Il M5S voleva fermare la svendita di patrimonio pubblico. Ora aumenterà del 700%.

Qualche giorno fa, sui canali social di Beppe Grillo è comparso un post che ha fatto strabuzzare gli occhi ai più. L’ex comico raccontava della sua visita alla Mater-Biotech, azienda chimica leader internazionale nel settore delle bioplastiche, da lui definita “Un eccellente esempio di economia circolare che deve essere valorizzato e conosciuto da tutti”. Nulla di strano, se non fosse che l’azienda è la stessa che produce quei sacchetti biodegradabili resi obbligatori dal governo Gentiloni l’inverno scorso, un atto che aveva suscitato nelle file dei Cinque Stelle ogni sorta di ira e complottismo, facendo segnare uno dei momenti più bassi della scorsa campagna elettorale.

Intanto in quel di Roma, mentre Grillo cambiava idea sull’azienda di Bottrighe (RO), i suoi scudieri pentastellati si trovavano in Senato a festeggiare per il via libera al decreto Genova. Un condono edilizio mascherato, accolto con pugni alzati, abbracci ed esultanza da stadio da chi, fino a pochi mesi fa, faceva proprio della lotta al condonismo uno dei suoi pilastri elettorali.

Queste giravolte politiche pentastellate si aggiungono a quelle sulla Tap e l’Ilva di Taranto, solo per citarne alcune. Ma fra tutte le inversioni di rotta, il 14 novembre scorso si è consumata quella più clamorosa, su un tema tanto caro al Movimento: le privatizzazioni. In una lettera inviata all’Europa, in risposta alla bocciatura della legge di bilancio e alla conseguente richiesta di “Fornire una relazione sui cosiddetti ‘fattori rilevanti’ che possano giustificare un andamento del rapporto Debito/Pil con una riduzione meno marcata di quella richiesta”, il governo italiano ha tuonato che il valore del 2,4% non si tocca. E ha aggiunto che la riduzione del debito verrà garantita da un piano di privatizzazioni del patrimonio immobiliare pubblico per un valore totale nel prossimo triennio di 18 miliardi di euro, vale a dire un punto percentuale del Pil. “Per accelerare la riduzione del rapporto debito/Pil e preservarlo dal rischio di eventuali shock macroeconomici, il governo ha deciso di innalzare all’1% del Pil per il 2019 l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico. Gli incassi costituiscono un margine di sicurezza e consentiranno di raggiungere una discesa del rapporto debito-Pil più marcata e pari a 0,3 punti quest’anno, 1,7 nel 2019, 1,9 nel 2020, 1,4 nel 2021, portando il rapporto dal 131,2% del 2017 al 126,0 del 2021”, recita nello specifico la lettera firmata dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

Sono tanti gli elementi che non tornano in queste dichiarazioni. Innanzitutto, tradiscono una delle battaglie pluriennali del M5S, quella a difesa del patrimonio pubblico. Per farsi un’idea, basta leggere i post d’annata del Blog delle Stelle. Nel 2013 per esempio si leggeva: “Invece di tagliare le spese inutili e i privilegi con la cessione delle aziende si rinuncia alle quote future di dividendi e si cede il controllo di pezzi dello Stato al mercato. Chi ha dato il permesso a Capitan Findus Letta di dismettere dei beni che appartengono ai cittadini? Questo personaggio non è stato eletto da nessuno. Non ha neppure partecipato alle primarie del suo partito. Non ha legittimità popolare. Se ne deve andare. No alle privatizzazioni. Lo Stato e i suoi beni sono dei cittadini, non dei politicanti. In alto i cuori!”. La contrarietà dei Cinque Stelle alle privatizzazioni era anche uno dei temi elettorali dei grillini. Nel programma presentato agli elettori in vista delle votazioni del 4 marzo, infatti, veniva spiegato che “Il Movimento non crede che le privatizzazioni possano ridurre in maniera efficace lo stock di debito pubblico”. A questo proposito, si chiedeva un confronto tra governo e Parlamento, “Al fine di rivedere la decisione di vendere asset vincenti del patrimonio pubblico per il solo fine di pervenire ad una minima riduzione dello stock di debito pubblico, scelta perdente nel medio e lungo periodo”. Paradossale che queste dichiarazioni, risalenti a meno di un anno fa, vengano dagli stessi che oggi presentano la vendita di immobili dello Stato come una strategia talmente efficace da valere un punto del Pil. E da chi, sempre in questi mesi, si è fatto paladino della nazionalizzazione di Autostrade e Alitalia e che, appena può, invoca l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti – ente a partecipazione pubblica – nel Cda di varie aziende a partecipazione pubblica.

Giovanni Tria, ministro dell’economia e delle finanze

Di tutti questi cambiamenti di idea, di cui i Cinque Stelle dovranno semmai rispondere davanti a chi li ha votati, ciò che spaventa è la fantascienza su cui poggia il piano di introiti per 18 miliardi di euro presentato all’Europa. Secondo i dati del Def del 2018 e di quelli degli anni precedenti, i proventi derivanti dalle dismissioni di patrimonio pubblico sono stati ben inferiori alle previsioni: dal 2010 al 2017, l’incasso totale è stato di 8,7 miliardi di euro; di questi, nell’ultimo triennio sono entrati soltanto 2,5 miliardi. Nelle intenzioni del governo c’è dunque una vera e propria impresa, che richiede una capacità di vendita del 700% superiore a quella dimostrata negli ultimi tre anni. Come spiega Massimo Franchi sul Manifesto, “Lo stesso ministro Tria nella nota di aggiornamento al Def alla voce cessione del patrimonio immobiliare indicava una stima di 600 milioni per l’anno in corso e la previsione di 640 milioni nel 2019 e 600 milioni nel 2020”. Da un giorno all’altro, dunque, si è arrivati a moltiplicare questi valori, fino all’irrealistica previsione finale dei 18 miliardi. Peraltro, il patrimonio pubblico censito nel 2016 conta circa un milione di immobili pubblici per un valore di 283 miliardi, ma il 77% non è disponibile per la vendita in tempi rapidi in quanto utilizzato dalle amministrazioni centrali e periferiche, mentre il 23% rimanente è in locazione.

