O questo Governo ha successo o chi l’ha votato non potrà più lamentarsi

In queste settimane, e in particolar modo dopo l’incarico affidato a Conte, gli opinionisti politici non hanno lesinato previsioni sul futuro dell’Italia nell’eventualità di un fallimento giallo-verde. Hanno però tutti posto l’attenzione sulle possibili minacce a livello economico. Faremo la fine della Grecia. No, peggio: del Venezuela. Sarà l’Europa ad abbandonarci, e non il contrario.

Nessuno ha imbastito una discussione su una questione fondamentale: cosa potrebbe fare il popolo nel caso questo governo dovesse fallire.

Questa alleanza tra Lega e M5S – chiamiamolo anzi contratto, onde evitare anatemi – sembra in apparenza aver risolto tutti i problemi dell’Italia. Il Pd si è polverizzato, scomparendo dai radar della scena politica. Al governo sono arrivati i paladini contro i traditori dell’Italia, gli avvocati che arringheranno contro l’Europa-puttana, avvalendosi del sostegno incondizionato del popolo italiano. Il grido “e allora il Pd?” si è ufficialmente zittito, la campagna elettorale è finita e presto gli invasori torneranno a casa propria. Il reddito di cittadinanza agevolerà i poveri, la flat tax i ricchi. Tutti andremo in pensione a 37 anni e la Fornero finirà in esilio sull’isola d’Elba. Torneranno l’art.18, la lira e il Festivalbar. Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno.

È giusto, però, mettere in preventivo anche l’opzione B: la catastrofe.

Quello che accadrebbe a livello economico in caso di un collasso del governo merita un capitolo a parte, e gli esperti si sono già abbondantemente pronunciati. Sull’altro versante, quello del sentimento popolare, si creerebbe una biforcazione: da un lato i disillusi, dall’altro gli adepti. I disillusi, coloro che si sono aggrappati con le unghie a quest’ultima speranza di cambiare le sorti del Paese, diventerebbero orfani politici – soprattutto perché Lega e M5S hanno utilizzato l’arma a doppio taglio del contratto, e sgarrare anche in un solo passaggio equivarrebbe a un tonfo due volte superiore. Sono quelli che l’armata Brancaleone del Pd spera di catturare, per riportarli all’ovile attraverso una strategia messa in atto a partire dal 5 marzo: aspettare il cataclisma, per poi urlare “ve l’avevamo detto!”

Ma non funziona così. Se il partito non dovesse essere in grado di ripartire da zero, non riprenderebbe nessuno dei voti persi alle ultime elezioni. Il flop giallo-verde verrebbe vissuto dal popolo come un tradimento e il cortocircuito civile paralizzerebbe il Paese. La maggioranza degli italiani ha votato infatti seguendo una direzione ben precisa, contro i “nemici” – che variano a seconda delle circostanze. L’Europa, ad esempio: creatura maligna priva di forma, aguzzina di ogni italiano. Le banche, covo di burocrati corrotti e rettiliani. Gli immigrati, ovviamente. Gli imprecisati “poteri forti”. E poi i buonisti, i radical chic, Saviano, Laura Boldrini, i professoroni (questa voce forse è stata annullata, dopo l’avvento di Conte) e via dicendo. Il fallimento di Lega e M5S sarebbe per loro un brusco risveglio e porterebbe a una presa di coscienza davanti al quale arrendersi: nessuno sta tramando alle nostre spalle. Le manie di persecuzione e i complottismi verrebbero meno, lasciando il posto alla cruda realtà.

Gli adepti, coloro che hanno trasformato la fede politica in fede religiosa, seguendo dogmaticamente i dettami dei propri leader, troverebbero però una giustificazione, attutendo gli spasmi. Se l’hanno trovata i berluscones di fronte a Ruby nipote di Mubarak, figuriamoci loro. I leghisti darebbero la colpa ai grillini, e viceversa. Oppure entrambe le fazioni si scaglierebbero contro Conte, un “tecnico eletto da nessuno che ha distrutto il nostro sogno”. Tanti si aggrapperebbero all’ “È colpa dei governi precedenti”, ovvero il leitmotiv di Virginia Raggi a Roma, oppure a leggi elettorali scritte coi piedi, come il Rosatellum. Un modo per venirne fuori dall’impasse lo troverebbero senz’altro. Ecco tornare Di Battista dalle Americhe, salvatore della patria tenuto nel congelatore in attesa di un’occasione come questa. “Io l’ho sempre detto che era meglio candidare Dibba al posto di Di Maio,” sarebbe il mantra grillino. Per il leghista medio sarebbe forse più dura, tra sospiri nostalgici per il celodurismo del Senatùr. Probabilmente verrebbe rimpianta anche l’austerità di Monti, con il suo bagno di sangue. “Almeno prima avevamo uno smartphone per poter vomitare i nostri sfoghi!”

Certo, potrebbe prevalere l’ottimismo, il lieto fine. Conte che trova sotto il materasso 120 miliardi di euro (ogni anno) e riesce a rispettare il contratto di governo; Salvini che si sveglia una mattina e si rende conto di come la flat tax sia una boiata invereconda; Di Maio che apporta sostanziali modifiche al progetto sul reddito di cittadinanza; Mattarella che costringe tutti a rispettare gli accordi europei, stracciando il contratto della discordia.

Resta possibile, per quanto poco probabile. Forse, almeno in questo caso, il Pd si risveglierebbe dal torpore, ricordandosi il significato perduto di “fare politica”; Berlusconi la politica la abbandonerebbe e ricomprerebbe il Milan, che non versa in acque tranquille; la Meloni tenterebbe di balzare sul carro dei vincitori, senza la certezza di essere riconosciuta, considerato lo scarso successo dei suoi manifesti. E Renzi fonderebbe il suo partito autonomo, novello Macron, raggranellando un 3% da far impallidire Pippo Civati.

Gli italiani hanno nel proprio Dna la capacità di reinventarsi. Siamo stati fascisti e il giorno dopo antifascisti, democristiani e poi abbiamo appeso il poster di Di Pietro in camera, berlusconiani, in seguito purificati. Abbiamo creduto in Renzi. Adesso è il turno della nuova speranza. In attesa della prossima.

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