Come i poteri forti hanno sdoganato il gentismo - THE VISION

Avete presente l’atmosfera dell’Italia durante la guerra fredda? Peppone e Don Camillo, Dio che ti vede nel segreto della cabina elettorale, mentre Stalin, no. Il Partito comunista italiano guidato da Palmiro Togliatti, i legami misteriosi con l’Unione Sovietica, i finanziamenti da Mosca, le spie, la polizia che scheda i sindacalisti e gli ex partigiani? La cosa che più impressiona, ripensando a quella storia là, e poi a quella dei gruppi sorti per contestare, da sinistra, il PCI (penso ad Autonomia Operaia, Lotta Continua, Potere Operaio, eccetera) è che queste entità avevano un grado di trasparenza, democrazia e dialettica interne infinitamente superiori alla setta grillina di oggi.

Esagero? Mica tanto. A spiegare ciò che avveniva all’interno dei gruppi cosiddetti “extraparlamentari” ci pensavano, ad esempio, tonnellate di riviste che loro stessi stampavano (con incredibile serietà) oppure la polizia, che li sorvegliava con costanza e, spesso, malafede. Volete sapere cosa si diceva, invece, nel PCI a proposito della repressione di Budapest del ‘56 o della questione dell’aborto negli anni Settanta? Non c’è problema: basta consultare gli archivi storici di via Botteghe Oscure, a Roma. Era un cosmo fatto da progressisti e conservatori, da aperture alla società ed esigenze di unità nazionale. Tutto documentato ai tempi, com’era giusto che fosse. E tutto accessibile oggi, nonostante la vulgata comune.

Certo, qualcuno penserà che quel mondo non doveva essere poi granché, data l’enorme sfiducia e diffidenza che il ceto politico tradizionale ha accumulato nella società. È vero che i formalismi di allora si sono rivelati imbevuti di ipocrisia – specialmente dopo Tangentopoli – e soprattutto inefficaci per gestire i cambiamenti epocali dopo il crollo del Muro di Berlino. E che quindi quelle ritualità non potevano che andare in gangrena.

E in fondo – per tornare ai giorni nostri – l’originalità della “democrazia diretta” del Movimento Cinque Stelle, il suo punto di forza principale, non sta proprio nell’aver rimpiazzato i noiosissimi ed esclusivi Congressi plenari con i meetup? Per riportare al “basso” processi altrimenti troppo sofisticati. Per aver semplificato, hanno semplificato. Che si tratti di una conquista di civiltà resta qualche dubbio, se si è arrivati al punto in cui nessuno sembra assumersi la responsabilità delle cose che dice; dove nessuno, all’interno del partito di Grillo, sembra avere una posizione univoca sull’Euro (tanto per fare un esempio tra mille) e dove si è ripetutamente attinto da intere sezioni di Wikipedia, pur di mettere insieme qualche paginetta di programma elettorale.

A ben vedere, tuttavia, i pentastellati hanno in serbo un programma decisamente più radicale, invasivo e sconvolgente di quello proposto dal PCI dei tempi di Togliatti, all’epoca del patto sovietico e della cortina di ferro: superare la democrazia rappresentativa, abolire il voto segreto, cancellare la prescrizione, costringere ogni eletto a rispettare il vincolo di mandato (pena sanzione pecuniaria), cioè, di fatto, trasformare i parlamentari in dipendenti di un’azienda privata, l’associazione Rousseau, che costituisce ormai il nucleo operativo del M5S.  Tanto che un anno fa il giurista Sabino Cassese si sbilanciò, dicendo che con i grillini c’è un vero problema di eversione.

Un salto nel vuoto non da poco. Cosa sta succedendo ai famosi “poteri forti”? Mentre il candidato premier con 490 voti Luigi Di Maio rassicura le istituzioni finanziarie che, con lui al governo, l’Italia resterà saldamente nella Nato e nell’Euro, e nel frattempo lascia che i suoi seguaci scatenino le guerriglia facebookiana più becera, il Corriere della Sera di Urbano Cairo sembra guardare con attenzione alle forze antisistema. Come dimenticare – tra gli esempi più clamorosi – la candidata ventottenne nelle liste del M5S presentata da un articolo senza firma come “l’economista strappata alla Merkel”? A fare un debunking della presunta enfant prodige ci hanno pensato Gli Eurocrati dal loro profilo Facebook: “Fonti stampa ci segnalano che Alessia D’Alessandro, la candidata del Movimento 5 Stelle, in realtà non ha studiato a Sciences Po ma ha fatto l’Erasmus, si è laureata in Germania ma presso un’università privata di Brema fondata nel 2001, non è plurilaureata ma ha semplicemente una triennale e una specialistica, non ha conseguito alcun dottorato”.