Il piano di privatizzazioni del governo giallo-verde non è di sicuro il primo della storia repubblicana, e anche i casi precedenti non sono entusiasmanti. Come sottolinea Nicola Fratoianni, “Già il governo Gentiloni (come i precedenti Renzi, Letta, Monti, Berlusconi e via a scendere) prevedeva quote di privatizzazioni, ma per una cifra ben più bassa, cioè lo 0,3% del Pil. Un terzo rispetto a quanto paventato dai governanti del cambiamento. E già quella strategia era stata sonoramente bocciata dall’Ufficio parlamentare di Bilancio”. II Messaggero spiega che “Lo scorso anno il governo Gentiloni aveva promesso 3,6 miliardi di cessioni e non è riuscito a portare  a casa nemmeno un euro”.

Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana

Se a tutto questo aggiungiamo le dichiarazioni del vicepremier Luigi Di Maio, che ha promesso che nella svendita di patrimonio pubblico “Non saranno toccati i gioielli di famiglia”, risulta ancora più difficile capire in che modo, realmente, si pensi di arrivare a quei 18 miliardi di euro. L’ultima volta che le entrate dalle privatizzazioni hanno superato l’1% del Pil era il 2003, al governo c’era Silvio Berlusconi e al Mef Giulio Tremonti. Ai tempi quelli che Di Maio chiama “gioielli di famiglia” furono toccati, eccome. Vennero infatti dismesse quote di Cassa Depositi e Prestiti, Eni, Enel, Poste Italiane e dell’Ente Tabacchi Italiani. Roberto Gualtieri, presidente della Commissione economica del Parlamento Europeo, parla di un piano inutile e dannoso: “Inutile perché come è noto le privatizzazioni non incidono sul deficit strutturale (e se non riguardano immobili neanche su quello nominale) e quindi non consentono di evitare l’apertura di una procedura di deficit eccessivo, che imporrà all’Italia vincoli più stretti per molti anni”. Inoltre, aggiunge “Realizzare 18 miliardi di privatizzazioni nel 2019 è al tempo stesso del tutto irrealistico e profondamente sbagliato, e determinerebbe una svendita a prezzi di saldo del patrimonio pubblico”.

Roberto Gualtieri, Presidente della Commissione per i problemi economici e monetari

Tenendo per buone le varie dichiarazioni del governo sul tema, la conclusione è che per arrivare effettivamente ad accumulare quei 18 miliardi di euro serviranno 900 anni. A meno che non si vendano il Colosseo o l’Altare della Patria, spiega provocatoriamente Fratoianni. Che sottolinea poi che “Il patrimonio immobiliare pubblico potrebbe avere un utilizzo più giusto, più equo e più serio, piuttosto che darlo in bocca ai soliti pescecani speculatori, in questa Italia in cui 50mila persone non hanno una casa e ben 700mila persone sono in difficoltà con il mutuo”. Al di là delle giravolte politiche del governo giallo-verde, a cui siamo ormai abituati, e l’inattuabilità di alcune promesse, è proprio questo punto che più lascia interdetti. Chi si proclama rappresentante delle fasce più povere della popolazione è anche chi non si tira indietro davanti a flat tax e condoni vari. E che promette di sconfiggere la povertà attraverso una manovra che, paradossalmente, poggia su un piano di privatizzazione che sacrifica quello stesso patrimonio pubblico con cui si potrebbe gestire – almeno in parte – l’emergenza abitativa del Paese. Un controsenso.

Come hanno spiegato anche Marco Bertorello e Danilo Corradi su Jacobin Italia, d’altronde, la lotta al neoliberismo di cui in alcuni casi si fa portatore il governo gialloverde è più frutto della casualità che non di una strategia a lungo termine. “L’intervento su reddito e pensioni cerca di dare credibilità all’idea della rottura con l’austerity, e ciò spiega almeno in parte la tenuta sul piano del consenso da parte del governo, ma la rottura con il liberismo e con la sua logica di fondo non c’è”, spiegano. “Non si vede insomma un vero progetto economico alternativo”.

Manca un disegno preciso nell’ideologia e nell’azione di governo. A regnare, piuttosto, è un caos generale spacciato per normalità. La contraddizione continua che diventa filosofia politica, soprattutto in quel M5S che nel giro di 24 ore dice tutto e il contrario di tutto. Ciò che rimane è una sensazione di stordimento, l’incapacità di comprendere davvero il pensiero della formazione pentastellata.

Dopo la guerra ai condoni, alla Tap e le promesse sull’Ilva, probabilmente anche la lotta alle privatizzazioni è stata solo un’arma di propaganda del Movimento. Da sventolare contro i Benetton di turno, per parlare – ancora una volta – alla pancia delle persone, creando nemici del popolo pescati dal club dei potenti. Una strategia che ha pagato, la Soros-fobia insegna. E che pagherà sempre, nell’era del populismo.

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