La disgustosa propaganda di Salvini funziona solo grazie ai media conniventi

Che Matteo Salvini sia ormai re di presenze sulle testate giornalistiche nazionali, sui telegiornali, sui talk show di attualità e politica e sui social network è ormai assodato. Secondo i dati raccolti lo scorso anno dall’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il leader della Lega è il politico con più ore di presenza nei telegiornali e nei programmi TV, rispettivamente con 113 minuti e con 8 ore e 11 minuti, per un totale di 10 ore di parlato nel solo mese di novembre 2019. Il problema però non è solo lo spazio concesso rispetto agli altri politici – più del doppio dei suoi avversari, escluso di Maio, che ha ottenuto a novembre 6 ore – ma il modo in cui viene riportato ciò che Matteo Salvini fa o dice, senza alcun contraddittorio. La propaganda salviniana funziona proprio grazie al modus operandi dei media, che rilanciano morbosamente notizie irrilevanti relative a ogni sua singola mossa – in particolare quando si tratta delle sue campagne elettorali a tema alimentare – senza quasi mai operare alcuna analisi critica. Un modus operandi che può portare a gravi conseguenze.

L’ennesimo caso mediatico si è scatenato un paio di giorni fa a Bologna, in fermento per le imminenti elezioni regionali. Matteo Salvini, accompagnato dalla sua scorta di polizia e da alcuni residenti del quartiere Pilastro, si è presentato di fronte al portone di un condominio e ha suonato il campanello in diretta video sulla sua pagina Facebook. Questo perché una signora qualsiasi gli aveva riferito che in quella casa vivevano dei presunti spacciatori. Salvini ha quindi pensato bene di citofonare diverse volte alla famiglia di origine tunisina in questione, ponendo ripetutamente domande come: “Lei spaccia?”, o “Suo figlio è uno spacciatore?”, e chiedendo di poter entrare nella casa di queste persone. Tutto questo è successo mentre le telecamere dei giornalisti erano puntate non solo sul volto di Salvini, ma anche sul condominio, chiaramente identificabile, e sul citofono, con tanto di cognomi sulla targhetta ripetuti a voce alta.

Qualcuno potrebbe parlare di mera propaganda o di goliardia. Eppure qui si va ben oltre. Non solo il comportamento adottato dai residenti risulta essere quello di chi si prepara a un linciaggio su pubblica piazza e a un processo sommario basato su parole e sentito dire anziché su prove; non solo Salvini, senza curarsi affatto della privacy di quelle persone, ha fatto ai presenti e a tutta Italia i loro nomi, chiedendo di di potersi introdurre in casa loro come se fosse un poliziotto con un mandato di perquisizione. Salvini si è presentato scortato dalla polizia, e risulta ancor più grave il fatto che le forze dell’ordine che lo accompagnavano non abbiano pensato di intervenire per fermare quella che era un’evidente violazione della privacy. Non ultimi, i giornalisti hanno ripreso affamati tutta la scena, senza nemmeno tentare di censurare, da deontologia, l’immagine del citofono e i nomi pronunciati, rischiando di causare successive ripercussioni sulla famiglia presa di mira da Salvini.

Il video è diventato virale principalmente dopo la pubblicazione sulla testata nazionale La Repubblica, che ha etichettato l’episodio come mera “provocazione”. E invece basta guardare il video per rendersi conto che si è trattato di un atto barbarico, antidemocratico e volto, come sempre, ad “aizzare all’odio”, come ha riferito il sindaco di Bologna Virginio Merola. Parlare di semplice provocazione non fa altro che sminuire e giustificare quella che, oltre a costituire una violazione della privacy e un abuso di potere – alimentato e nutrito dai media stessi –, si può configurare anche come discriminazione razziale e generalizzazione su un gruppo etnico. Salvini, a favore di videocamera, si è autoproclamato autorità, domandando alla signora che lo accompagnava se si trattasse di persone regolari e con permesso di soggiorno, come se fosse ancora ministro dell’Interno, e come se questa fosse la procedura da adottare.

Virginio Merola

Galeazzo Bignami e Marco Lisei, deputati del partito Fratelli d’Italia, avevano fatto qualcosa di simile lo scorso novembre. I due avevano girato un video, pubblicato in diretta su Facebook, mentre passeggiavano per il quartiere della Bolognina, puntando l’obiettivo sui citofoni e sui nomi di persone straniere ree di aver ricevuto l’assegnazione di case popolari. Anche in questo caso, il  diritto alla  riservatezza dei cittadini stranieri non era rilevante. Bignami stesso ha affermato: “Ci diranno che stiamo violando la privacy, ma non ce ne frega assolutamente nulla”. Ed è evidente che lo scopo era quello di suscitare l’indignazione degli italiani, secondo Bignami e Lisei discriminati, quando in realtà l’assegnazione delle case popolari va in base al reddito, e non alla nazionalità.

