La democrazia immediata ti vuole spettatore, non elettore

La democrazia, come tutte le cose del mondo che conosciamo, non è immutabile. Si trasforma in base ai momenti e alle sollecitazioni sociali che muovono la Storia. Oggi la democrazia liberale è in crisi, sempre più insidiata da un irrazionalismo giudicante e restio ad accogliere qualsiasi tipo di mediazione, sia essa a opera di partiti, giornalisti, tecnici o esperti. Le sconfitte elettorali delle socialdemocrazie europee, a fronte dell’avanzata dei partiti cosiddetti populisti, seppure con i tanti distinguo al proprio interno, ne sono un chiaro segnale. Quel che veniva identificato con la democrazia rappresentativa oggi perde progressivamente senso in nome di una forma che molti politologi definiscono “democrazia immediata” o “in diretta”. E l’Italia ne è un buon esempio. Le due forze politiche al governo condividono, infatti, tra le tante differenze, alcuni elementi che hanno permesso un matrimonio esecutivo, e sono causa e conseguenza di quel cambiamento che sta diventando la cifra della politica contemporanea.

Tralasciando la semplificazione che vedrebbe nel governo M5S-Lega la rivolta del popolo contro le élite, è certo che queste forze politiche siano percepite come vicine da gran parte degli elettori. Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto dal web e dalle possibilità sempre crescenti di interconnessione che riesce a garantire. Il profilo Facebook di Matteo Salvini, con i suoi 3,2 milioni di seguaci, è il più seguito tra i politici europei. E il M5S ha fatto della presenza in rete la sua ragion d’essere. Ma se ciò può apparire come una possibilità di democratizzazione, al tempo stesso porta con sé vizi e rischi legati alla natura del medium. Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University, nel suo La democrazia in diretta descrive così la narrativa di Internet: “Una cascata di attimi, di opinioni o di sollecitazioni che agiscono nel presente e non conservano memoria”. Una narrativa liquida, come la società teorizzata da Zygmunt Bauman.

Zygmunt Bauman

Per la propaganda pentaleghista ogni fatto di cronaca favorevole è un buon motivo per fare proselitismo e le promesse-sparate del momento si trasformano raramente in realtà. Si pensi alla miriade di proposte – di difficile attuazione ma di grande appiglio per l’elettorato sensazionalista – che popola il web, uscite dalla bocca di Di Maio e Salvini. Basti pensare all’abolizione della povertà dopo l’approvazione del deficit in Consiglio dei ministri, all’individuazione nel gruppo Benetton dei responsabili del crollo del ponte Morandi, all’ipotesi di censimento dei rom, alla chiusura anticipata dei negozi etnici, o alla passeggiata del leader leghista a san Lorenzo dopo la morte di Desirée Mariottini. L’immediatezza non è un valore, è un dovere. In questo modo si demoliscono le colonne portanti del liberalismo, iniziando dalla ponderatezza di cui la giustizia e la proposta politica necessitano. Ma si sa che sul web e sui social la ragione ha raramente la meglio.

L’appello al popolo è un altro elemento che caratterizza questa forma di democrazia che Ilvo Diamanti, ordinario di Scienza politica a Urbino, e Marc Lazar, docente dell’istituto Sciences Po di Parigi, chiamano “popolocrazia”. Ma, come ci ricorda Hans Kelsen, grande giurista del Novecento, il popolo non è “un collettivo unitario omogeneo”. Questa entità, nella democrazia immediata, diventa l’unica fonte di legittimazione pubblica, tanto da permettere a Salvini di attaccare i magistrati che lo indagano perché non eletti da nessuno”. Questa pericolosa tendenza, accompagnata dal rapporto diretto tra il leader e il popolo che i nuovi media permettono, ha come sbocco inevitabile la personalizzazione del potere e l’onnipotenza della maggioranza, che deformano la democrazia rappresentativa e il pluralismo politico in senso plebiscitario. Insomma, o con noi o contro di noi. Questo orientamento sarà anche figlio della videocrazia di Berlusconi, ma oggi, con le diverse caratteristiche del mezzo di comunicazione, nasconde elementi più estremi.

