In terra stultorum sapiens rex. Abbiamo il re, ma attorno a lui il nulla. - THE VISION

Sergio Mattarella sarà ancora il Presidente della Repubblica Italiana, in seguito ai 759 voti ottenuti all’ottavo scrutinio a Montecitorio. Abbiamo evitato Berlusconi e le risate del mondo intero, Casini e il bigottismo trasformista al potere, capi dei servizi segreti manco fossimo nel Sudamerica negli anni Ottanta, tecnici raccattati dai propri uffici per nascondere le lacune parlamentari, presidenti del Senato che votavano per Ruby nipote di Mubarak e con la passione per gli aerei. Abbiamo al Quirinale il migliore dei nomi possibili, ma abbiamo perso tutti.

Mattarella aveva dichiarato espressamente, più volte, di non essere disponibile per un secondo mandato. Il suo portavoce giusto una settimana fa aveva pubblicato una foto con gli scatoloni per un trasloco che sembrava definitivo. A ottant’anni, dopo un onorevole servizio, meritava la sua pensione lontano dagli strilli della politica. I suoi sette anni al Quirinale sono stati probabilmente i più difficili della storia repubblicana, con una pandemia a falcidiare il Paese, politicanti capricciosi che hanno fatto saltare governi con la leggerezza di un cocktail sulla spiaggia e addirittura una richiesta di impeachment da parte di chi si è trovato candidato al Parlamento grazie ai voti espressi su un blog. Alla fine gli stessi politici che tanto l’hanno fatto penare sono stati costretti a richiamarlo, mostrando in pieno l’incapacità di una classe politica che continua a delegare e non è in grado di assumersi le proprie responsabilità.

Silvio Berlusconi
Pierferdinando Casini
Maria Elisabetta Alberti Casellati

Questo stallo politico non solo non è un unicum, ma ricapita per la seconda volta consecutiva. Anche nel 2013 il Presidente della Repubblica uscente, all’epoca Giorgio Napolitano, fu costretto a tornare al Quirinale, complice un Parlamento inaffidabile che affossò prima Franco Marini e poi, con il famoso tradimento dei 101 franchi tiratori, Romano Prodi. Tranne Sel e M5S, tutti gli altri partiti pregarono Napolitano di tornare, che accettò per senso istituzionale ma redarguendo con toni durissimi tutta la classe politica durante il suo discorso di insediamento. Parlò di “omissioni e guasti, chiusure e irresponsabilità”, accusando i partiti di aver agito in base a “calcoli di convenienza”. Annunciò che non sarebbe rimasto al Quirinale per altri sette anni, e infatti si dimise nel gennaio del 2015, dichiarando: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo di fronte a sordità come quelle contro cui ho cozzato in passato, non esiterò a trarne conseguenze di fronte al Paese”. La storia si è ripetuta anche con il suo successore, e il fallimento riguarda tutti i partiti politici, nessuno escluso.

Giorgio Napolitano

Dopo un teatrino durato una settimana, i protagonisti di questa vicenda meschina dovrebbero dare più di una spiegazione ai cittadini, invece di rifugiarsi nelle frasi di circostanza e nei ringraziamenti di rito a Mattarella. Essere arrivati alle votazioni del Presidente della Repubblica impreparati, divisi e senza un progetto chiaro non rappresenta soltanto un esempio di malapolitica in senso astratto, ma ha concretamente portato a miliardi bruciati per il calo della Borsa dovuta a un’incertezza e a un senso di impotenza istituzionale che è stato il leitmotiv di questi giorni. I mercati hanno osservato e poi valutato l’Italia per quella che è: una nazione instabile rappresentata da irresponsabili.

Invece di ragionare su maggioranza e opposizione – essendo Fratelli d’Italia una molecola di quella coalizione che staziona al governo – è più corretto analizzare gli ultimi avvenimenti seguendo la logica Novecentesca del destra-sinistra-centro, ripercorrendo le mosse. Il centrodestra si è presentato con la candidatura di Silvio Berlusconi, ovvero il nome più incompatibile per ricoprire una carica del genere. Capendo che non sarebbe salito al Colle, o spinto dalla famiglia a desistere, Berlusconi si è ritirato dai giochi. Meloni, Salvini e Tajani hanno dunque ripiegato su altri nomi, ugualmente irricevibili e sempre nella galassia berlusconiana. Si è parlato di Franco Frattini e Marcello Pera, ma le candidature si sono eclissate in fretta. C’è stata poi la pantomima di Salvini novello femminista, che per un paio di giorni ha tempestato i social con frasi da Bacio Perugina sulle donne, considerandole quasi un’entità estranea alla specie umana, soltanto per caldeggiare la candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati, già presidente del Senato. Bruciare la seconda più alta carica dello Stato non è stata una mossa particolarmente intelligente, e tra l’altro ha mostrato una spaccatura anche all’interno del centrodestra, che non l’ha votata in modo compatto.

