Noi neri italiani non apparteniamo né alla destra né alla sinistra - THE VISION

È arrivata una notizia storica: l’elezione del primo senatore nero d’Italia. A far scalpore non è tanto che il neoeletto sia nero, in realtà, ma che sia leghista: Toni Iwobi, nato in Nigeria, laureato in informatica in America e cittadino italiano per matrimonio, milita nel carroccio da ben venticinque anni.

Lo sconcerto generale è stato immediato: un senatore eletto tra i ranghi di un partito che da sempre si proclama difensore di un’identità apparentemente minacciata dal diverso – che, di fatto, Iwobi impersona. Non a caso, la prima immagine che è venuta in mente al mondo social è quella del negriero Leonardo Di Caprio insieme al suo fidato maggiordomo di colore Samuel L. Jackson in Django Unchained.

È il 10 novembre 1963 quando Malcom X pronuncia il Discorso ai quadri di base (Message to the Grass Roots ), un intervento pubblico durante una conferenza di alcuni esponenti del Council for Human Right nella Chiesa Battista “King Salomon” a Detroit. Si tratta di uno degli ultimi discorsi da lui tenuti prima di uscire dalla Nation of Islam. In quest’occasione Malcolm X riprende un’analisi sullo schiavismo cui ha già fatto cenno, quello stesso anno, alla Michigan State University, e delinea due figure: quella del negro domestico e quella del negro da cortile. Il primo è quello accolto dal padrone nel proprio mondo, lasciandolo in posizione di subalternità ma consentendogli di sentirsi accettato, preso in qualche modo in considerazione. Il negro domestico così si affeziona ed è disposto a dedicare la propria vita alla tutela del padrone e dei suoi possedimenti. Non tanto per garantirsi una fonte di sostentamento, quanto per il risalente spirito di inferiorità, per la gratitudine di sentirsi qualificato da chi ha il potere di farlo. Il negro da cortile, invece, è quello che viene trattato appena un po’ meglio delle bestie, ma lasciato ai margini a cercare di non morire, costretto a ricordarsi ogni giorno che è solo un negro e che tale rimarrà. Al negro da cortile, di conseguenza, non interessa che il padrone viva, che non perda il suo prestigio, anzi, fosse per lui il padrone cadrebbe in disgrazia e morirebbe. Poi arriverebbe qualcun altro a imporre il suo potere, ma almeno uno avrebbe sofferto, sarebbe stato negro pure lui per il tempo del dolore.

Nulla di nuovo, dunque. Come non rappresenta una novità, nella battaglia contro i neri, usare i neri stessi come un piede di porco per forzare l’ideologia e riaccomodare la propria coscienza entro confini considerati più accettabili. Non serve leggere La capanna dello Zio Tom per comprenderlo. E ove non arriva il collaborazionismo attivo è sufficiente il più pacato gesto di elargire, con toni bonaccioni, attestati di avvenuta italianizzazione al nero che ti parla in dialetto bergamasco, o a quello che conosce tutto Guccini, o a quello che ormai vive in Italia da abbastanza tempo da potergli scrollare di dosso la polvere delle sue origini, premurandosi di lasciarne un granello da trasformare in esotismo, a imperitura memoria della propria grandezza d’animo.

Siamo il primo partito della storia della repubblica italiana a far eleggere un senatore nero in Senato.Ora, chi è il partito fatto di razzisti?!?

Pubblicato da Lucia Borgonzoni su martedì 6 marzo 2018

Seguendo il ragionamento di Malcolm X, in Toni Iwobi molti certamente vedranno un negro domestico: un’eccezione piazzata su un podio che però sottolinea la regola. Ma soprattutto, a parer mio, l’arroganza di poter ridefinire a proprio piacimento i tratti di un’identità che risulta scomoda, invitandola alla normalizzazione per poter legittimare se stessi. Ed è la stessa conclusione che si poteva evincere a seguito della nomina a ministro di Cecile Kyenge nel 2013, per la quale era stato addirittura creato un ministero ad hoc, in seno alla compagine di centro sinistra. Dopo la nomina della Kyenge si è messa in scena la barbarie: da una parte, una destra che non accettava la prospettiva di un temutissimo avvicendamento etnico; dall’altra, una sinistra talmente presa a difenderla a spada tratta da non fermarsi nemmeno un attimo a valutare le sue scelte discutibili. Tutti pronti a usare corpi neri come spada o come scudo.

Cecile Kyenge

Al di là dell’arrovellamento circa la connotazione discriminatoria dell’uno o dell’altro partito, resta il fatto che Toni Iwobi – come chi sta scrivendo – sia nero. Un banalità che i contendenti della scena politica sembrano non prendere in considerazione. È una battaglia che si gioca sul corpo, lo spirito e la portata politica dell’essere neri, non semplicemente dell’apparire come tali. A deciderne le regole, però, sono altri.