Queste campagne propagandistiche sui quartieri e sulle condizioni in cui versano, anziché suscitare analisi critiche sulla società italiana, sugli stereotipi che spesso vengono rovesciati sulle periferie e su come lo Stato dovrebbe promuovere politiche che aumentino l’inclusione sociale, si limitano, e anzi puntano, ad attribuire il problema alla presenza di cittadini stranieri. Sono gli stranieri a creare degrado, sono loro a spacciare, solo loro la causa di tutto quanto va male in Italia. E una testata giornalistica come il Corriere della Sera non ha fatto altro che contribuire a questo modo di pensare con la pubblicazione di un articolo a firma di Ernesto Galli della Loggia dal titolo “Il razzismo e i suoi confini”, in cui l’editorialista afferma: “Non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa”.

Ernesto Galli della Loggia

Questo atteggiamento viene normalizzato sostenendo che il razzismo sia ben altro, vincolandolo solo ad alcuni episodi che ne rappresentano il culmine, ossia, ad esempio, quando si adottano leggi liberticide su base etnico-religiosa che puntano alla distruzione di gruppi etnici. Eppure la discriminazione e il pregiudizio rappresentano quelle basi che, se non vengono decostruite e denunciate alla radice, possono in breve tempo trasformarsi in odio, insulti e aggressioni. In questo caso sarebbe interessante chiedere all’autore dell’articolo quale sia secondo lui il “modo di fare dei nigeriani”. E quel “dico per dire” non sminuisce in alcun modo l’evidente generalizzazione fatta sulla base del pregiudizio che questo articolo non decostruisce. Sminuisce solo la gravità del razzismo, qualsiasi sia la forma in cui si manifesta.

Se una testata nazionale come il Corriere non ritiene che un articolo del genere possa essere problematico, allora non sorprende che tutte le altre facciano ormai da megafono a qualsiasi cosa dica Matteo Salvini. La maniera in cui, nei titoli, viene riportato ciò che dice sembra conferire valore e veridicità alle sue parole. Ad esempio, in riferimento alla sua affermazione secondo cui l’antisemitismo in Italia è dovuto alla presenza di immigrati di religione musulmana, la giornalista di Valigia Blu Arianna Ciccone fa notare come riportare questa sua frase in un titolo senza smentirlo non faccia che amplificare la sua propaganda. Non esistono infatti dati che attestino che l’antisemitismo in Italia sia dovuto alla presenza di immigrati di fede musulmana; al contrario, ci sono dati che attestano che l’antisemitismo proviene dagli italiani stessi, compreso l’accurato report di Vox Diritti. E sarebbe il dovere di un giornalista raccontarlo, a partire dal titolo.

Non contento, Matteo Salvini, ospite del programma Mattino 5, per giustificare la sua iniziativa, ha riconfermato in diretta televisiva le pesanti accuse rivolte alla famiglia di origine tunisina, sostenendo nuovamente che padre e figlio spaccino droga. Questo nonostante sia stato smentito da un’intervista fatta ai figli di quella famiglia, tra cui un minorenne di diciassette anni, che si è dovuto giustificare raccontando di come conduca una vita normale, fatta di scuola e di partite di calcio, come quella di un qualsiasi adolescente. Nella stessa intervista di Fanpage interviene anche il fratello maggiore, che ammette di aver avuto dei precedenti, ma spiega di non abitare più in quella zona e racconta di come sia lui che il padre lavorino. Vale la pena precisare e ripetere che, anche qualora si fosse trattato di spacciatori, Matteo Salvini non avrebbe comunque avuto alcuna autorità per fare ciò che ha fatto.

La signora Anna Rita Biagini, che ha innescato il caso e condotto Salvini per le vie del quartiere fino al fatidico citofono, si è giustificata dicendo di aver perso il figlio per overdose. Una notizia ripresa dal Corriere, che ha titolato: “Salvini e la signora Biagini, la sua guida al Pilastro: ‘Quando esco col cane porto sempre con me una pistola’”. Un titolo – e un articolo – del genere non fanno altro che giustificare l’atto di Salvini e della signora Biagini, dipinta come vittima, senza alcuna analisi inerente alle violazioni commesse nei confronti di quella famiglia. Anzi, la famiglia in questione – di cui, ricordiamo, ora tutti conoscono nome e residenza – è rappresentata come l’antagonista di questa storia, accusata di spacciare droga e diffamata a livello nazionale.

I giornalisti, in questa occasione e in molte altre, sono funzionali alla propaganda di Salvini: nemmeno questa volta, in presenza di evidenti violazioni della privacy, accuse infondate e discriminazioni su base etnica ai danni di una famiglia, sono riusciti a fermarsi. Non è possibile normalizzare e banalizzare questo episodio con una risata, o qualche meme e immagine satirica, per poi accantonarlo. Occorre ripensare al modo in cui si fa informazione condannando determinate azioni, rispondendo a quelle denunce presentate e rilanciate senza alcuna verifica di informazioni, dati e fonti, e senza mai uno sguardo critico. Perché non è normale, e non dovrà mai esserlo, che un politico possa sentirsi libero di presentarsi a casa di una famiglia, accompagnato da una scorta di poliziotti e di sostenitori, attribuendo accuse infondate, chiedendo addirittura di introdursi in casa, mentre quei giornalisti che dovrebbero svolgere al meglio il proprio mestiere non si pongono in altro modo che come semplici ingranaggi per la sua macchina propagandistica.

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