Ilvo Diamanti

Il web è un medium che tende a creare gruppi algoritmicamente chiusi, a causa della possibilità di filtrare i contenuti in modo personalizzato, in base esclusivamente a ciò che ci fa piacere leggere ed escludendo il resto. È la logica delle filter bubbles, bolle create su misura, a seconda degli interessi, delle pagine che consultiamo e dei click che disseminiamo per la Rete, analizzate bene da Eli Pariser. Questo, con l’onnipotenza della maggioranza e con la fiducia empatica verso il leader, dà vita ad un doppio processo: l’omologazione dei consenzienti e la denigrazione dei dissenzienti. La demagogia populista, in assenza di identità ideologica, ha bisogno di conferire unitarietà al proprio corpo sociale tramite un processo di identificazione da una parte, e logica dell’esclusione, dall’altra, all’insegna dell’opposizione amico-nemico. Chi non si conforma con la sua volontà è un detrattore che mente e complotta. Così Matteo Salvini può deliberatamente annunciare vendetta contro Tito Boeri, presidente dell’Inps; e Luigi Di Maio può definire opposizioni e giornali nemici dell’Italia” – giornalisti recentemente descritti da lui e Di Battista come infimi sciacalli” e puttane”. Gli esempi sarebbero infiniti, a cominciare dall’assurda richiesta di impeachment, continuando con l’attacco a Mario Draghi, presidente della Bce, fino a quelli verso l’Ue e a tutte quelle voci e autorità indipendenti che si permettono di criticare l’operato governativo.

Mario Draghi

Ma questa necessità di rintracciare sempre un nemico ha conseguenze importanti sull’astratta entità che li legittimerebbe: il popolo, infatti, più che agire – come l’idea popolocratica rivendicherebbe appellandosi alla sovranità nazionale ed evitando ogni forma di mediazione – reagisce con un atteggiamento assertivo incentrato sull’immediatezza. Il modo rapido con cui è stato convertito in legge il decreto sicurezza – decreto che, per natura costituzionale, è un provvedimento immediato – con approvazione in blocco di un maxi-emendamento governativo, senza libera discussione e con questione di fiducia, ne è un triste esempio. Ed è cosi che “L’organo del potere popolare,” scrive Urbinati, “diventa l’osservazione piuttosto che la decisione, l’occhio pubblico che vuole vedere e non la voce che rivendica il fare”. Una transizione dalla centralità della volontà alla centralità del giudizio, con le conseguenze che tutto ciò comporta: un esercito di hater seriali che popola i social, sempre pronti a insultare chi giudica negativamente i loro rappresentanti.

Questa trasformazione, anche se in parte inevitabile per la velocità con cui la rivoluzione informatica sta cambiando il nostro modo di essere “animali sociali”, porta con sé grossi rischi. Per fortuna è una tendenza e non un cambiamento irreversibile. Le istituzioni rappresentative e democratiche, se pur in difficoltà, sono ancora in piedi. Ma c’è da fare attenzione, perché dietro l’illusione di poter agire più attivamente si nasconde il rischio di rispondere passivamente a stimoli imposti dall’alto e non democraticamente determinati e il pericolo che l’immediatezza e l’emotività sostituiscano i tempi della ponderatezza e della razionalità politica che i nostri padri costituenti hanno ben tradotto nei 139 articoli della Costituzione. Questa è la democrazia immediata e in diretta, dove il popolo opera come massa indistinta che, in qualità di supremo spettatore, guarda soltanto e reagisce quando ne vengono sollecitate pulsioni irrazionali. In un perpetuo fare giudicante senza possibilità, e volontà, di autodeterminarsi. Come la democrazia diretta, quella vera, auspicherebbe.

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