Contro la narrativa pro-Macron per la sinistra italiana - THE VISION

L’erba del vicino è sempre più verde, certo, soprattutto se il vicino ha un sistema elettorale a doppio turno che crea stabilità parlamentare, e se il nostro prato assomiglia a una palude.

Sui social network alla vittoria di Emmanuel Macron molti italiani gioirono per l’elezione di un giovane (classe 1977), visto subito come capace di “unire un paese” e sconfiggere i cattivi, l’onda nera della xenofobia antieuropeista del Front National. Queste sono le stesse persone che tendenzialmente hanno pianto (sempre sui social) per il voto che ha decretato la Brexit e per la vittoria di Donald J. Trump. E sono anche le stesse che postano su Facebook fotografie di Barack Obama, dicendo “quanto ci manchi”, o di Justin Trudeau. Proprio sul primo ministro figlio d’arte canadese the Jacobin (una delle poche riviste marxiste americane di attualità) pubblicò l’anno scorso un articolo intitolato “Justin Trudeau is not your friend”, dove si scavalcava la sua patina glamour, l’estrema fotogenia, svelando le sue politiche anti-ecologiste e guerrafondaie.

Con Macron fare questo discorso è ancora più facile. Basterebbe questo video di quand’era ministro dell’economia (scelto da Holland, che lo sostituì a Montebourg nel governo Walls):

Davanti a operai licenziati che protestano per la nuova legge sul lavoro – che tra le altre cose limitava i diritti dei lavoratori, rendendo più facili i licenziamenti e che causò varie proteste in tutta la Francia – il ministro Macron dice: «Se non volete che la Francia sia bloccata smettete di bloccarla». L’operaio risponde: «È l’articolo 49.3 che blocca la Francia [un articolo voluto da De Gaulle, che ha permesso di far passare la legge senza dibattito politico e senza la maggioranza in parlamento]». Poi, uno dei due operai critica la giacca da 5.000 euro del ministro e lui risponde risoluto: «Il miglior modo per pagarsi una giacca è lavorare». Il giovane operaio allora controbatte: «Lavoro da quando ho sedici anni, monsieur».

Al contrario di Mitterrand, il cui spin-doctor gli consigliava di mettersi giacche consunte per avvicinarsi al popolo, Macron è spesso stato criticato per il suo look preppy, con completi slim-fit da alta finanza (deve aver imparato ad amarli quando lavorava nelle banche), così lontano, appunto, dalla Francia operaia. Un meme ne riassume bene l’essenza, paragonando il presidente a un macaron.

Macron è riuscito a vincere le presidenziali senza un programma elettorale, sfruttando tre elementi: la fine del partito socialista (ai limiti storici della sua forza elettorale), lo spauracchio dell’imponenza del Front National di Marine Le Pen, e gli scandali di Francois Fillion, rappresentante della destra borghese anti-sarkozyana.

Sappiamo che è stata la classe urbana medio-alta e alta a votare Macron. Sappiamo che Hollande ha fatto di tutto per aiutarlo, sappiamo che le sue politiche, quando sostituì Montebourg, rientrarono in un piano per portare di nuovo la Francia a un ruolo centrale nel governo dell’Europa accanto alla Germania. Lui stesso ha dichiarato “non siamo né di destra né di sinistra”, frase che da noi trova posto nella bocca dei Cinque Stelle e dei tassisti quando scendi a Termini.

Ci si chiede quindi come possa essere diventato un modello per la sinistra italiana.

La risposta è doppia.

Da una parte l’Italia vuole un leader nuovo e serio. Matteo Renzi ci ha provato, ma ha fallito, per vari motivi, che vanno dalla sua incapacità politica teorica, all’arroganza di trasformare in un voto personale il referendum costituzionale del 2016, al tentativo di allargare il bacino elettorale del Partito Democratico – distruggendolo – e allo stesso tempo allontanando (o come dice lui “rottamando”) quelle figure politiche che appartenevano al PCI. Renzi ha anche provato a essere il politico da social, quello cool, appunto, mimando i Trudeau Jr., gli Obama, i Corbyn, pensando a torto che per conquistare i giovani bastassero giacche di pelle, battute e ospitate ad Amici di Maria de Filippi. Per qualche tempo si è detto: “Renzi si vota perché così, per una volta, vinciamo”. Era vero, certo. Ma a cosa è servito? A uccidere il sogno veltroniano di un grande partito riformista europeo e a spostare l’asse dello spettro politico sempre più verso destra.

