La fine politica di Salvini non sarà la fine del salvinismo. Purtroppo c’è Giorgia Meloni. - THE VISION

Sembra passata un’eternità da quando il leader della Lega, Matteo Salvini, portava il suo partito a raggiungere il 38% nei sondaggi; da quando occupava la poltrona più ambita al Viminale, il ministero dell’Interno, e stravinceva le elezioni europee; da quando le prime pagine dei giornali erano dettate dai post sui social network che la squadra di comunicazione guidata da Luca Morisi decideva di pubblicare. Sembrano passati secoli, eppure erano solo due anni fa, appena prima della caduta del governo Conte I, nell’agosto del 2019. Allora il successo del “Capitano”, come l’aveva soprannominato Morisi, sembrava inarrestabile. Un po’ come con Matteo Renzi nel 2014, quando da neo-Presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico aveva raggiunto il 40% alle europee.

Il paragone tra i due “Mattei” non è casuale. Nel 2019, il leader leghista confessò infatti che il suo braccio destro e attuale ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, gli aveva regalato una foto di Renzi da tenere in ufficio. Un monito per tenere i piedi per terra e non fare la stessa ingloriosa fine dell’ex-premier dopo la sconfitta al referendum costituzionale. Nonostante questo amuleto, però, i fatti degli ultimi mesi sembrano dirci che il “Capitano” sta cominciando ad affondare insieme alla sua nave, e che una nuova leader della destra, Giorgia Meloni, si appresta a prendere il suo posto.

Giorgia Meloni

Le recenti difficoltà della Lega nascono con il sostegno al Governo Draghi, scelta inevitabile per dire la propria sui soldi del PNRR ma che ha portato il Carroccio a un evidente cortocircuito. In primis per il lampante trasformismo di un partito che per anni ha sventolato la bandiera dell’euroscetticismo più radicale e poi si è ritrovato a sostenere il governo di Mario Draghi, ex-presidente della Banca Centrale Europea. Nonostante la presenza nell’esecutivo, infatti, il leader leghista ha continuato a ostentare una retorica movimentista e populista, provando a interpretare allo stesso tempo il partito di lotta e il partito di governo. Ha chiesto le dimissioni della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha strizzato l’occhio ai no-vax e votato insieme all’opposizione di Fratelli d’Italia contro l’estensione del Green Pass. Lo scopo di Salvini era chiaro: mantenere l’impostazione da partito di protesta che gli ha permesso di sfiorare il 40%, sfruttando il malcontento degli italiani per recuperare consenso e visibilità. Non solo, però, questa strategia non ha funzionato sul terreno elettorale – facendo scendere la Lega al 20% dietro Fratelli d’Italia – ma si è anche tradotta in scarsi risultati politici, con il sostanziale fallimento di tutte le battaglie rivendicate da Salvini e la fuoriuscita di eletti leghisti verso altre forze politiche.

Matteo Salvini

Questa ambivalenza ha diviso il partito, un tempo ritenuto un monolite unitario dietro al suo capitano, che ora mostra tutte le sue fratture. Da una parte c’è un fronte cosiddetto “movimentista”, capeggiato dallo stesso Salvini: è quello più ostile alle istituzioni comunitarie, che ha criticato l’ingresso della Lega nel Governo Draghi e che guarda, a livello europeo, alle varie formazioni euroscettiche, xenofobe e sovraniste come il Front National di Marine Le Pen o il Partito per la Libertà di Geert Wilders. Dall’altra parte c’è invece la Lega “governista” che fa riferimento al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti: questa Lega è composta dalla classe dirigente del Nord, tra cui figurano i presidenti di Regione del Veneto, Luca Zaia, e del Friuli Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga. Seppur abbia sfruttato e goduto dell’exploit del partito negli anni scorsi, questa frangia ora critica l’operato del leader e vorrebbe un approccio più pragmatico e liberale, orientandosi verso il Partito Popolare Europeo. Questa divisione è emersa recentemente con il “Sì” deciso dei Presidenti di Regione sul green pass e la dichiarazione di Giorgetti sulle elezioni amministrative a Roma, con cui ha criticato il candidato della destra Michetti e ha speso parole positive a favore di Carlo Calenda.

Giancarlo Giorgetti
Luca Zaia

Come se non bastasse, a questo va ad aggiungersi la debolezza dei candidati della coalizione di centrodestra alle amministrative del 3 e 4 ottobre e lo scandalo Morisi. Il segretario leghista ha dichiarato di essere “dispiaciuto della schifezza mediatica che condanna le persone prima che sia un giudice, un tribunale a farlo”, il che sarebbe anche giusto, se non fossero stati proprio lo stesso Salvini e l’apparato di comunicazione gestito da Morisi a mettere alla gogna mediatica attivisti, avversari politici e comuni cittadini, come ci ricorda il tristemente noto caso della citofonata avvenuta a Bologna durante la campagna elettorale delle regionali del 2020 in Emilia-Romagna. Morisi era la mente dietro La Bestia, le foto con i gatti, il Papeete, i piatti di pasta, le dirette su Facebook, gli attacchi xenofobi contro i migranti e la stigmatizzazione del diverso. L’ideatore di tutti quei frammenti che sono andati a comporre la narrazione, vincente quanto pericolosa, di Salvini nell’immaginario italiano. Morisi era lo sceneggiatore che scriveva al Capitano la parte da recitare ogni giorno. Vederlo indagato quindi non è soltanto l’ennesimo schiaffo all’ipocrisia della propaganda leghista, ma anche un duro colpo personale per lo stesso Salvini, sempre più solo e criticato all’interno del partito.

