Prima gli italiani, tranne se si chiamano Giulio Regeni

Il 3 febbraio 2016 in un fosso lungo l’autostrada Cairo – Alessandria fu ritrovato un cadavere martoriato, nudo dalla vita in giù: la bocca era spalancata e i suoi capelli erano impastati di sangue. Mancavano i denti anteriori, molti altri erano scheggiati o rotti. La pelle era piena di bruciature di sigaretta, c’erano ferite profonde sulla schiena. Il lobo dell’orecchio destro era mozzato e le ossa di polsi, spalle e piedi erano frantumate. Quel corpo, ore dopo, si scoprì appartenere al ricercatore italiano di 28 anni Giulio Regeni, scomparso pochi giorni prima a Il Cairo. L’autopsia effettuata dai medici italiani, successivamente, confermò la brutalità a cui il giovane era stato sottoposto: Regeni venne picchiato, bruciato, pugnalato, e probabilmente frustato sulle piante dei piedi per almeno quattro giorni. Morì quando gli spezzarono il collo. Al momento del riconoscimento del corpo, la madre disse: “L’ho riconosciuto dalla punta del naso”.

Giulio Regeni è scomparso il 25 gennaio 2016 nella capitale egiziana, non era la prima volta che soggiornava in Egitto. Aveva lavorato e vissuto lì per un mese, nel 2013, come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite. Nel 2011 si era laureato in arabo e scienze politiche all’Università di Leeds, e da allora aveva seguito gli sviluppi della cosiddetta “primavera araba”, scoppiata il 25 gennaio 2011, scrivendo articoli e analizzandone i risvolti politici ed economici. Regeni raccontò sul Manifesto la delusione dei promotori delle rivolte del 2011, che si erano concluse dopo sofferte successioni di governo nel luglio 2013, con la salita al potere di al-Sisi, attuale Presidente della Repubblica egiziana: “Il decantato ritorno alla stabilità, ottenuto al prezzo di migliaia di morti in piazza, arresti e condanne di attivisti, non si è tradotto in crescita economica, come promesso dagli autori del golpe, e il clima che si respira oggi, soprattutto tra i giovani che speravano nella ripresa economica, è di profonda rassegnazione. Gli attacchi del regime ai lavoratori e alle libertà sindacali sono sempre più determinati”. Per approfondire i suoi studi sull’argomento, Regeni aveva scelto l’Università di Cambridge per iniziare un dottorato in studi dello sviluppo, sotto la guida della professoressa di origine egiziana Maha Abdelrahman, che nell’ateneo britannico coordina tuttora le attività di ricerca per le discipline attinenti alla sociologia e lo sviluppo in Nord Africa. Fu lei a proporgli di studiare la realtà dei venditori ambulanti: un mondo multiforme composto da uomini provenienti da paesi lontani che sbarcavano il lunario vendendo gli oggetti più disparati per le strade del Cairo e che avevano da poco creato un loro sindacato molto attivo nei moti di protesta. Poi, mentre era al lavoro su questi temi, la scomparsa.

Piazza Tahrir, Il Cairo, Egitto

Sono passati quasi tre anni dal tragico ritrovamento delle sue spoglie, e non è stato ancora avviato un processo mentre, gli investigatori sono impegnati in lunghe e frustanti indagini che procedono con estrema fatica. In Italia si sono succeduti tre presidenti del consiglio, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte, e più di due anni e mezzo di indagini, senza che alla famiglia Regeni venisse dato almeno il sollievo della verità. Anzi, la sensazione dei genitori – espressa in una lettera aperta al Presidente della Repubblica Mattarella – e condivisa da buona parte dell’opinione pubblica è quella che troppe bugie e depistaggi stiano intralciando il corso della giustizia e che la verità è custodita tra le maglie intricate della politica internazionale.

Nell’agosto 2017 il New York Times ha pubblicato un’inchiesta da cui emergeva che “Gli Stati Uniti, nelle settimane successive alla morte di Regeni, avevano acquisito esplosive informazioni dall’Egitto: provavano che ufficiali dei servizi segreti egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni” e che l’allora primo ministro Matteo Renzi ne sarebbe stato messo a conoscenza. Sia Renzi che Gentiloni recepirono l’inchiesta del New York Times senza la dovuta serietà. Il giornalista Declan Walsh, autore dell’articolo, non rivelò comprensibilmente le sue fonti, ma menzionò il fatto che si trattasse di due ex funzionari dell’amministrazione Obama. Senza peccare di ingenuità, possiamo sospettare che la notizia sia trapelata per mettere in cattiva luce il nostro governo, quello egiziano, o entrambi, ma la reazione italiana fu sicuramente debole e approssimativa. Il governo Gentiloni liquidò la questione lamentando l’assenza di “elementi di fatto” e solo 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo, ordinò al nuovo ambasciatore italiano di ritornare al Cairo. Una decisione che addolorò molto i genitori di Regeni che, in un’intervista rilasciata al giornale L’Avvenire, dissero: “Abbiamo capito che c’era un copione pronto da tempo e nessun desiderio di confronto”. L’allora ministro degli Esteri, Angelino Alfano, non ebbe una reazione più risoluta perché, pur non risparmiandosi parole di cordoglio alla famiglia, continuò a indicare l’Egitto come un “Partner ineludibile” dell’Italia, vanificando nei fatti ogni tipo di pressione commerciale, forse l’unica arma che avrebbe facilitato la ricerca della verità.  Intanto, l’opposizione, capitanata da un combattivo Matteo Salvini, aveva commentato la notizia del New York Times dicendo: “Se fosse vero, mi aspetto le dimissioni di qualcuno”. Eppure, oggi che è lui il ministro degli Interni, nonché vicepremier, tramite quello che dobbiamo interpretare come un moto di cruda sincerità, ha dichiarato che “Comprende bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”.

