Il benaltrismo ci seppellirà

Williams Burroughs scrisse che “un uomo può fallire molte volte, ma non diventa un fallimento finché non comincia a dar la colpa a qualcun altro.” Se qualcuno facesse leggere questa frase a un politico italiano, accusandolo di criticare gli avversari per celare la propria inettitudine, probabilmente se ne uscirebbe così – sempre nel caso in cui conoscesse anche solo per sentito dire lo scrittore americano: “Burroughs era un drogato uxoricida, scriveva cose deliranti e si è fregato i meriti di Kerouac e Ginsberg. Il vero fallito è lui.” Benvenuti nell’epoca del benaltrismo.

Il benaltrismo si divide in due correnti. Da un lato c’è la costante ricerca di problemi più urgenti, tesa a sminuire i risultati conseguiti in altri ambiti. Un ente benefico costruisce una biblioteca pubblica per i terremotati? Il benaltrista se ne esce dicendo: “E le case chi gliele restituisce?”.

Dall’altro il costante spostamento dell’attenzione su altre sponde, così da sviarla rispetto all’argomento principale e colpire invece l’avversario. In questo caso la frase che detiene il primato è: “E allora il Pd?”. Vengono arrestati il braccio destro (Marra) e il braccio sinistro (Lanzalone) di Virginia Raggi. E allora il Pd? Salvini propone censimenti che farebbero impallidire Goebbels.

E allora il Pd?

Questo lessico politico ha talmente contagiato l’elettorato, in ogni sua forma, da essere diventato di uso comune in qualsiasi conversazione. Al bar, su Internet, al parco, la costante è la stessa: mai rispondere nel merito, ma screditare il nemico. Attuava la stessa tattica anche il centrosinistra nell’era berlusconiana, e tutt’ora non si fa scrupoli quando ignora i suoi errori e predilige la stilettata agli altri partiti.

Questo atteggiamento si acuisce quando la fede politica diventa fanatismo. Con l’avvento dei social, la strenua difesa del proprio partito di riferimento è diventata una questione di vita o di morte. Ci si identifica letteralmente nel partito che si sceglie di sostenere. E così retrocedere su un’idea o anche semplicemente discutere è diventato quasi impossibile.

I primi a pagarne le conseguenze sono i giornalisti. Ogni volta che si prova a proporre un’analisi politica si viene sommersi da un’ondata di “rosica” e “Maalox”. Se un quotidiano pubblica un’inchiesta sui presunti fondi neri della Lega, le risposte della falange convergeranno come sempre su un unico punto: “E allora gli altri?”. Questa usanza viene perpetrata anche di fronte a contesti storici passati. Pensiamo a Mussolini. La discussione virerà inevitabilmente sulle porcate di Stalin o sulle ombre di Mao e Castro. E lo stesso, anche stavolta, vale a ruoli invertiti. Ormai la difesa della propria compagine si basa sulla ricerca delle macchie avversarie.

Il Napalm51 di Crozza è stato rappresentato con fin troppa moderazione, rispetto alla deriva che questo fenomeno ha raggiunto adesso. Siamo tutti cani rabbiosi, auspichiamo il fallimento altrui e, quando veniamo chiamati in causa, neghiamo a oltranza. Il successo lo ottiene chi detiene l’arma di distrazione di massa più efficace. Le cosiddette forze populiste che stanno dominando la scena odierna – Lega e M5S in Italia, Trump, Orban e affini nel resto del mondo – hanno usato questo stratagemma per fondare il proprio impero, grazie a un indottrinamento indiretto. Gli elettori parlano come loro, usano gli stessi termini, fuggono da una questione con la loro stessa rapidità. Si è creato un pensiero unico o, a dirla tutta, un’unica fuga. Nessun problema viene mai affrontato alla radice, conta la malizia della narrazione.

Quando si parla del fenomeno dell’evasione, in Italia, è molto probabile che la questione venga spostata sulla protesta per le tasse troppo alte. Così, magicamente, si fa scomparire il problema primario per creare una rete di problemi secondari non collegati al principio della discussione. Questo non fa che delegittimare il problema reale. Parcheggi l’auto in doppia fila? “Eh, ma i politici ladri girano con l’auto blu.” Non esiste un nesso tra le due componenti, eppure l’obiettivo di cambiare argomento è stato raggiunto.

