Come il governo dei sovranisti ha immolato la sovranità sull’altare dell’incompetenza

Alla fine i mercati finanziari e gli “eurocrati” hanno rimesso in riga il governo gialloverde nel modo più doloroso possibile. Dopo mesi di proclami bellicosi contro le regole ingiuste imposte dalla Commissione, dopo giorni di arringhe contro i traditori della sacra patria – vale a dire tutti coloro osassero mettere in discussione la coerenza economica del “contratto con gli italiani” – sembra essere arrivata la definitiva capitolazione: l’esecutivo ha ceduto alla correzione dei conti pubblici voluta dall’Ue, che dovrebbe assicurare per il 2019 un deficit nominale al 2,04%, a fronte del 2,9% proposto inizialmente nella nota di aggiornamento al Def e una più recente soglia al 2,4% considerata da molti come intoccabile.

Invece, quell’asticella è stata ulteriormente abbassata. Ma non per una pregiudiziale crudeltà da parte degli “eurocrati”, ma perché tutto l’impianto della manovra non stava in piedi, era scritto da analfabeti politici che non sapevano minimamente con chi avevano a che fare, o peggio, cercavano di prendere tempo e posticipare il momento della verità. E il prezzo di  questa irresponsabilità lo pagheranno gli italiani – specialmente i più vulnerabili – nei prossimi anni.

Il premier Conte, in Senato, si è affrettato a dire che la manovra avrà “effetti virtuosi” grazie alle sue politiche “espansive”. Ma, secondo la Commissione, il governo ha appena tagliato le stime di crescita per l’anno prossimo da un improbabile 1,5% all’1% e gli effetti della spesa saranno probabilmente pari a zero. Nel frattempo sono previsti tagli ovunque, pari a 10 miliardi in totale, che toccheranno sia la famosa riforma pensionistica della Quota 100, sia quella per reddito di cittadinanza. La cosa bella è che la procedura di infrazione nei nostri confronti non risulta nemmeno chiusa: è in stand-by, condizionata a una “scrupolosa applicazione degli accordi”, secondo il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis. Si tratta, di fatto, di una manovra che è stata del tutto rivista da un un governo in ginocchio, che ha esaudito tutte le richieste di Bruxelles.

Valdis Dombrovskis

Niente di sorprendente. Già lunedì, all’indomani dell’ultimo vertice di governo sulla finanziaria, l’atmosfera era surreale: il sottosegretario all’Economia dei Cinque Stelle aveva negato tutte le riottosità precedenti, spiegando che il governo sapeva fin dal principio che avrebbe dovuto ridurre il saldo, ma che aveva comunque deciso di inserire le proposte contenute nella legge di bilancio, “Anche se con delle piccole modifiche”. Il presidente della Commissione Finanze e tesoro del Senato, Alberto Bagnai, uno dei principali guru dei no euro, che ancora a ottobre recitava la parte del disobbediente contro le imposizioni dell’Ue,  da giorni era assediato da centinaia di follower inviperiti. E infatti, alla prova del nove, malgrado le scarpe sbattute sui tavoli dei consessi europei, lo “sforare” il vincolo del 3% è diventato prima uno “sfiorare”, e poi un adeguamento alle prescrizioni.

Da qualunque lato la si guardi, la storia del ministro dell’Economia Giovanni Tria rimasto a Bruxelles per scrivere la manovra “sotto dettatura” di Moscovici rappresenta una retromarcia così plateale, incoerente con gli slogan passati e così umiliante da non sembrare vera. Qualunque piano avesse in mente il governo, è fallito in modo clamoroso e il vero motivo è il contenuto della manovra: zero coperture credibili, zero investimenti mirati, zero progetti di lungo respiro, solo assistenzialismo asfittico che non avrà alcun effetto sui “moltiplicatori del Pil” di cui hanno parlato a lungo gli economisti vicini al governo. Una vera presa in giro. Così, Riccardo Bellofiore, un economista di scuola marxiana, ha commentato su Facebook la finanziaria del governo gialloverde: “[Definirla] ‘mediocre’ sembra un understatement. Io vedo un reddito di cittadinanza che è un workfare per due lire, una cancellazione della Fornero che non determinerà il buco che si paventa semplicemente perché voglio vedere chi anticipa la pensione a quei costi, un condono peggio di quelli di Tremonti, e si potrebbe continuare…” Appurato che le armi con cui il governo voleva sfidare i burocrati europei erano spuntate sin dall’inizio, un elettore gialloverde dovrebbe ora chiedersi: perché sono stati così folli da bruciare 300 miliardi di valore ai risparmi degli italiani nell’incertezza economica di questi mesi, per discutere di appena 10 miliardi in più di deficit – questa la cifra in ballo – che poi alla fine sono stati comunque recuperati?