D’altra possiamo rispondere alla domanda negandone il presupposto, proprio perché sono stati i Letta, i Renzi, i Monti e i Brunetta ad aver gioito, su Twitter o nelle interviste, per la vittoria del movimento En Marche! Nessuno di questi quattro ha alle spalle un percorso marxista: Letta (Enrico, da non confondere con il gran visir berlusconiano Gianni, suo zio) ha un percorso nella Democrazia Cristiana, Renzi ha un cursus honorum di scoutismo-partito popolare-Margherita prodiana. Su Monti basti sapere che votò Berlusconi nel ’94, mentre su Renato “lì lì per il Nobel” Brunetta non serve dire nulla (per quanto sia stato socialista, certo, ma socialista à la Craxi).

Ecco, quindi, non è vero che Macron piace alla sinistra italiana, ma nemmeno a quella vera francese, che si è schierata appunto con Jean-Luc Mélenchon, il Bernie Sanders d’oltralpe, al limite di un populismo di protesta, ma basato su vere posizioni di redistribuzione economica di equilibrio sociale e diritti dei lavoratori e degli studenti. Emmanuel Macron piace a quel centro europeista postdemocristiano che da anni in Italia è alla ricerca di una guida che non trova. L’attrazione per il neo presidente francese è la prova del nove per vedere chi difende i veri valori della sinistra e chi no. Si spera che il prossimo partito (veramente) di sinistra, post-dalemiano, pre-rottamazione, pro-lavoratori, crei le sue fila su questa base qui.

Desiderare un’icona straniera da importare o copiare in Italia è un fortissimo sintomo di povertà politica. Ancora una volta, il leader estero ci sembra migliore solo perché gli standard italiani vengono considerati di non adeguati. Un’intervista a personaggi come Antonio Razzi, Domenico Scilipoti, Luigi Di Maio, Maurizio Gasparri, Silvio Berlusconi etc, basterebbe a perenne esempio. Gli italiani, per valide ragioni, credono che ottenere una carica istituzionale in Italia porti inevitabilmente a sporcarsi. “Sono tutti uguali”, “rubano tutti, appena hanno una poltrona”, e via di seguito con altre prospettive populiste che hanno aiutato la nascita e la crescita del Movimento 5 Stelle. Finché sono dall’altra parte del vetro, invece, questi leader stranieri mantengono una purezza che li rende irresistibili.

Tuttavia un elemento di grande differenza però c’è: l’esperienza e l’istruzione. Questi “vincenti”, nominati spesso come modelli per una rinascita della sinistra italiana, sono persone con grande esperienza politica. Guardiamo due dei modelli sognati dagli italiani. Barack Obama è un intellettuale, ha fatto le migliori scuole americane, scriveva sulla Harvard Law Review, e non ha mai nascosto di essere un grande lettore. Emanuelle Macron ha seguito un cursus accademico classico e d’eccellenza (Lycèe Henry-IV, Science Po e ENA) – e chi si innamora della propria insegnante di lettere se non una persona con tendenze intellettuali? Ha ammesso inoltre che l’alternativa alla politica sarebbe stata quella di scrivere, e nella sua foto ufficiale, insieme ai suoi due iPhone, ha posizionato bene in vista le memorie di De Gaulle, Il Rosso e il Nero di Stendhal e I nutrimenti terrestri di André Gide, tutti in belle edizioni rilegate in pelle. Il percorso scolastico non è certo metro di giudizio sulle capacità politiche e di leadership di un individuo, ma la curiosità intellettuale sì. Forse la sinistra italiana non si accorge del valore di questi elementi nella selezione di una guida che possa unire e combattere con coscienza.

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