Nessuno è immune alla patologia del benaltrismo, è radicata in noi dalla testa ai piedi. E quel “noi” è strettamente collegato all’italianità. Il termine è stato sdoganato dal giornalista e scrittore Gianni Mura, che l’ha introdotto dapprima in ambito calcistico, per poi espanderlo e usarlo in ogni altro campo. Proprio il calcio è un argomento cardine di questo fenomeno all’italiana. “Perché vi infervorate per una partita di pallone quando la gente non arriva a fine mese?”

Il benaltrismo ha intaccato anche il tema dei diritti. Quando si è discusso di unioni civili e biotestamento, molti hanno preferito far finta di non vedere, asserendo che i problemi importanti dell’Italia fossero ben altri. Perché nella nostra penisola è impensabile scindere le problematiche: fa tutto parte di un nucleo centrale, le orbite non vengono considerate.

Gianni Mura

Se i Cinque Stelle sono i sovrani indiscussi di queste pratiche, Salvini ha inventato però una nuova forma di benaltrismo: quello selettivo. Quando gli hanno fatto una domanda su Regeni, infatti, il leader del Carroccio ha replicato dicendo che “sono più importanti i rapporti con l’Egitto.”

La selezione di Salvini è nitida quando entrano in gioco i suoi bersagli preferiti. È in grado di rispondere a qualsiasi accusa tirando fuori la storiella di un tunisino che nel 1985 si è scaccolato al semaforo, o di un algerino che una volta non si è alzato sull’autobus per far sedere un anziano padano. Il suo benaltrismo, a differenza dei Cinque Stelle, non si limita al mantra “E allora il Pd?”, è molto più ampio: sarebbe capace di giustificare degli insulti all’ambasciata marocchina stilando l’elenco degli ingredienti che non gli piacciono del cous cous.

Matteo Renzi si è trincerato per più di tre anni dietro un concetto che suona circa così: “Noi stiamo facendo un po’ di cazzate, ma guardate che gli altri sono dei barbari.” E il popolo ha scelto i barbari.

Un tipico esempio di benaltrismo è stato offerto da Carlo Sibilia, sottosegretario agli Interni in quota M5S, in una recente intervista sul Corriere della Sera.

Intervistatore: “Lei ha scritto che lo sbarco sulla Luna non c’è mai stato.”

Sibilia: “È controverso quell’episodio.”

Intervistatore: “In che senso?”

Sibilia: “Sono tanti gli episodi controversi. Al Monte dei Paschi di Siena, ad esempio, sono spariti 100 miliardi, c’è un morto di mezzo e non si trova un responsabile.”

Intervistatore: “Ma cosa c’entra con la Luna?”

Sibilia: “Come dice Gianna Nannini: sei nato nel Paese delle mezze verità.”

Una delle interviste più esilaranti di sempre, un triplo salto carpiato per non dire nulla, se non ribadire la spiccata abilità dei politici nello schivare gli argomenti più indigesti.

Eroico poi il benaltrismo berlusconiano, che per vent’anni ha fatto leva sulla mistificazione dei fatti o sul cambio di prospettiva. Nel 2009 Studio Aperto fece un servizio sul giudice Raimondo Mesiano, colui che condannò Berlusconi a un maxi risarcimento nei confronti di De Benedetti, descrivendolo come un personaggio stravagante, per la sola colpa di indossare calzini turchesi.

Per settimane si parlò solo di quei calzini, e non della condanna sulle spalle di Fininvest.

Berlusconi è colui che ha tentato di far passare inosservato ciò che faceva aizzando il popolo contro minacce impalpabili. I fantomatici comunisti in primis.

Adesso che le forze politiche sono cambiate, restano i nemici invisibili: “i poteri forti”, “la casta”, “l’Europa”. Tutte entità indefinite che fanno da parafulmine per camuffare le proprie falle.

Quando una forza d’opposizione giunge al potere, la prima regola del benaltrismo è rimarcare il malgoverno degli anni passati; sia per giustificare le proprie debolezze che per sviare l’attenzione e trovare un colpevole. Virginia Raggi da due anni risponde alle critiche sul suo operato parlando di Marino, Alemanno, Veltroni, Tullio Ostilio e Numa Pompilio.

Non se ne esce, ci sarà sempre una problematica più importante da risolvere, un politico più colpevole da accusare, un tema più scottante da trattare. E se per gli elettori è una guerra tra poveri, per i politici è un sigillo di sopravvivenza, la carta da giocare quando tutto sta crollando. In politica, però, la legge del contrappasso è dietro l’angolo. Aspettiamoci tra cinque anni un nuovo partito che gonfierà il petto all’urlo di: “E allora Salvini?”.

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