Giovanni Tria

La prima impressione è che, sin dall’inizio, i gialloverdi non avessero la minima idea delle implicazioni dei loro slogan. L’economista americano Barry Eichengreen, uno dei pochi che ha previsto che l’euro non sarebbe crollato nel 2011 mentre quasi tutti dicevano l’opposto, ha spiegato perché il duello ingaggiato dal governo italiano contro l’Europa non ha funzionato: “Per essere chiari, nell’eventualità, del tutto ipotetica, di un tracollo finanziario, l’Esm – ovvero il meccanismo europeo di stabilità – non salverebbe l’Italia. E mentre per l’Italia le conseguenze di un’uscita dall’euro sarebbero drammatiche, l’euro andrebbe avanti anche senza l’Italia”. Lega e M5S, probabilmente, credevano – o hanno finto di credere – nella distruzione dell’euro e dell’Unione europea perché sapevano di non poter vincere, o comunque di non poter arrivare fino in fondo, e non si erano nemmeno preparati un piano per assumersi la responsabilità della propria vittoria. Sembra sapessero fin dall’inizio che i fautori della Reaganomics leghista non avrebbero potuto conciliarsi con quelli dell’assistenzialismo a Cinque stelle; che nessuno a Bruxelles ci avrebbe chiesto di restare nell’Eurozona in caso di un nostro piano B per uscirne, proprio come nessuno ha ceduto di fronte le richieste del governo inglese di uscire dall’Unione conservandone però i benefici commerciali. Il pressappochismo del nostro nazional-populismo sarebbe così il sintomo della loro profonda debolezza, la prova che nemmeno questi partiti hanno fiducia nella bontà delle proprie battaglie.

Barry Eichengreen

L’altra ipotesi è che l’unico, vero obiettivo del governo in questi mesi fosse semplicemente quello di “agitare lo stomaco” degli elettori, conquistare una larga fetta di consenso senza curarsi di dare una forma coerente al proprio programma, e poi di implementare politiche sostanzialmente in linea con quelle dei governi di centrosinistra e centrodestra, cambiando soltanto il nome alle cose: ciò che avrebbe dovuto contare non sarebbero state dunque le scelte vere e proprie, quanto piuttosto il meccanismo di rottura simbolico con il passato, l’erosione delle norme consolidate nella Seconda Repubblica. Un trucco cosmetico, e poco più. E, in effetti, è innegabile che, se anche la luna di miele tra governo ed elettori dovesse interrompersi dopo quest’ultima ritirata sulla manovra, in crisi vera per adesso c’è solo l’opposizione. Divisa e confusa come non mai.

La messinscena del braccio di ferro con l’Europa non è altro che la drammatica fotografia di un bilancio governativo a dir poco misero. Se l’abolizione della legge Fornero, il reddito di cittadinanza e la flat tax sono rinviati a chissà quando, nemmeno in politica estera c’è qualche novità di rilievo, con il governo che ha confermato le sanzioni alla Russia e allo stesso tempo reso omaggio alle politiche securitarie di Israele. L’economia reale nel frattempo è in forte rallentamento, e lo spread continua a restare alto. Neppure aver trovato un compromesso sulla legge di Bilancio esaurirà i grattacapi dell’Esecutivo, che dovrà confrontarsi con promesse complesse e contraddittorie, in alcuni casi probabilmente irrealizzabili. Il tutto accompagnato da un rallentamento economico mondiale, con un’Europa che passerà probabilmente a partiti nazionalisti assai poco generosi verso il nostro Paese.  Come se tutto questo non bastasse, gli attriti tra le due forze di governo sembrano aumentare di giorno in giorno: il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha sottolineato che “Il programma elettorale del M5S al Sud ha registrato larghi consensi perché era previsto il reddito di cittadinanza,” specificando – senza il minimo rispetto i grillini – che questa “È l’Italia che non ci piace ma con cui dobbiamo confrontarci e governare”. Un altro esponente della Lega in Parlamento, Armando Siri, ha specificato che, per come stanno le cose, il reddito è una proposta senza fondamento. Certo, il governo continua a raccogliere consensi (gli ultimi sondaggi lo danno oltre il 50% di popolarità) ma di concreto negli ultimi mesi c’è soltanto il fatto che migliaia di migranti sono stati buttati in mezzo a una strada.

Sebastian Kurz

Nel 2014, il 40% degli italiani aveva votato Renzi ed il Pd sperando in un cambiamento, restando deluso e frustrato. Nel 2018 il 49% degli elettori (il 32% per il M5S e il 17 per la Lega) ha votato i partiti oggi al governo sperando in un cambiamento ancora più netto. Nessuno sa cosa potrà succedere adesso che una parte consistente del Paese sarà sottoposta all’ennesima frustrazione. Se l’opposizione mancherà di confrontarsi con quelli che dissentono dalla sua lettura della storia, se farà finta di non capire le motivazioni di coloro che oggi sono pronti a seguire i gialloverdi in qualunque avventurismo, il suo fallimento sarà al tempo stesso politico e morale. E la capitolazione dei nazional-populisti non sarà servita a niente.

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