Matteo Salvini

Andando ancora più a destra, Meloni ha continuato a fare il gioco della finta oppositrice a un governo composto prevalentemente dai suoi alleati. Dopo aver appoggiato Berlusconi, Casellati e aver cambiato rose di nomi ogni giorno, la leader di Fratelli d’Italia ha tuonato contro il Mattarella-bis, invocando il presidenzialismo e l’elezione diretta da parte dei cittadini del Presidente della Repubblica. Il solito populismo di facile presa, parlando alla pancia di un popolo frustrato dopo una settimana di tiritere che non hanno portato a nulla. Il problema non è la Repubblica parlamentare, ma la scarsa qualità dei protagonisti, che da parecchio tempo hanno ceduto all’antipolitica e alla demagogia. Sono gli stessi politici che gridano allo scandalo della tecnocrazia ma non si rendono conto che i tecnici arrivano come conseguenza del populismo, e non il contrario. Il sonno della ragione genera i Monti.

Giorgia Meloni

Se Atene piange, Sparta non solo non ride, ma dovrebbe riflettere sulla sua identità melliflua. Avevamo già nutrito dei dubbi sulla scelta di Letta e del Pd di presentarsi alle votazioni senza alcun candidato o indicazione, armati di frasi vaghe e pressappochismo. Qualcuno pensava fosse una strategia per non bruciare qualche nome, un asso che tenevano nella manica. Hanno sopravvalutato la capacità del Pd di avere una visione o qualsiasi tipo del progetto, visto che come ampiamente previsto il nome non l’avevano, e per giorni sono rimasti a guardare gli altri senza proporre nulla. Idem il Movimento Cinque Stelle, ormai sempre più creatura di palazzo che tira a campare fino alla probabile estinzione alle prossime elezioni. Renzi ha approfittato dell’impasse per mantenere una visibilità mediatica che non rispecchia la sua attuale dimensione politica, molto evaporata. I suoi discorsi da statista a reti unificate, con la boria del filosofo senza conoscenza, non hanno aggiunto nulla al dibattito politico, se non il solito fumo che ha coperto le negligenze di un Parlamento costretto a palesare la propria incapacità decisionale.

Enrico Letta
Giuseppe Conte

In tutto questo bailamme, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha preferito il low profile, probabilmente perché Mattarella gli terrà caldo il posto fino alle elezioni del 2023, per poi dimettersi come Napolitano, a meno di ulteriori sorprese. Mattarella che di fatto è stato costretto ad accettare la rielezione per “il bene del Paese”. Si usa spesso questa espressione davanti a contingenze che mascherano il reale significato delle azioni. Il bene del Paese sarebbe un repulisti, una classe politica diversa, non il solito pantano dove prevale l’immobilismo in nome di uno status da preservare e in cui tutto viene perdonato. Come ha scritto lo scrittore rumeno Valeriu Butulescu: “La coscienza dell’uomo politico è simile alla tela dello schermo cinematografico. Sempre bianca e immacolata, anche se sono stati proiettati molti orrori”.

Sergio Mattarella

È difficile immaginare cosa possa fare ancora questa classe dirigente per conclamare il proprio fallimento, per ammettere di non essere stata in grado di gestire la cosa pubblica.  Siamo il Paese dalla memoria labile, e dimenticheremo anche questa brutta pagina. D’altronde tra pochi giorni inizia il Festival di Sanremo e si parlerà d’altro. Un nuovo trend è la più grande arma di distrazione di massa dei nostri tempi, e come la pandemia ha messo sotto il tappeto le macchie della nostra politica, che l’ha usata come paravento, adesso avremo altre viralità per contenere l’indignazione e digerirla lentamente, fino a quando non avremo altri motivi per qualche protesta passiva tra un click e l’altro. Forse dobbiamo semplicemente accettare il nostro Paese come un corpo immobile che è la proiezione dei nostri vizi e delle nostre crepe, assumerci le nostre responsabilità come elettori distratti o ipnotizzati, perché in una democrazia rappresentativa le colpe ricadono su tutti. Eletti ed elettori, burattini e burattinai. Abbiamo ceduto alle sirene dei populisti, ma anche dei passacarte senza spina dorsale e dei mestieranti che si comportano come gran parte degli italiani farebbero se raggiungessero certi ruoli. Ci ritroviamo dunque nella situazione in cui il Mattarella-bis rappresenta sia il bicchiere mezzo pieno che quello mezzo vuoto. Potevamo avere un nome impresentabile a guidarci, e non l’abbiamo avuto. Ma se il fine non giustifica i mezzi, adesso abbiamo un nome autorevole che voleva fare altro, e siamo arrivati a questo punto perché la nostra politica, specchio della società, è malata. E la cura non può essere un accanimento terapeutico. Nei casi estremi occorrerebbe staccare la spina, ma in Italia non sembra essere possibile.

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