Alessia d’Alessandro

Nonostante il Corriere ospiti diversi giornalisti vicini a Renzi, non gliene perdona una, all’ex primo ministro. Di più: il quotidiano, a tratti, sembra guardare al Pd come un corpo già morto, e al M5S con il rispetto e l’acume che si poteva riservare a coalizioni tradizionali come, per esempio, il centro-destra anni Novanta. Con punte di inquietante comicità: vedi il prestigioso notista politico Massimo Franco, che prende sul serio ogni pagliacciata del Movimento, dall’idea di presentare i futuri ministri al Quirinale (definita sobriamente un “cambio di passo”) al vincolo di mandato (giudicato “una risposta sbagliata a un problema giusto”). Certo, si tratta pur sempre del giornale che un decennio fa lanciò la campagna contro “la Casta”. Che ha gettato i semi per l’insofferenza generalizzata. Il problema è capire qual è oggi la strategia, l’orizzonte politico.

È soprattutto quello che il Corriere milanese non dice, a proposito del M5S, a suscitare perplessità. Dov’è l’indignazione borghese per un partito che – a leggere i reportage che da molti mesi Il Foglio (con Luciano Capone, Maurizio Crippa, Marco Taradash) e La Stampa (con Jacopo Iacoboni) gli sta dedicando – andrebbe descritto come una sorta di braccio operativo di un’associazione piuttosto opaca (per usare un eufemismo), irriformabile, controllata con poche lire da un signore (Davide Casaleggio) che nessuno ha eletto e che si muove come il Rasputin del comico genovese? Cercando di essere il più obiettivi possibile, è innegabile che, così come la Rai è filogovernativa, Mediaset berlusconiana, i programmi e telegiornali del polo di Cairo, a cominciare da La7, sembrano fare da sponda ai grillini ormai da tempo: “Lilli Gruber ospita a Otto e mezzo Travaglio, Padellaro e le altre prime firme del Fatto Quotidiano un giorno sì e l’altro pure; i reduci della Rai più battagliera come Giletti, Formigli e Floris, abilmente recuperati e riciclati da Cairo, si dilettano a cavalcare il populismo avanzante”, scrive ItaliaOggi. Secondo Crippa: “Il merger tra il Fatto Quotidiano e La7 non è un inedito, il pescaggio nello stesso bacino d’utenza populista-grillino è la sostanza dell’operazione.”

Lilli Gruber
Davide Casaleggio

Eccoci arrivati alla questione fondamentale: come mai la rete eversiva, accentratrice, “etero-diretta” del M5S non è stata resa immediatamente inoffensiva dai “poteri forti”, che non ne lasciano passare una alla sinistra che ha qualche speranza di governo? E come mai questa normalizzazione proprio adesso, quando è sempre più palese l’inadeguatezza della classe dirigente grillina, e sono sempre più evidenti le disfunzioni del suo meccanismo decisionale interno? Le risposte si collocano su piani diversi. Questa vicenda grottesca non sarebbe minimamente comprensibile se non tenessimo presente il ruolo svolto nel nostro Paese dall’opposizione delle nostre élite economiche a qualunque tentativo realmente riformatore.

Fa una certa impressione vedere le élite “normalizzare” l’ondata “gentista”. Potrebbe essere la certificazione definitiva che il vecchio bipolarismo si è sfasciato, e che, provati e falliti tutti, i padroni del vapore vogliono puntare sul qualunquismo che avanza. Il punto è che già successo.

