Il giustizialismo che verrà

Il governo Lega-5Stelle è finalmente realtà, e con esso quel brivido lungo la schiena ogni volta che viene nominato il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. A poche ore dalla conferma dell’esecutivo, il leader leghista ha promesso che renderà lo slogan “A casa loro” una delle sue priorità. “Sogno un Paese con qualche tassa in meno e molta sicurezza in più,” ha aggiunto il neo-ministro, “basta sconti di pena per assassini, pedofili e stupratori. Uno che mette le mani addosso a un bambino o a una donna non deve più uscire di galera.” In questo intervento vengono ribadite, se mai ce ne fosse bisogno, le intenzioni del nuovo governo in tema di sicurezza e giustizia, già messe nero su bianco nell’ormai iconico “Contratto per il Governo del Cambiamento”.

Una frase in particolare, nelle cinque pagine del capitolo dedicato alla giustizia, sembra riassumere al meglio la visione grilloleghista: “È opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi.” Tra le modifiche proposte, da una parte pene più alte, più carcere (anche per i minori), tempi di prescrizione più lunghi e più legittima difesa; dall’altra, meno depenalizzazioni, meno garanzie per gli indagati, meno possibilità di accedere ai riti alternativi e di scontare parte della pena fuori dalle mura carcerarie. In generale si registra una netta inversione rispetto alla riforma penitenziaria quasi approvata al termine della scorsa legislatura, che cercava di ridurre al minimo la risposta punitiva in favore di misure di reinserimento sociale più in linea con il dettato costituzionale.

Non si è fatta attendere la reazione degli avvocati penalisti, che hanno definito la proposta, in ordine di bontà, una risposta “puramente demagogica”, l’espressione di una “cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti” e una “supercazzola forcaiola”.

Marco Travaglio – tifoso grillino della prima ora nonché uno dei più grandi equivoci degli elettori di sinistra durante il ventennio berlusconiano – ha accolto con entusiasmo il contratto giallo-verde, che “non ha paura di parlare di più carcere e più carceri, meno prescrizioni, pene più severe e più certe […] meno garanzie per chi commette i reati e più garanzie per chi li denuncia e li subisce. I puristi […] del sesso degli angeli e del giudiziariamente corretto storcono il naso con argomenti triti e ritriti […] Dei loro slogan i cittadini si infischiano: se vedranno qualche delinquente a spasso in meno, qualche irregolare espulso in più […] saranno felici e grati al governo (e noi con loro).”

Considerato il peso che i due partiti firmatari hanno sempre dato a questi temi, e visti i risultati delle scorse elezioni, sembra purtroppo che Travaglio abbia ragione. L’idea di giustizia che emerge dal “Contratto” è infatti un ibrido dei leitmotiven delle due forze politiche, che sul tema sembrano essere riuscite particolarmente bene a trasformare in programma di governo il consenso populista di cui hanno sempre goduto.

C’è innanzitutto l’idea di sicurezza della nuova Lega salviniana, costruita attorno ai concetti di ordine pubblico e di difesa dal nemico, poco cambia se è un immigrato che scavalca il confine o un ladro che scavalca il muretto di casa. Chi sbaglia paga, meglio se finisce in carcere e meglio ancora se ci rimane. A tutto questo si aggiunge il dogma grillino dell’onestà, alla luce del quale il disonesto è un criminale da mettere alla gogna con rabbia tangentopolesca. Non è un caso che Danilo Toninelli, concentratissimo capogruppo dei cinquestelle al Senato e ora ministro delle Infrastrutture, abbia promesso di rendere l’Italia uno “Stato etico”. Voluto o meno, il riferimento al modello teorico dei regimi totalitari, in cui ciò che è immorale è anche illegale, non fa ben sperare. Il fascino di questo mix di securitarismo e giustizialismo si spiega in buona parte con il bisogno degli elettori – banale ma quantomai diffuso in questo periodo di forte instabilità – di essere rassicurati. Impoveriti, incazzati, quotidianamente bombardati dalla retorica dell’invasione e da quella della casta, i cittadini proiettano le loro incertezze economiche su un sentimento di insicurezza sociale e rabbia indiscriminata contro il Palazzo, sfogando le loro frustrazioni nella richiesta di forche e manette.

Danilo Toninelli

I dati però fanno emergere un’altra realtà. Dal 2014 a oggi si assiste infatti a un calo costante di reati, con percentuali impressionanti per quanto riguarda i crimini che più colpiscono l’opinione pubblica: -25,3 % di omicidi, -20,4% di furti e -23,4% di rapine. Aumenta la sicurezza oggettiva, ma evidentemente non quella percepita. Come risulta da un sondaggio realizzato prima delle scorse elezioni, il 70% degli italiani dice di sentirsi insicuro.