Si è dato l’incarico di delineare i contorni di queste nuove figure a chi nero non è, o a realtà e personaggi che in questi anni non hanno fatto altro che perpetuare la retorica in atto per poter continuare a parlare. Da un lato negri domestici che si sono adeguati alle forme di cultura del luogo in cui sono emigrati, diventando così comprensibili e più facilmente assimilabili sul territorio. Sull’altro versante, invece, una selva sterminata di negri da cortile, che ha perso l’occasione – di quasi tre generazioni– per maturare un proprio registro, o per creare una cultura politica di riferimento. Hanno preferito radicarsi nel territorio italiano, accettando di essere percepiti come un corpo estraneo da appiccicare (e quindi accogliere, anche contro voglia) a quello di una creatura/comunità già esistente. Lasciando così che si creasse una sorta di Frankenstein, un ibrido di elementi che rischiano di essere rigettati dal corpo a cui sono stati appiccicati.

Dare spazio e, soprattutto, concedere il tempo per problematizzare il proprio essere è l’unico modo per non radicalizzare le distanze. Perché far parte di una frangia della popolazione che si manifesta tra senatori leghisti e carne da macello a cui si mira per le strade, merita una qualche ricomposizione più elaborata che non l’immediata corsa alla ricerca di tracce di razzismo. Merita che ci si chieda perché è così importante quando se ne ammazza uno o se ne elegge un altro alla Camera Alta del Parlamento italiano. Anche perché vedere il razzismo come sola ideologia di superiorità del bianco rispetto al nero è altrettanto cieco: risponde allo stesso immaginario nazional-coloniale che si pretende di voler combattere.

Chiunque abbia avuto modo di muoversi tra le diaspore, qui e nel mondo, saprà che il razzismo non è privilegio dei bianchi. Il razzismo, prima che una tendenza politica, è una tendenza psicologica che subisce influssi storici, geografici, sociali, economici. E anche quando l’essere razzisti ci sembra essere una libera scelta, se si tratta di una questione di sensibilità, nulla costringe un essere umano a provare empatia con un altro solo perché potenzialmente oggetto della stessa discriminazione. Siamo noi a dover scindere l’ideologia del razzismo dal sentimento, sempre diverso, che lo nutre; senza il timore che l’attenzione da rivolgere al secondo scalfisca la lotta alla prima.

Ovviamente un’analisi di questo tipo non può trascendere dalla consapevolezza che, in questo particolare frangente socio-politico, la questione umanitaria rivesta un’importanza tale che i tempi per riorganizzare le fila di un nuovo pensiero sembrano mancare. Ma, semplicemente, non si può fare altrimenti. Perché il tentare di risolvere la questione immigrazione esclusivamente attraverso l’accettazione del migrante ha portato solo a una progressiva spersonalizzazione dei migranti stessi e, soprattutto, dei neri in quanto tali, per cui partiamo dal presupposto secondo il quale la relazione tra autoctoni e ciò che è percepito come allogeno sia qualcosa di convenzionalmente negativo (per la destra) o di forzatamente positivo (per la sinistra). In questo modo si continuerà semplicemente a problematizzare il nero, trattandolo non come persona – dotata quindi di idee e convinzioni proprie, oltre che un naso due occhi due gambe e due braccia. Un “altro”, che come detto, deve avere e trovare un proprio spazio entro cui svilupparsi e, soprattutto, la libertà di definirsi al di là di ciò che gli altri vedono. Anche se sembra banale dirlo, il colore – come anche in generale le nostre origini – non possono definirci nella nostra interezza. Sia nelle accezioni positive che in quelle negative.

Si tratta di una battaglia che è mutata e continuerà a mutare se stessa, partendo dall’essere combattuta sul piano della tolleranza, per poi passare a quello dell’integrazione intesa in termini di inglobamento. Ora il terreno è quello della comunicazione delle differenze di identità. Identità che non sono necessariamente di destra né di sinistra. Sia perché destra e sinistra – e le loro relative ideologie – non si limitano esclusivamente alle posizioni in merito al tema dell’immigrazione. Ma anche perché proprio il tema stesso prescinde dal fatto che qualcuno possa avere dei problemi nei confronti degli immigrati.

Nel mondo delle favole probabilmente saremmo qui a parlare delle proposte politiche portate avanti dal neo eletto Senatore della Lega. In questo mondo invece ci tocca discutere dello scontro sui social fra Toni Iwobi e Mario Balotelli, entrambi diventati strumenti del dibattito politico, non per le idee di cui si fanno portatori, ma perché entrambi neri. La sensazione è quella di vedere un’altra volta la scena di Django Unchained in cui due schiavi di colore lottano per il puro piacere del padrone bianco.

Il giorno in cui parleremo di Iwobi solo per le sue proposte politiche sarà il giorno in cui in Italia esisterà un rapporto sano fra bianchi e neri. Magari quando Iwobi capirà che a essere solo uno strumento non ci guadagna nessuno.

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