Nel febbraio del 1964, quando il “miracolo economico” stava rallentando, una serie di rivendicazioni sindacali erano state represse coi licenziamenti e l’ingresso dei socialisti al governo e le prime importanti riforme della Chiesa cattolica scuotevano l’alta borghesia e gli industriali. Italo Pietra, direttore de Il Giorno, uno dei quotidiani più progressisti del tempo, polemizzava con il mantra imperante tra la destra e gli “operatori economici usi ad aver in gran dispitto i partiti e a guardare la politica dall’alto in basso: ‘tutto andava a gonfie vele nel mondo delle cifre. Poi quelli della politica hanno voluto il centro-sinistra e il centro-sinistra ha portato questa preoccupante bonaccia e la fine del miracolo’.” Ad aprile di quello stesso anno, sempre su Il Giorno, Giorgio Bocca completava il quadro: “Per tutto l’inverno nero e demente l’odio al politico viene predicato nelle case dell’alta e media borghesia milanese. Ogni parola di Lombardi è una coltellata, ogni dichiarazione di Moro un tradimento, ogni intervento di La Malfa un tranello insidioso. Quando il ministro Giolitti visita la Camera di Commercio si assiste allo spettacolo indecoroso di gruppi presuntuosi e villani che trattano il ministro cinquantenne come se fosse un ragazzino venuto a lezione.”

Giorgio Bocca

Questa antipolitica, spiegava Bocca, ha due ragioni. La prima è essa stessa politica: “Per la prima volta il ceto proprietario ha l’impressione che il potere decisorio sfugga al suo controllo […] La seconda ragione è molto più semplice. Per alcuni l’odio al politico è un’ottima ragione con cui si giustificano tutti gli errori aziendali e finanziari. Chi ha acquistato le azioni a prezzi folli, chi ha stipato i magazzini di merci, chi ha seguito fino all’ultimo la corsa speculativa non dà la colpa a se stesso ma ‘quei delinquenti da Roma’.” Che stava succedendo? Semplice: lì si entrava il tunnel infinito del declino italiano, di un’imprenditoria incapace di innovare e di innovarsi, e di un ceto politico sordo alle rivendicazioni sociali e riluttante a riformarsi. Il problema è che non ce ne rendevamo conto. C’era sempre un nemico esterno da cercare.

Bisogna mettersi in testa una volta per tutte che il “partito d’ordine” italiano ha sempre compreso in sé anche la nozione di illegalità. Purché – questo il punto fondamentale – essa fosse esercitata sempre e soltanto dalla destra. Con uno scopo ben preciso: preservare i caratteri ancestrali di una misteriosa entità, l’italiano medio. L’ennesimo complotto? Forse. Ma ammesso con naturalezza anche da Giulio Andreotti, interrogato vent’anni fa sui nessi fra massimi esponenti dell’esercito, tentativi di golpe ed eversione neofascista: “La convinzione [era quella],” spiegò l’ex presidente del Consiglio, “di essere impegnati in una guerra santa.” E negli stessi anni l’ex capo di Stato Maggiore delle forze armate, Mario Arpino, dichiarava: “Piaccia o non piaccia, ancora negli anni ottanta per noi un terzo del parlamento italiano era il nemico.”

Mario Arpino

Ovviamente Arpino – che oggi è un pluridecorato in pensione e fa l’opinionista – si riferiva al PCI. Direte voi che ciò che sto per fare – paragonare il partito di Natta e Berlinguer alla coalizione di Renzi e Lorenzin – ha un che di grottesco. Non troppo, se guardiamo più che alla composizione del centro-sinistra attuale e alle sue politiche, ai tratti comuni ai suoi avversari. Oggi, in tutta tranquillità e senza che si tema di passare per renziani, possiamo osservare come si stia rinsaldando quella stessa continuità tra borghesia reazionaria e strategie eversive che negli anni Sessanta impedì al centro-sinistra qualunque tentativo di governo la fine del Miracolo economico, mentre oggi auspica la bancarotta finale di un Paese già stagnante da due decenni. Ma il filo conduttore è sempre lo stesso: resistenza a qualunque tentativo riformista. Con la scusa dell’anticomunismo, allora, e dell’antieuropeismo oggi.

