Civati è il più bel fallimento della sinistra italiana - THE VISION

Il novembre 2010 viene da molti ricordato per il cablegate di WikiLeaks, la diffusione non autorizzata di 251.287 documenti contenenti informazioni confidenziali inviate da 274 ambasciate americane in tutto il mondo al dipartimento di Stato degli Stati Uniti a Washington.

Probabilmente qualcuno di quel mese ricorderà anche il momento della liberazione, dopo 15 anni di detenzione, della dissidente birmana e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.

In Italia, di quell’inizio di autunno di otto anni fa, tutti ricorderanno una fotografia: l’immagine che ritrae, l’uno accanto all’altro, il consigliere lombardo Giuseppe Civati e Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze. Insieme inauguravano la convention che sarebbe passata alla storia con il nome di “Leopolda”.

Già l’anno precedente la stampa indicava i due rampanti trentenni come le giovani speranze di rinnovamento del Partito democratico, alle prese con la fine dell’era Veltroni. Anagraficamente rappresentavano l’opposto della classe dirigente e, uniti dalla comune voglia di rinnovare “le idee e il linguaggio” del partito, formavano un duo di rottamatori che sembrava potesse durare. Eppure, quello che appariva come un felice idillio, si ruppe prestissimo. Le differenze d’idee e, specialmente, caratteriali, erano troppe. In un attimo ci siamo ritrovati Renzi vestito di pelle a parlare della geniale follia del Brunelleschi da Maria de Filippi, andare a vincere le primarie del 2013 e prendersi, con serenità la presidenza del Consiglio. La storia di cosa ne è stato del compagno Civati è forse meno ricca di colpi di scena, ma la sua carriera politica porta comunque tutto il fascino di quella sinistra che non riesce a vincere mai.

Inizia nel 1995 partecipando ai comitati per Romano Prodi, passando poi al Consiglio comunale della sua città, nei DS, e al Consiglio regionale Lombardo con l’Ulivo. Eletto deputato nel 2013, Civati segue i lavori parlamentari con zelo, vantando un tasso di presenze ben più alto della media (71 contro 66%) e, fino all’anno della sua fuoriuscita, rimane allineato alle indicazioni di voto dello schieramento che lo ha eletto. In opposizione allo stile di governo dell’ex alleato, nel 2015 abbandona il Pd e fonda un nuovo partito, Possibile, che conta 4773 iscritti nell’anno della sua istituzione. 836 quello dopo.

Seppure non esattamente un capolavoro politico – d’altronde, visti gli ultimi riscontri, nemmeno quello di Renzi si può definire tale – la figura di Civati è spesso portata su un palmo di mano, apprezzata in maniera trasversale da un variegato elettorato di sinistra. Gli sono riconosciute, a ragione, competenza e onestà intellettuale, grazie alla decisione di saltare giù dal carro ancora vincete di Matteo Renzi.

Tutte queste doti però, non si sono mai realmente tradotte in voti – che poi in politica, vuoi o non vuoi, sono quelli a fare la differenza: ha perso le primarie nel 2013, arrivando terzo dopo Cuperlo con quasi un milione e mezzo di voti in meno rispetto al vincitore, e non è stato riconfermato alla Camera alle ultime elezioni del 4 marzo. Un risultato deludente e inaspettato per ammissione dello stesso Civati, perché insieme a lui è stato bocciato tutto il progetto politico con cui si è presentato, Leu. Ma se la guida Renzi non è piaciuta, giudicata troppo centrista, troppo arrogante, tanto da far scendere il Pd di diversi punti percentuali rispetto al 2013, perché gli elettori di sinistra non si sono naturalmente riversati in Leu? Perché Civati, candidato a Brescia e Bergamo al plurinominale, non è riuscito a entrare in Parlamento? E questo nonostante le due città lombarde siano tra i pochissimi collegi in cui il centro sinistra è risultato la seconda coalizione, raccogliendo più consensi del M5S.

Prima di tutto, questa non è la sconfitta di Civati, ma la vittoria di qualcun altro. In un contesto generale di crisi della sinistra, il popolo si sente più rappresentato dalla destra, che sembra tornata alla sua fase embrionale Sansepolcrista: una destra sociale che vuole essere l’espressione dei più deboli, degli ignorati, dei delusi. La sinistra, al contrario, si è auto-ridotta a simbolo della responsabilità, della lealtà, del pragmatismo. Tutte qualità lodevoli, ma che in contesti di difficoltà non attirano molti elettori, richiamati più volentieri dai proclami di una destra facilona, che attualizza un protezionismo, un conservatorismo e un nazionalismo ormai anacronistici. Un recente sondaggio di Demopolis mostra come su 100 elettori che nel 2013 votarono Pd, solo quattro hanno messo il 4 marzo una croce sul simbolo di Leu, mentre 18 sono passati al Movimento 5 Stelle – il rapporto è di 1 a 4,5. Certamente, fare politica parlando alla pancia dell’elettore paga, e lo dimostra il consenso trasversale dei grillini, come l’impennata di consensi della Lega di Salvini. Ma la fobia del populismo sembra aver fatto dimenticare alla sinistra l’importanza del popolare. Civati è l’emblema di una politica che rappresenta gli intellettuali, che parla a un elettorato medio borghese con un linguaggio da élite.