Il premier Conte incontra la famiglia Regeni, 14 luglio 2018

L’Italia effettivamente ha costanti rapporti: siamo il più grande partner commerciale del Paese nordafricano e, ironia della sorte, dalla morte di Giulio Regeni gli affari sono andati sempre meglio. I più grandi investimenti italiani in quel territorio sono di Edison, che “Ha in corso attività di sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio sulla costa mediterranea attraverso una joint-venture da 3 miliardi di dollari con l’Egyptian Petroleum Company”, come si legge sul report stilato dalla Farnesina, ma soprattutto del colosso Eni. L’inchiesta del New York Times del 2017 aveva riportato a chiare lettere che “L’Ente nazionale Idrocarburi settimane prima che Regeni arrivasse al Cairo, aveva annunciato una grande scoperta: il giacimento di gas naturale Zohr, a 193 chilometri dalla costa egiziana settentrionale, che conteneva circa 850 miliardi metri cubi di gas — l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio”.

Anche il mercato delle armi leggere è fiorente e sembra non aver subito contraccolpi dal caso Regeni. Luigi Di Maio, in un post su Facebook pochi giorni dopo la confermata morte di Regeni, chiedeva al governo Renzi “Di sospendere immediatamente l’export di armi dall’Italia verso Il Cairo, se non vuole rendersi complice del regime di al-Sisi, accusato di una repressione interna e di numerose violazioni dei diritti umani”. E allora non si spiega come, secondo i dati Istat, durante il breve governo Lega-M5S, l’Italia abbia esportato quasi 2 milioni di euro di armi leggere e munizionamenti all’Egitto, in spregio alla Legge 185/1990 che vieta “L’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento verso i Paesi in stato di conflitto armato” e disinteressandosi completamente della ricerca della verità sull’omicidio del giovane ricercatore italiano.

Abd al-Fattah al-Sisi, Presidente della Repubblica egiziana, e Giuseppe Conte al Summit sulla Libia, Palermo, novembre 2018

L’unico reale sforzo per ottenere qualche risposta sta avvenendo nelle Procure: dopo 36 mesi di notizie spesso fuorvianti e incomplete fornite dagli investigatori egiziani, il 28 novembre 2018 è trapelata dalla Procura di Roma la decisione di iscrivere nel registro degli indagati alcuni poliziotti egiziani e agenti del servizio segreto civile, ritenuti coinvolti nell’omicidio di Regeni. Secondo gli investigatori, gli indagati hanno avuto un ruolo nel sequestro del ricercatore e nelle attività di depistaggio che hanno fatto seguito al ritrovamento del cadavere. Gli inquirenti egiziani, dopo pochi giorni, hanno respinto la decisione dei colleghi della Procura di Roma, rimarcando il fatto che gli italiani, in assenza di prove certe, non potranno chiedere neanche un mandato di cattura internazionale. Dopo questo snervante botta e risposta, il 4 dicembre, il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco hanno reso noto che, nonostante tutto, è avvenuta l’iscrizione nel registro degli indagati di 5 persone appartenenti al dipartimento di Sicurezza nazionale e all’Ufficio di investigazione giudiziaria del Cairo. La notizia è stata accolta dai genitori di Giulio Regeni e dal loro legale come “Un grande passo”. Persino le Istituzioni europee si sono destate, dopo anni di colpevole silenzio, e il 13 dicembre il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione tramite la quale rende noto che continuerà a “Esercitare pressioni sulle autorità dell’UE affinché si impegnino con le loro controparti egiziane a accertare la verità sulla morte di Giulio Regeni”.

Dal governo italiano, intanto, arrivano messaggi confusi e discordanti. Di Maio abbaia ma non morde, perché minaccia di sospendere i rapporti commerciali con l’Egitto, ma evidentemente ignora che il suo collega di governo, Salvini, in uno sfoggio di feroce opportunismo la scorsa estate aveva detto di ritenere indiscutibili “Le buone relazioni” con il Paese nordafricano. Le posizioni dei due vicepremier, inoltre, sono in contrasto anche con il provvedimento preso dal Presidente della Camera Roberto Fico che, il 29 novembre, ha deciso di sospendere i rapporti  tra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano fino a quando non si sarà giunti alla risoluzione del caso.

Questo esecutivo è entrato nelle aule del Parlamento sospinto da versioni diverse del motto “Prima gli italiani”, ma il brutale omicidio all’estero del ventottenne italiano Giulio Regeni sta portando a galla tutta l’ipocrisia di una politica misera nei contenuti, forte con i deboli e debole con i forti. “Prima gli italiani”, sempre che non ci siano di mezzo interessi più importanti o governi politicamente più forti del nostro.

Segui Roberta su The Vision | Facebook