Candidandosi alla guida del paese, Lega e M5S hanno preferito seguire gli umori dei cittadini piuttosto che prendere atto della realtà. È emblematico in questo senso il paragrafo del “Contratto” sulla  legittima difesa: nonostante le aggressioni alla proprietà privata diminuiscano, alcuni casi assumono rilievo mediatico a livello nazionale, tanto basta per incentivare i cittadini ad armarsi. Già oggi la difesa da un’aggressione ingiusta è considerata legale quando necessaria e proporzionale. Presumere che lo sia sempre equivale però a dare licenza di uccidere al minimo sentore di pericolo. La parte sul carcere poi sembra il copia-incolla dei commenti incattiviti sotto le notizie di cronaca nera su Facebook. Anche in questo caso vengono ignorate, più o meno consapevolmente, alcune acquisizioni scientifiche ben consolidate. E non solo perché allargare l’utilizzo della pena detentiva contrasta con il principio penale per cui la si dovrebbe invece limitare il più possibile, ma sopratutto perché, numeri alla mano, il carcere è inutile. Lo dimostrano i tassi di recidiva: il 68% di chi sconta la pena dietro le sbarre torna infatti a delinquere. Non servono grandi studi per capire perché. Tra le mura di un istituto di pena ci sono buone probabilità di entrare in contatto con subculture criminali da cui sarà quasi impossibile emanciparsi una volta fuori. Il sovraffollamento patologico e le precarie condizioni delle infrastrutture — problematiche già più volte condannate anche a livello europeo — non fanno che aggravare la situazione.

È proprio alla luce di queste considerazioni che la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto le cosiddette misure alternative, che consentono al condannato di scontare tutta o parte della pena fuori dal carcere attenendosi agli obblighi stabiliti dal giudice. La percentuale di recidiva, per chi ne beneficia, si ferma circa al 19%. In spregio a queste evidenze empiriche, nell’architettura grilloleghista il carcere è una colonna portante, un edificio con molte entrate ma con le uscite sbarrate. In generale, la tesi per cui se si aumentano le pene diminuiscono i reati non regge, come dimostra quanto accaduto con il reato di omicidio stradale. Introdotto dal governo Renzi, ha ottenuto risultati a dir poco deludenti nonostante le sanzioni stratosferiche previste. Questa stessa visione semplicistica si ritrova nel “Contratto” di Lega e 5Stelle, dove l’unica risposta possibile è quella repressiva, anche quando finisce col danneggiare l’intera collettività. Il discorso è valido anche per le altre proposte, tutte tese a ridurre le garanzie di chi deve difendersi da una pubblica accusa, nonostante il fatto che per il nostro sistema un indagato sia innocente fino a prova contraria. L’allungamento della prescrizione e le limitazioni alla possibilità di accedere ai riti alternativi, che accorciano i tempi processuali, possono avere come unico e logico risultato quello di appesantire ulteriormente una giustizia penale già costretta ad arrangiarsi come può.

Sarà questa la forma dell’ingiustizia del futuro, al continuo inseguimento delle paure dei cittadini, a prescindere  dall’efficacia delle misure che si propone di introdurre. Concetti come “giustizia” e “sicurezza” diventeranno vuoti simulacri, strumenti al servizio della sola volontà di punire. Niente di nuovo, del resto. Fino al XVIII secolo la pena veniva espiata sotto gli sguardi eccitati del popolo, che accorreva nelle piazze per assistere estasiato ai pubblici supplizi. Certo, oggi nessuno viene più decapitato, lapidato o smembrato vivo, ma la sete di vendetta collettiva rimane la stessa.

Che il futuro ci riservi un Far West di giustizieri dal grilletto facile, piuttosto che pattuglie dell’onestà pronte ad ammanettare chi non timbra il biglietto in tram, poco cambia. Avremo comunque rinunciato ad analizzare la criminalità come un fenomeno sociale, preferendo rinchiudere in gabbia chi commette un reato piuttosto che investire in sistemi di recupero davvero efficaci. Di certo, la sicurezza non aumenterà e la giustizia non sarà più efficiente.  “È il populismo penale, dolcezza,” e non importa che sia contrario a tutte le conoscenze che si hanno in materia, non importa che il risultato ottenibile sia l’esatto opposto di quello sperato, basta che tranquillizzi, almeno per un po’.

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