Sarebbe un inganno, del resto, pensare che lo “spostamento a destra” della nostra società sia legato esclusivamente alla “politica” in senso stretto. È una vocazione più profonda, inquietante, quasi antropologia. A volte fin troppo facile da leggere. Prendete le dichiarazioni di Italo De Feo, vicedirettore della Rai in quota socialista, che nel 1970 scrisse: “La politica è diventata un caos, la giustizia non funziona, i mezzi di trasporto sono paralizzati dagli scioperi, le industrie ferme, la polizia e le forze armate non hanno il potere di opporsi alla violenza dilagante.” Gli fa eco, con un parallelismo discutibile, il Beppe Grillo del 2015, che sintetizzava così i problemi della Capitale: “[S]ommersa dai topi, dalla spazzatura e dai clandestini.” Altre volte, i protagonisti ritornano: la sfilata senza vessilli di partito che venne organizzata a Milano nel febbraio del 1971 dalla sedicente “Maggioranza silenziosa”, in cui parteciparono democristiani, liberali, monarchici e soprattutto neofascisti dichiarati, trovò l’appoggio, tra i tanti, del socialista Paolo Pillitteri (futuro sindaco), del saggista Maurizio Blondet (che ora imperversa su ByoBlu) e dallo storico capocronaca del Corriere Michele Brambilla. Molto nasce da là.

Paolo Pillitteri

È un’idea non certo nuova, questa che la democrazia e le sue istituzioni non siano sufficienti ad arginare l’avanzata dell’ignoto e del diverso. Così come il comunismo aveva ispirato negli anni sessanta e settanta convegni che senza troppi giri di parole evocavano guerre e strategie non convenzionali contro l’avanzata dei “rossi” (oltre che veri e propri tentativi di colpi di Stato) così, nell’Italia del 2018 rabbonita da Internet, televisione e da un tantino di benessere borghese in più, si organizzano meeting surreali sul Piano Kalergi (per un controllo en masse della popolazione tramite vaccini), sulla natura hitleriana dell’Unione Europea e Merkel che vuole sostituirci con gli africani, nella cornice di un parlamentarismo imbelle da sostituire col voto online e la presunta democrazia assembleare.

In altre parole, la violenza che per decenni è stata scatenata da servizi segreti, correnti della Dc e dell’esercito, dalla diplomazia americana e dalla maggior parte della stampa nei confronti del ceto politico marxista, in questi ultimi anni si è trasformata in bonomia: per un partito-istituzione psichiatrica. Un partito orwelliano. Il famigerato “sistema” sta accettando senza troppi allarmi, nel suo alveare democratico, un movimento-crociata, passato dall’essere nel giro di qualche anno un club paleocristiano al primo partito d’Italia, a cui persino Ernesto Galli Della Loggia fa l’occhiolino. Qui, però non si tratta di un capovolgimento del pregiudizio classista che per decenni ha abitato il dna della borghesia italiana. Ci troviamo di fronte a un gioco che per molti aspetti è quasi diabolico: la normalizzazione del M5S sembra infatti non tanto una resa, quando l’esito ideale della sua opacità. Perché opaca è sempre stata la borghesia italiana: ieri, quella traumatizzata dalla fine del Boom; oggi, quella un po’ stracciona che sperava di approfittare dei privilegi e dello status quo dei padri, ed è rimasta scornata. E che ora, superata la fase New Age e di “cittadinanza attiva”, abbraccia il nichilismo abbronzato di Di Maio e l’ottimismo da Erasmus cialtrone Di Battista. La ratifica di normalità risponde, compiutamente, ad una affinità elettiva.

Luigi Di Maio e Allessandro Di Battista

La classe dirigente più liberale e razionale continua a indignarsi per il perdurante successo dei grillini? Farebbe bene anche anche a farsi qualche domanda. Poiché il M5S è la nemesi perfetta di una élite che ha sempre scelto di seguire le sue ossessioni più paranoiche, burine e autoritarie. È la stessa élite che accusava il Corriere di spostarsi troppo a sinistra durante la breve e travagliata direzione di Piero Ottone, che portò sulle sue pagine Pasolini, e venne messo in croce per aprirsi troppo alle voci “dal basso”.

È il gioco suicida dell’anticomunismo italiano, più che l’anticapitalismo, ad aver gettato il seme grillino. A questo punto i “poteri forti” faranno finta di assaggiarne i frutti: accompagnando con una pacca sulle spalle questo abominio alle elezioni, rendendolo di fatto l’unica opposizione accettata e accettabile per i prossimi cinque anni, saturando il mercato elettorale e congelando ulteriormente la frustrazione dell’elettorato. Forse, è proprio quello che i responsabili del disastro auspicavano.

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