La riforma della scuola di Renzi è troppo di destra persino per un leghista

Il preside-sceriffo ha i giorni contati. In realtà non ha mai fatto in tempo ad appuntarsi la stella sul petto e appoggiare gli speroni sulla scrivania. L’Italia non è mai stata quel tipo di Far West, e ora forse è tardi per diventarlo.

Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno con i sindacati una bozza d’accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una “posse) per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un “comitato di valutazione” nominato da docenti e genitori.

Marco Bussetti

Più tardi aveva preso piede l’espressione “chiamata per competenze“, e su questa i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla “chiamata diretta”, ma “chiamata per competenze.” Ovvero il preside avrebbe scelto con una certa discrezionalità: ma sulla base delle “competenze” dei candidati, certificate dal curriculum. Forse però “chiamata per curriculum” suonava male, mentre “competenze” è in assoluto la parola preferita di tutti i riformatori scolastici, un termine passepartout che ormai ha molteplici significati. In questo caso si riferisce a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi e i loro collaboratori sarebbero stati in grado di saggiare la “competenza” dei candidati all’insegnamento, previa lettura del curriculum.

Come si leggeva in una delle slide di presentazione della Buona scuola: “I presidi potranno formare la loro squadra.” Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Allora diamo tutti i poteri a loro. Facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l’immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d’Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.

Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un ragionamento piuttosto bizzarro, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant’è: il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell’allenatore e del manager. Il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché costruita su basi teoriche malferme, ha garantito a Renzi l’appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che “la meritocrazia è di sinistra.” In compenso, gli ha alienato le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana – Letizia Moratti e Maria Stella Gelmini, per fare due nomi. Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva troppo.

Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio, non riuscì mai a chiarire ai suoi elettori e nemmeno a se stesso per quale motivo le scuole dell’obbligo avrebbero dovuto farsi concorrenza tra loro, attirando gli insegnanti più competenti e i genitori più esigenti. Era come se la narrazione renziana, vittima della fallacia del sopravvissuto, riuscisse a concentrarsi soltanto sulle situazioni vincenti: il manager che impone la sua visione, l’allenatore che compone la sua squadra che ovviamente è quella giusta. Le stesse metafore che adoperava avrebbero dovuto metterlo in guardia: non tutte le aziende possono avere successo, il capitalismo si basa proprio sul rischio d’impresa, sulla possibilità che ogni tanto qualcuno possa fallire. E anche nello sport, non tutte le squadre possono vincere sempre. Anche se i presidi si fossero trasformati, di punto in bianco, in manager di successo, solo alcuni avrebbero davvero potuto radunare la squadra dei loro sogni: le altre scuole circostanti avrebbero dovuto accontentarsi degli scarti.

È una logica che ha un senso nel mondo del lavoro, e fino a un certo punto anche nell’istruzione superiore (licei, tecnici e professionali): ma la scuola dell’obbligo è un servizio che viene garantito a tutta la cittadinanza: non è un ristorante, è una mensa. Non viene frequentata per le specialità dello chef, ma perché garantisce tutti i giorni un pasto dignitoso a un prezzo irrisorio. Chi cerca un’istruzione di qualità, dovrebbe rassegnarsi a spendere di più e scegliere una scuola privata, anche se in Italia non è poi così facile trovare scuole che offrano un servizio migliore delle pubbliche.

Anche la mensa naturalmente deve puntare a migliorare il suo servizio, raffinando i meccanismi di selezione del personale e premiando i dipendenti che lavorano di più e meglio continuando a formarsi. Ma se è una mensa che esiste in tutti i quartieri di Italia, non ha nessun interesse a mettere in competizione la filiale di un quartiere contro quella del quartiere vicino. Anche la visibilità che potrebbe darle una filiale di successo sarebbe facilmente oscurata dalla pubblicità negativa di quelle circostanti. La riforma si basava sull’ottimistica idea che una sola Buona scuola avrebbe oscurato tutti i problemi delle cattive intorno a lei. È un’idea che fa leva sul naturale egoismo col quale ci accostiamo all’istituzione scolastica quando diventiamo genitori. Finché eravamo semplicemente cittadini, era nel nostro interesse che tutte le scuole della nostra città funzionassero dignitosamente, senza ghetti di sorta. Ma nel momento in cui tocca a noi iscrivere i figli, ecco che d’un tratto preferiremmo poter scegliere una scuola molto migliore delle altre (anche se non sempre possiamo o vogliamo pagarla di più). Se poi siamo anche proprietari di un immobile, la presenza di una scuola di élite in fondo alla nostra strada ci farebbe molto più comodo, e se questo implica la creazione di una scuola ghetto altrove, speriamo che succeda nel quadrante più lontano al nostro. La Buona scuola sembrava fare appello soprattutto a questo tipo di egoismo genitoriale, che è assolutamente naturale, ma forse non è l’opzione più di sinistra.

Qualche mese fa l’istituto demoscopico Swg ha chiesto a un campione statistico di italiani se ritenevano che il libero mercato avesse portato “più vantaggi o svantaggi all’Italia.” I risultati sono abbastanza curiosi, e non solo perché gli “svantaggi” hanno superato i “vantaggi” di due punti percentuali (43 contro 41). I numeri sorprendenti sono quelli ottenuti incrociando le dichiarazioni di voto: a ritenere che gli svantaggi sorpassino i vantaggi sono il 52% degli elettori di Forza Italia, il 52% degli elettori del M5S e addirittura il 63% degli elettori leghisti. L’unico grande bacino elettorale a esprimersi complessivamente in favore del libero mercato (67%) è quello del Pd. Dunque alla fine non è così strano che il Pd, una volta al governo, abbia cercato di portare un piglio manageriale e mercatista anche in situazioni che non lo tolleravano – vedi la scuola pubblica. E non è nemmeno così paradossale che il primo ministro dell’Istruzione di area leghista abbia deciso di accantonare il preside-manager.

Non è che sinistra e destra non esistano più. Diciamo che, quando il Pd ha cominciato a spostarsi sempre più al centro, Lega e M5S hanno approfittato dello spazio vuoto proponendo un mix di statalismo, assistenzialismo e nazionalismo nemmeno così inedito, e che ha precedenti abbastanza sinistri in Italia e in Europa. Mentre il Pd inseguiva ossessivamente il fantasma del successo e dell’eccellenza, liquidando il suo passato per costruirsi un’immagine vincente, Lega e Cinque Stelle si guardavano attorno promettendo salvagenti agli sconfitti: è andata com’è andata.

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