Renzi dice di essere femminista. Perché nessuno se ne è mai accorto?

Come donna femminista, ogni volta che un uomo mi dice di essere femminista devo sempre contare fino a dieci prima di rispondere qualcosa che non sia un ironico: “Ma certamente”. Questo perché, nella mia esperienza, ho spesso incontrato uomini che dicono di essere dalla parte delle donne – per molti motivi: per fare colpo, passare per progressisti e sentirsi a posto con la propria coscienza sono i principali –, ma poi con le loro azioni dimostrano tutto il contrario. Fortunatamente, ne conosco molti altri che hanno fatto un lungo percorso di presa di consapevolezza e hanno deciso di informarsi, studiare e a volte cambiare la propria vita per abbracciare il femminismo. Matteo Renzi non è uno di loro.

Quando l’ex segretario del Pd ha annunciato il suo addio al partito e, pochi giorni dopo, la fondazione di Italia Viva, tutto mi sarei aspettata fuorché la sua svolta nel nome della gender equality: “Le donne sono fondamentali nella società e dobbiamo coinvolgerle di più in politica. Saremo il partito più femminista della storia italiana e saremo di esempio anche per gli altri partiti”, ha detto in un’intervista a Il Messaggero. I renziani hanno salutato come una rivoluzione il primo partito women friendly della storia d’Italia, guidato ovviamente da un uomo, dimenticandosi che esistono già tre partiti con leader donne, Possibile con Beatrice Brignone, Potere al Popolo con Viola Carofalo e Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni che ha anche ricordato a Renzi che non si può definire “femminista” un partito fondato e guidato da un maschio, che sceglie anche le nomine.

Viola Carofalo
Giorgia Meloni

Se l’ex Pd ha bisogno di lezioni di femminismo da Meloni, si intuisce che il progetto non è molto convincente, come non lo è stata la politica di genere adottata da Renzi negli ultimi 5 anni, facilmente riassumibile nell’intervista rilasciata a Quotidiano.net. Per spiegare la sua idea di femminismo, Renzi parla della figlia: “Lo sguardo di padre aiuta a pensare il femminismo in modo de-ideologizzato e concreto. […] La parità nelle retribuzioni è un dovere per la politica e un diritto per mia figlia, per tutte le figlie e per tutte le donne”. Per Renzi, le donne sembrano esistere solo in funzione di, nella migliore tradizione sessista che non riesce a considerare le donne al di là della propria cerchia di familiari o amiche. E infatti, per cinque anni, Renzi ha parlato molto di donne, ma di una categoria specifica: le mamme. Nemmeno “madri”, proprio mamme.

Non dimentichiamo infatti che è sotto il suo governo che si è svolto l’infausto “Fertility Day”, nonostante il passo indietro dall’allora premier che si era detto completamente estraneo all’iniziativa. Ma, a distanza di qualche mese, fu sempre Renzi che in occasione della sua nomina a segretario durante l’assemblea nazionale 2017 del Pd riassunse le sue priorità in “lavoro, casa e mamme”. Ed è sempre Renzi che, quando divise nello stesso anno gli obiettivi del partito in 40 dipartimenti, creò il “Dipartimento mamme” (separato dalle pari opportunità). I dipartimenti erano stati equamente divisi al 50% tra i due sessi, come successo con i ministri del governo del 2014 e come è stato promesso anche per Italia Viva. Ma l’uguaglianza formale delle quote si traduce in vera inclusione delle donne nei processi decisionali? Se Renzi dice di voler fare una politica “femminista”, non basta avere metà donne nel suo organico: deve fare politica per le donne, e non con le donne.

È davvero inverosimile che succeda. Basta guardare in cosa si è tradotta in passato questa suddivisione a metà degli incarichi, soprattutto là dove si deve scavare più a fondo rispetto alla foto di gruppo empowering delle ministre. La percentuale infatti scendeva al 30% se si consideravano anche i sottosegretari, e al 16% tra capigruppo, presidenti di commissioni e uffici di presidenza. Il caso più emblematico è però quello della legge elettorale, una delle ultime fatiche di Renzi premier, nota tra le altre cose per aver introdotto dei vincoli di parità di genere, per cui nelle liste dei collegi plurinominali i candidati erano collocati secondo un ordine alternato di genere, mentre quelli dei collegi uninominali potevano presentarsi anche in cinque diversi collegi plurinominali. Il problema è che con questo sistema, se una donna era capolista di questi ultimi, ma vinceva un collegio uninominale, il suo posto era assegnato al secondo della lista, cioè a un uomo. 50 e 50 sulla carta, ma quattro possibilità in più per un uomo di essere eletto. Quattrocento donne del Pd attaccarono i vertici del partito, denunciando “un gruppo dirigente sempre più chiuso e muto [che] si trincera in delegazioni e trattative di soli uomini”.