D’altra parte però, in ventitré anni di degna carriera politica, Civati non è stato mai in grado di affermarsi, e di questo solo lui può essere il responsabile – sì, il concetto di responsabilità è qualcosa da cui la politica rifugge costantemente, ma senza dubbio l’onestà intellettuale di Civati gli verrà in aiuto. Se Renzi, almeno in un primo momento, è stato apprezzato è perché ha provato a interpretare e soddisfare l’esigenza di cambiamento che appartiene a tutti gli elettori, non solo a quelli che, spesso con fare sprezzante, vengono liquidati come ignoranti e facilmente corruttibili. Il voto alle europee che ha galvanizzato Matteo Renzi con un quasi-mai-visto 40% è stato anche un voto positivo a quella visione, evidentemente ben accolta anche dall’elettorato critico e pensante. Il travaso di voti dal Pd al M5S lo dimostra. Civati, al contrario, non ha mai fatto opposizione interna in maniera forte o sfacciata. Coerente forse, sincera certamente, ma, di fatto, ha semplicemente reiterato uno schema che va avanti sin dai tempi dell’Internazionale Comunista: la sinistra che si divide in sinistre, che si scindono in sinistre, che continuano a frazionarsi all’infinito formando serie di rappresentazioni d’idee non sufficientemente forti sul piano elettorale. Questo atteggiamento di distacco dalla realtà non è più credibile, le persone non lo capiscono, e quindi non lo seguono. Anche a malincuore, come nel caso di chi avrebbe di gran lunga preferito Civati, a Renzi.

In un mondo ideale, le campagne elettorali si dovrebbero fare sui contenuti, e gli elettori dovrebbero scegliere i programmi che più ritengono affini alle loro inclinazioni ed esigenze. La personalità dovrebbe contare poco, così come le parole dovrebbero pesare meno dei fatti. Ma questo non è un mondo perfetto, e la storia ci fornisce moltissimi esempi in cui il singolo ha contato più dell’idea che rappresentava. Il Movimento 5 Stelle è, al momento, un partito che fa scuola in questo senso: sceglie i suoi leader in maniera molto attenta, accurata, e i risultati si vedono. Non a caso i due rappresentanti più in vista, Di Maio e Di Battista, sono l’uno complementare all’altro: Di Maio rappresenta l’anima di destra, è il furbo, l’ambizioso senza troppa cultura che pur di fare strada è disposto anche a cedere sui pochi e mutevoli ideali che ha; Di Battista è invece l’intellettuale sinistroide, l’idealista, quello che ai comizi si fa rompere la voce dalla passione politica, che ha letto la biografia di Brežnev e che parla ai delusi della sinistra.

In parallelo con i due Cinque Stelle, Renzi e Civati avrebbero potuto essere due simboli complementari dello stesso schieramento, attirando un elettorato di sinistra variegato, ma compatibile. Se l’uno rappresenta una sinistra più centrista, ma dinamica, pronta a scendere a patti con la destra e, a tratti, anche arrogante nei confronti del proprio bagaglio storico e culturale, l’altro è espressione di una visione più tradizionalista, ma comunque progressista; di un modo di fare politica con origini forse antiche, ma non ancora superate. Civati avrebbe potuto parlare a tutti quegli elettori che non vogliono rinunciare all’idea di una sinistra responsabile e popolare allo stesso tempo, di un progetto che aderisca alla realtà, senza sfociare nei populismi e senza dover ripiegare su posizioni che non gli appartengono. La scelta di candidarsi contro il Pd, e quindi dividere un elettorato potenzialmente comune, quando la speranza più rosea – per altro poi disattesa – era quella di arrivare al 6%, è stata chiaramente una strategia fallimentare.

E così, se da un lato la sinistra si riempie di capi partito senza base, dall’altro molti elettori si sono trovati senza un rappresentante: un popolo rimasto orfano, che in queste elezioni si è un po’ affidato ai Cinque Stelle, un po’ si è turato il naso rivotando Pd, ma che cambierebbe volentieri strada. Pur rimanendo su un sentiero comune a tutte le sinistre.

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