono cosa gli conviene e in fondo non sarebbero nemmeno in grado di farlo perché sono analfabeti funzionali, che si riducono a seguire istinti tribali e un capo carismatico ignorante, incompetente, specchio perfetto dei loro stessi difetti. Il problema è che una teoria simile è dell’Ancien Régime. E non spiega davvero quello che sta succedendo all’elettorato.

È invece un’operazione razionale a spingere verso destra i ceti popolari, che non sono stupidi né ingenui. Le loro motivazioni sono culturalmente radicate nella realtà che le stesse sinistre hanno contribuito a modellare a partire dalla fine del secolo scorso. Negli ultimi trent’anni, infatti, l’opinione pubblica è stata martellata da una retorica allarmistica sulla scarsità delle risorse dello Stato, da prediche sull’ineluttabilità di ridurre il welfare pubblico e da commenti entustiasti sull’economia neoliberista. Ci hanno mostrato come inevitabili i sacrifici in vista della realizzazione di determinati obiettivi di bilancio per non turbare borse, multinazionali, investitori, banche, agenzie di rating e istituzioni sovranazionali.

In sordina e con un fatalismo quasi religioso la politica ha dichiarato il proprio fallimento. Ha ceduto gran parte del suo potere al mondo della finanza e dell’economia, presentando le sue leggi come superiori e non discutibili. La sinistra, uscita sconfitta dall’implosione dell’Unione Sovietica, per sembrare al passo con la modernità si è accodata a questa inerzia rivestita di neutralità, nonostante fosse l’esito di ricette elaborate nelle scuole economiche della destra. Così facendo ha segato il ramo dell’albero su cui era seduta. Ha ristretto la propria capacità di manovra e influenza a un nucleo molto limitato di traguardi che, seppur importanti, sono tutti accomunati dalla possibilità di essere raggiunti a costo zero (vedi i diritti civili), e si è ritirata nel fortino della sua comfort zone, lasciando che i suoi vecchi terreni di lotta sociale e politica diventassero il regno incontrastato dei tecnici dell’economia. L’azione di governo è stata spogliata di spinte idealistiche e degradata a un freddo esercizio di contabilità, abbandonando ogni forma di assistenza efficace per le fasce più deboli, pur di rispettare i parametri di bilancio.

D’altronde, come ci si può ribellare alle leggi dell’economia, annunciate come naturali e immutabili? La metamorfosi delle classi lavoratrici è proprio figlia di questa nuova ideologia. Infatti, mentre la sinistra ingrigisce su statistiche e bilanci e rinuncia a immaginare nette rotture con lo stato delle cose, una parte della destra sa cogliere le trasformazioni in atto nella società. Intuisce che la depoliticizzazione ha avuto sulle persone l’effetto di una calamità naturale: le ha lasciate orfane di una casa politica e prive di punti di riferimento storici. Sulle macerie della globalizzazione si può erigere un nuovo discorso centrato sulla politica e rispondere alle due esigenze più sentite dalle maggioranze: il bisogno di protezione e il desiderio di recuperare la propria identità.

La nuova destra lo fa con argomenti reazionari, ma efficaci e rassicuranti. Taking Back Control, il manifesto della Brexit, lo slogan America First di Trump o il “Prima gli italiani” di Salvini sono tutti ottimi esempi. È un ritorno alle origini, alle certezze della seconda metà del Novecento e non è poi tanto strano che le masse preferiscano restaurare un passato che già conoscono piuttosto che approfondire le incognite di un presente che le danneggia e spaventa. A differenza della sinistra, la destra populista offre qualcosa agli sconfitti dal mercato e ai dimenticati dalle istituzioni sovranazionali. Sono giusto dei palliativi (imposizione di dazi, piccole revisioni pensionistiche, riconquista apparente di spazi di sovranità nazionale), per di più inseriti in un quadro di tutela degli interessi di pochi privilegiati, ma sono comunque un freno a un declassamento sociale presentato come inesorabile per decenni.

Per questo le classi lavoratrici sono diventate il vero bacino elettorale della destra. Forse sarebbe più corretto dire che, in un panorama depoliticizzato, la destra populista è la sola a fare davvero politica, mentre la sinistra perde ogni slancio identitario dietro alla contabilità amministrativa. E non è forse vero anche il ragionamento inverso, ovvero che la parabola centrista dei partiti socialdemocratici ha a sua volta causato una mutazione a destra dei suoi votanti? Proprio nel bacino del centrosinistra si riscontra la quota più consistente di elettori convinti che sia opportuno adeguarsi ai mercati, che il vincolo di bilancio europeo sia da rispettare o che le banche siano degne di fiducia. Riforme che segnano un arretramento nel campo dei diritti sociali, come l’innalzamento dell’età pensionabile prevista dalla legge Fornero, sono difese a spada tratta proprio da diversi sostenitori del centrosinistra, che si giustificano con il rischio default sostenuto da alcuni economisti. Se le classi lavoratrici si spostano su valori socialmente di destra, i ceti più istruiti della sinistra si sono rivolti verso valori economicamente di destra. Raramente ne hanno consapevolezza, visto che l’ambito economico è stato depoliticizzato e affidato al linguaggio in apparenza ragionevole e imparziale dei tecnici.

Anche se si potrebbe pensare che stiamo tutti diventando di destra, alcuni dati smentiscono questa impressione. Per esempio, nonostante la sconfitta elettorale, le politiche economiche dei Labour di Jeremy Corbyn riscuotono larghissimo consenso tra i britannici: a più del 60% della popolazione non dispiacerebbe aumentare le tasse ai redditi alti; il 56% vorrebbe nazionalizzare le ferrovie; quasi altrettanti desiderano vedere i lavoratori sedere nei consigli di amministrazione delle aziende;  i favorevoli alla nazionalizzazione delle compagnie dell’elettricità, del gas e dell’acqua sono quasi il doppio dei contrari. Valgono dati simili anche nel nostro Paese: circa due terzi degli italiani ritengono necessario un intervento dello Stato nell’economia o addirittura nazionalizzare le industrie strategiche, mentre il 52% è d’accordo con la creazione di una nuova Iri, un ente pubblico che guidi la politica industriale. Persino negli Stati Uniti ultraliberisti alcune ricerche hanno evidenziato che le persone sono ben disposte a incrementare i fondi governativi per la previdenza sociale o per la lotta alla disoccupazione.

Insomma, le idee della sinistra continuano a piacere, soprattutto a quelle classi lavoratrici che la stanno abbandonando. Resta da capire perché la sinistra crolla alle urne, anche quando si presenta con una piattaforma molto popolare e innovatrice come quella di Corbyn. Il motivo è che la maggior parte degli elettori non giudica sostenibili le sue proposte: teme l’imposizione di più tasse e la conseguente caduta in una spirale di recessione. Ecco un altro frutto avvelenato da trent’anni di depoliticizzazione: promesse economiche come il salario minimo e una maggiore spesa pubblica per la sanità, l’educazione, l’industria verde sono apprezzate, ma sembrano troppo ambiziose e costose per i limitati spazi di manovra economica in cui ci siamo relegati. Depoliticizzare l’economia è stato un errore mortale per la sinistra, perché è sempre stata l’economia con le sue ricadute sociali il suo campo di intervento privilegiato.

Ci vorranno anni di lavoro culturale per invertire la rotta. Un buon inizio potrebbe essere smettere di biasimare i ceti meno abbienti se continueranno a credere alle garanzie di protezione offerte dalla destra populista. Nel mondo depoliticizzato e rassegnato in cui viviamo è un’opzione tutt’altro che irrazionale.

 

 

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