“La politica di Renzi è sempre stata molto poco femminista”, ci dice Giuseppe Civati, che dal Pd si è staccato nel 2015 per fondare Possibile. “Questa mossa ci dice che non è tanto di moda Renzi, quanto il femminismo. Anche il fatto che sia lui a nominare una leader [cioè Teresa Bellanova, presidente di Italia Viva] la dice lunga. Sappiamo tutti che il leader di Renzi è Renzi”. L’approccio di Renzi al welfare è infatti sempre stato familistico e basato sul lavoro non retribuito delle donne. La giornalista Giulia Siviero aveva osservato nel 2014 come il Jobs Act considerasse la conciliazione vita-lavoro solo in prospettiva femminile, assumendo che fossero soltanto le donne a doversi dividere tra il proprio impiego e i figli. Infatti, della misura più conciliatoria che si potesse inserire, cioè l’estensione del congedo di paternità (allora di soli due giorni), non c’era traccia. Anche con Italia Viva, l’unico progetto che per ora ha un nome ufficiale si chiama Family Act.

L’altro aspetto cruciale dell’idea che Renzi ha del femminismo è palesato sempre da quella dichiarazione per Quotidiano.net, in cui parla di un “femminismo de-ideologizzato e concreto”. Pensare che il femminismo sia un’ideologia campata per aria e lontana dalle vere esigenze delle donne è un pregiudizio maschilista tipico di chi le lotte femministe non le ha viste nemmeno con il binocolo. In realtà, la politica di genere riguarda in primis le condizioni materiali, che sono ancora segnate dalla differenza: il gap salariale, il mercato occupazionale, l’accesso ai diritti riproduttivi, le misure contro la violenza di genere non sono speculazioni filosofiche sui massimi sistemi, ma realtà contro cui le donne si scontrano quotidianamente e che il femminismo affronta a viso aperto. Di certo, non abbiamo bisogno di un maschio che ci venga a spiegare che cosa è femminista e cosa non lo è.

Giuseppe Civati
Teresa Bellanova

L’impressione è che il femminismo che piace a Renzi sia un femminismo garbato e rassicurante, incarnato proprio da quelle figure familiari a cui si è richiamato per cinque anni, e che ancora richiama: mamme e figlie. Donne che ricoprono un ruolo che non solo è in qualche modo dipendente dall’uomo, ma che è anche canonizzato nel segno della remissività e della condiscendenza. A mio parere, è la ragione per cui Renzi ha scelto di usare una parola così impopolare – almeno nel nostro Paese: Renzi ci sta dicendo che il suo partito è femminista perché l’ha deciso lui. Perché è lui che investe di autorità la nuova presidente di Italia Viva, perché è lui che con benevolenza stabilisce quali e quante donne occupano una data posizione, perché è lui che sceglie un nome difficile da digerire persino per il suo elettorato democratico e progressista, persino per le donne. È un femminismo calato dall’alto.

Renzi nell’intervista dice che la ex Ceo di Pepsi Indra Nooyi gli ha insegnato che se vuole, può. È buffo che un pasionario come Renzi si faccia incantare dalla favola neoliberale della donna che se stringe i denti può conquistare tutto quello che vuole, nonostante le avversità: chi glielo va a dire a Renzi che la disoccupazione femminile è al 51,9%, che 25mila donne nell’ultimo anno si sono licenziate perché non sapevano a chi lasciare i figli, che le donne migranti abortiscono comprando online farmaci per l’ulcera, mettendo a repentaglio la loro vita, pur di non andare in ospedale perché non hanno i documenti? Sì. Le donne, se vogliono, possono. Ma devono essere aiutate da una politica realmente femminista, che si interessi di loro non solo in quanto madri o elettrici.

Quella di Italia Viva e di Renzi femminista è un’operazione di rebranding poco credibile, che non vale nemmeno la pena di chiamare pinkwashing. È più simile a quando non ti accorgi che nel lavare i capi bianchi hai dimenticato una maglietta fucsia in lavatrice. Al massimo le mutande diventano rosa sbiadito.

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