Sarebbe però ingenuo pensare che la crisi che sta passando il leader della Lega comporti una fine del suo modo di fare politica. Il “salvinismo” ha avuto tre elementi basilari: demagogia, xenofobia e comunicazione irresponsabile e aggressiva sui social. Le conseguenze di questi tre elementi non sembrano destinate a scomparire a breve, neanche con un eventuale dimissione del segretario del Carroccio. Anzi, tutti gli aspetti più negativi del salvinismo sembrano ora enfatizzati dalla strategia politica portata avanti da Giorgia Meloni.

Luca Morisi

La demagogia non era nuova nella politica italiana, ma Salvini e Meloni l’hanno elevata a livello nazionale a modus operandi condiviso. Questo approccio porta a spendersi per obiettivi magari elettoralmente molto retributivi, ma di fatto ben poco utili per il Paese, se non dannosi in toto. In inglese questo atteggiamento viene definito “short-termism”: un modo di agire che si concentra su obiettivi immediati per un veloce profitto, con il rischio di perdere tutto sul lungo periodo. È la pratica quotidiana di una politica senza visione, che antepone il proprio tornaconto elettorale al bene del Paese, incatenata a campagne elettorali perenni. I decreti sicurezza, per esempio, hanno esaltato la base leghista, ma si sono rivelati una politica non rispettosa dei diritti umani e dannosa dal punto di vista della sicurezza, costringendo migliaia di persone per strada e andando ad aumentare le irregolarità. Questi comportamenti però vanno a nutrire i complottismi, legittimando atteggiamenti che con la pretesa di escludere i deboli e le minoranze vanno in realtà a ripercuotersi sull’intera collettività.

La comunicazione leghista e meloniana ha usato le migrazioni e la paura per il diverso al fine di accrescere i propri consensi. Video sensazionalistici e notizie di cronaca falsate sono andate a comporre una narrazione fuorviante secondo la quale tutti i problemi del Paese trovavano il loro capro espiatorio nei migranti. Anche il linguaggio ha fatto la sua parte. Accusare i migranti di essere untori e continuare a parlare di “invasione” nel 2021, quando ad agosto erano arrivati solo 39mila migranti, ovvero 1 ogni 1538 abitanti, ha avuto effetti devastanti. Questa propaganda ha contribuito a fare dell’Italia il primo Paese europeo per distanza fra percezione e realtà, con una popolazione che crede che i migranti siano il 25% della popolazione, quando in realtà sono solo il 7%. Questa narrazione distorta ha legittimato una crescente xenofobia e un vero e proprio proprio razzismo diffuso. Casi di cronaca come la morte di Willy Monteiro Duarte o la sparatoria compiuta da Luca Traini a danno di alcuni migranti a Macerata sono solo la punta dell’iceberg, il resto è fatto di episodi di razzismo quotidiano, violenze, aggressioni fisiche e verbali, stereotipi e pregiudizi che la propaganda sovranista non ha fatto altro che esacerbare.

Un altro elemento che difficilmente potrà tramontare del salvinismo e che è stato pienamente abbracciato da Meloni è lo stile di comunicazione sui social network, di cui Morisi è stato principale ideatore. La diffusione di fake news per scopi elettorali, l’utilizzo di troll e profili falsi, e l’ipersemplificazione (fino alla banalità) del reale sono diventati fenomeni ormai comuni, spesso replicati dai leader sovranisti di tutto il mondo come dimostra la scellerata strategia social usata dall’ex presidente statunitense Donald Trump. Questi mezzi sono pericolosi perché creano una sfera pubblica distorta e inaffidabile, dove l’interesse personale di chi pubblica contenuti (sia esso economico o politico) è molto più grande del valore dell’onestà. In questo modo aumenta la polarizzazione e il dibattito pubblico si fa sempre più ostico, con la lotta politica che si riduce a scontro invece che a confronto di idee. La sfera pubblica può allora arrivare a essere così distorta che si va a perdere quello che il filosofo Jurgen Habermas chiama “mondo della vita”, ovvero il sentire e sapere comune “che non viene messo in discussione, e che per questo diviene la base di ogni processo comunicativo”. Se manca questa base condivisa, non può crescere alcuna vera democrazia.

Per sanare le ferite che Salvini e il salvinismo hanno aperto nella nostra democrazia non basterà la sostituzione di un leader. Anzi, il passaggio della leadership del centrodestra da Salvini a Meloni rischia di accentuare ancora di più i tratti distintivi del salvinismo. Quello che servirebbe è un lavoro costante, collettivo, dal basso, di ricucitura del nostro tessuto democratico. Quello che servirebbe è una classe dirigente diffusa, a destra e a sinistra, che abbia il coraggio e la capacità di non fondare il proprio successo sugli slogan e sulla delegittimazione dell’avversario, ma su politiche concrete e visioni a lungo termine per il Paese. Purtroppo, a oggi, si fa fatica a scorgere questa realtà.

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