Sicuri di voler chiamare “buonista” chi appende i dittatori per i piedi?

Nel 1938, quando vennero promulgate le leggi razziali, alcuni italiani mostrarono il loro disappunto. Non erano in tanti, e dovevano farlo in silenzio per evitare ripercussioni. Coloro che mostravano compassione per gli ebrei e che trovavano ingiusto il comportamento del regime fascista nei loro confronti venivano definiti “pietisti”, termine che pronunciò Mussolini davanti ai consiglieri nazionali del Partito Fascista nell’ottobre del 1938. Il pietista era accusato di piangere per gli ebrei e non per gli italiani in difficoltà, veniva tacciato di essere contro il popolo sovrano e spesso era dipinto come una persona benestante, incapace quindi di comprendere le problematiche della popolazione meno abbiente. Un articolo de La Stampa del 1938 ha alcuni passaggi eloquenti: “Pietà per gli ebrei sta bene, ma chi ha pietà per le vittime degli ebrei? Chi ha pietà per le nostre povere operaie? […] Chi ha pietà per i nostri commercianti rovinati dai magazzini giudaici con una concorrenza accanita e sleale? Non facciamo del razzismo. […] Per il bene stesso degli ebrei, non si può tollerare una Invadenza ulteriore”. Sostituiamo gli ebrei con gli immigrati, “pietista” con “buonista” e “invadenza” con “invasione”, che sono quasi sinonimi: il resto è esattamente lo specchio di questo 2018.

“Buonismo” è uno dei termini più usati, e abusati, di questo periodo storico. La Treccani lo definisce come l’”Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari, o nei riguardi di un avversario, spec. da parte di un uomo politico”. Questo è il significato nella sua versione più pura. L’accezione negativa con cui questa parola viene usata – specialmente da leghisti, grillini, populisti in genere, e fascisti del terzo millennio – è ovviamente qualcosa di diverso.

Ernesto Galli della Loggia

L’origine del termine “buonista” è da attribuire alla penna di Ernesto Galli Della Loggia, che nel 1995 ha scritto sul Corriere della sera un articolo intitolato “L’Ulivo di Prodi o Garibaldi”, inaugurando questa parola. Agli albori viene usata quasi come sinonimo di “faciloneria” o “benaltrismo”, e non prende piede nel lessico comune. Nel 1998, una puntata del Maurizio Costanzo Show dal titolo “Gli italiani sono buoni o più semplicemente buonisti?” sdogana poi il termine, fino a farlo inserire nella Treccani, dove è rimasto il significato di un tempo, e non tanto l’accezione negativa con cui il termine viene esclusivamente usato attualmente.

Roberto Saviano ha deciso di non tergiversare e ha proposto provocatoriamente di abolire questa parola, spiegando che è diventata “Una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole, contro qualsiasi riflessione in grado di andare oltre il raglio della rabbia e la superficialità del commento”. Lui è il perenne bersaglio degli scalmanati da tastiera, e l’accusa di buonismo nei suoi confronti è all’ordine del giorno. L’ardore con cui viene scagliato il termine “buonista”, unito all’arroganza che si nasconde dietro ogni insulto, rende impossibile instaurare qualsiasi dialogo con esponenti della fazione opposta. Sì, perché ormai sembra essere chiaramente in atto una guerra fredda civile, cui non è possibile sottrarsi o rivendicare neutralità. O sei buonista, o sei “l’altro”. Oggi, infatti, è ormai considerato un pensiero “buonista” tutto ciò che si rifà semplicemente al buonsenso – anche se pure quest’ultimo è un termine di cui si è appropriato indebitamente Salvini. Bolsonaro è un pericoloso fascista, omofobo, razzista e sessista? È un pensiero da buonista. I migranti sono degli esseri umani e non delle bestie da angariare? Buonista al cubo. La vicenda della mensa di Lodi è abominevole? Idem come sopra. In un’epoca in cui si stanno smarrendo i valori basilari dell’essere umano, però, essere definito un buonista dovrebbe essere una spilla al merito.

Roberto Saviano

Sembra che gli italiani stiano tirando fuori il loro lato più oscuro, dopo averlo tenuto in naftalina per molti anni. Adesso, però, si sentono legittimati a esternare il peggio di sé da un governo abbastanza gretto, e dall’onda lunga che in qualche modo sta toccando tutto il mondo con Trump, Bolsonaro, Farage e Orban. Il nuovo fascismo non è rappresentato dal macchiettismo criminale degli zoticoni che si radunano a Predappio con magliette orrende: il nuovo fascismo è il sovranismo (ovvero il trincerarsi dietro al concetto impolverato di Patria, perpetrando politiche che ricordano quelle medievali), e tutti quelli che lo osteggiano vanno sviliti, marchiati a fuoco, denigrati. I non-buonisti non ammetteranno mai di essere razzisti, la loro confusa scala di valori in cui il migrante viene sotto il topo. Se fosse ancora vivo Gandhi sarebbe senz’altro un buonista secondo loro, per non parlare di Martin Luther King.

Il buonista viene dipinto come una creatura ipocrita, come un appestato che come principale difetto ha quello di esternare sentimenti nobili. Anzi, no, sentimenti che dovrebbero essere comuni, normali, dati per ampiamente acquisti: il lignaggio è stato trasmesso in quest’epoca di barbarie, dove sostenere i più deboli è visto come una macchia, o un lusso. È come se in un futuro non troppo remoto qualcuno sbuffasse di fronte alla difesa degli anziani o degli invalidi. Adesso ci sembra – e sembra anche ai non-buonisti – inverosimile, ma appariva surreale anche l’esaltazione della xenofobia o la critica verso chi indossa una maglietta rossa, chi salva la gente in mare o chi tiene viva la memoria storica del Paese, perché in questo periodo le Ong sono viste come delle associazioni demoniache e Liliana Segre come una testimone inopportuna, e dobbiamo farcene una ragione.

Liliana Segre

Da quando “buonista” sembra essere diventato il più infamante degli insulti, c’è chi addirittura prova a giustificarsi, invece di rivendicare ancora più fermamente i propri ideali. Il refrain di ogni replica è quello di una continua ricerca di assoluzione: “Effettivamente lasciar morire in mare degli esseri umani è poco carino, però non sono un buonista.” Come se l’empatia e la solidarietà fossero prerogative, e debolezze, si una sola parte politica, di Soros o dei fantomatici poteri forti. Quando tra vent’anni guarderemo il passato alle spalle, pensando a questa stagione politica e ai suoi mostri, non sarebbe male ricordarci di essere stati dalla parte giusta, ovunque ci troveremo allora. Una parte che non si riduce a una determinata fazione politica, ma che riguarda l’assennatezza e la tolleranza, l’umanità senza altre sovrastrutture. E verremo ricordati come complici o come componenti di una resistenza, come squadristi o pietisti. A noi la scelta, senza dimenticare che anche i buonisti nel loro piccolo si incazzano.

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