Chi nasce oggi ha 60mila euro di debito. Le vecchie generazioni hanno condannato i giovani.

La storia del debito pubblico italiano è caratterizzata da continue oscillazioni. Alla fine della prima guerra mondiale, il rapporto tra debito e prodotto interno lordo raggiunse addirittura il 160% e fu certamente un fattore che concorse all’avvento del Ventennio fascista. La grande depressione del 1929 e il secondo conflitto mondiale portarono il debito nuovamente al di sopra del 100% del Pil. In entrambe le occasioni, grazie a elevati livelli di inflazione e alla ristrutturazione del debito, l’Italia riuscì a contenere le passività che gravavano sulle casse pubbliche. Nel secondo dopoguerra, l’ottima situazione finanziaria contribuì al boom economico degli anni Sessanta che ci ha permesso di diventare una delle più importanti economie al mondo. 

Oggi il debito pubblico italiano è pari al 132,2% del PIL e, secondo un recente studio di The European House-Ambrosetti, è insostenibile nel lungo periodo. In altre parole, le passività che gravano sulle nostre spalle continueranno ad aumentare. E se è vero che la curva che descrive il nostro debito ci suggerisce di cercare le cause del problema nei magnifici anni Ottanta, è altrettanto innegabile che, fino ad oggi, nessun governo ha voluto seriamente affrontare il problema. 

Va chiarito sin da subito che le causali esterne – quelle che caratterizzano lo scenario economico internazionale – non sono quelle su cui agire per cercare di limitare la portata del nostro debito. Nonostante le fantasiose teorie sovraniste, Mario Draghi ha più volte chiarito che l’euro è irreversibile e nessun fatto si è ancora incaricato di dichiarare la falsità di questa affermazione. Ci dobbiamo necessariamente muovere dentro uno spazio di libero mercato che ha come obiettivo principale il controllo dell’inflazione e della stabilità dei prezzi. In questo scenario, il mostruoso livello di debito pubblico italiano rappresenta un grande ostacolo per il nostro futuro.

Mario Draghi

Che l’Italia cresca poco da decenni è un’affermazione degna del miglior Lapalisse. Anche quest’anno, il Documento di Economia e Finanza ha stimato una crescita dello 0,2% che ci pone, insieme alla Germania, tra le lumache d’Europa – posto che la domanda interna tedesca resta stabile, l’occupazione cresce e la Germania non sembra affatto sull’orlo di una recessione.  Lo studio di The European House-Ambrosetti individua tre motivazioni strutturali che determinano il nostro basso livello di crescita. 

Il principale male che ci affligge rimane la produttività. Non riusciamo a far rendere adeguatamente le risorse impiegate in processo produttivo. Basti pensare che negli ultimi 23 anni la produttività italiana è cresciuta del 6,7% mentre la media europea è del 27,4%, di venti punti superiore, il quadruplo. Nell’ultimo ventennio non siamo riusciti a garantire valore aggiunto alle nostre produzioni, non siamo stati in grado di digitalizzare adeguatamente le nostre imprese, non abbiamo voluto guardare al futuro. Gli altri due limiti strutturali sono strettamente legati al problema della produttività. 

Abbiamo una delle percentuali più basse di laureati rispetto a tutte le maggiori economie occidentali e investiamo pochissimo in istruzione. È proprio il documento di Economia e Finanza a certificare che, nel 2020, l’Italia spenderà più soldi per ripagare gli interessi che maturano sul debito pubblico rispetto alle somme che saranno investite in istruzione. Una vera e propria disfatta. Soprattutto se si pensa che il debito pubblico è un macigno che pesa proprio sulle giovani generazioni, vede vittime degli errori del passato. 

È un dato di fatto che le generazioni più anziane hanno contribuito più dei giovani all’aumento incontrollato del debito pubblico. Peccato però che il conto lo dobbiamo ripagare noi. Secondo una recente ricerca dell’Ufficio Studi del Sole24Ore, chi è nato nel 2018 si porterà sulle spalle un debito intorno ai 60mila euro mentre, chi è nato nel 2004, dovrà “solamente” sopportare un peso pari a 56mila euro. Se guardiamo alla generazione precedente, le cifre si fanno decisamente più basse. Ad esempio, chi è nato nel 1963 ha un debito pari a circa 45mila euro. 

Il rapporto tra debito e Pil è tornato a salire a seguito degli avventati spot elettorali di questo governo, generando un clima ancora più incerto per chi ha ancora tutta la vita davanti a sé. E come se non bastasse la maggioranza sembra non avere alcun interesse nella formazione e nella cultura delle giovani generazioni, che si ritroveranno costrette a fronteggiare un enorme debito pubblico senza avere una massa critica capace di trovare soluzioni vincenti ed efficaci. Una specie di favola al contrario, dove vivremo tutti poveri e inconsapevoli. 

La terza area di criticità è legata ai bassi investimenti. Sia gli investimenti privati che quelli pubblici si mantengono su valori inferiori a quelli degli altri Paesi europei. In particolare, gli investimenti pubblici sono in costante calo da un decennio. In un Paese in cui non si riesce ad aumentare la produttività e che ha grossi problemi di capitale umano, il calo degli investimenti pubblici rappresenta il vero colpo di grazia alla nostra economia. Parlare di investimenti significa interrogarsi sulla società che si vuole costruire. Non si tratta di scavare delle buche per creare lavoro, si tratta di concentrarsi sui veri bisogni dell’Italia. È urgente investire in infrastrutture materiali e immateriali, ricerca e sviluppo, riconversione ecologica e patrimonio culturale. 

Abbiamo estremo bisogno di uno Stato presente e attivo, che aiuti la collettività a innovare. Adesso che anche a livello internazionale il mantra dell’austerità sembra essere passato di moda, è necessario mettere in campo una strategia chiara per risollevare le sorti dell’Italia. L’impressionante livello del nostro debito pubblico ci dice chiaramente che la strada da percorrere è molto stretta. Ma se vogliamo aumentare la produttività, rilanciare i consumi, vivere in una società che tiene alla crescita e alle competenze delle persone, è imprescindibile avere un chiaro orizzonte condiviso da tutti gli attori politici e sociali. Abbiamo bisogno di una parola antica, scomparsa dalla nostra memoria. Abbiamo bisogno di concertazione tra le parti sociali. 

Le cronache recenti ci raccontano di una maggioranza impegnata a raccogliere ogni briciola di consenso ancora disponibile attraverso spot elettorali. Il consenso immediato si raccoglie con spesa corrente, estremamente dannosa per le casse pubbliche. L’Italia, invece, ha bisogno di unire tutte le sue migliori energie per elaborare una strategia di crescita condivisa e di investimenti sostenibili. Una strategia che sia in grado di far guardare con maggiore ottimismo quella montagna chiamata debito pubblico, che oggi sembra insormontabile. Serve uscire presto dal “presentismo” che avvolge le nostre società e tornare a pensare al futuro. Un futuro fatto di investimenti pubblici e di inclusione sociale, con buona pace di chi ancora predica le virtù dell’austerità. 

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