Se la sinistra vuole sopravvivere deve trattare Lega e M5S come avversari e non macchiette

Quando abbiamo visto Calderoli e Rocco Casalino seduti allo stesso tavolo per decidere le sorti del Paese, ovvero la comica distopia che diventa realtà, non siamo riusciti a trattenere un ghigno. Quel ghigno è la causa della sconfitta della sinistra negli ultimi venticinque anni.

Fino a poco tempo fa consideravamo ancora la Lega e il M5S due macchiette. I primi li dipingevamo come alticci padani con l’elmetto e un’ampolla piena d’acqua del Po; i secondi come complottisti frustrati con la maschera di Guy Fawkes. Noi, giovani di sinistra per tradizione familiare, avevamo poco di cui andare fieri. Il Pd era diventato un’accozzaglia di luoghi comuni democristiani, l’ascesa di Renzi aveva portato con sé una scia di contraddizioni da far impallidire un berlusconiano. Il governo con Alfano e Verdini è stato un duro colpo. Per oltre tre anni ci siamo dedicati allo sport che meglio ci rappresenta: il masochismo. Ovvero gettare merda e fango sull’operato della sinistra-non-più-sinistra, pur essendo consci di rivotarla per “non far salire gli altri”. E così abbiamo fatto anche il 4 marzo. Tappandoci il naso, abbiamo messo una crocetta su quel simbolo sbiadito, su quelle due lettere che hanno smarrito il loro significato, o che non l’hanno mai realmente avuto. Abbiamo perso prima ancora di conoscere i risultati, all’interno della cabina elettorale, con la matita in mano.

Angelino Alfano
Denis Verdini

Subito dopo, come vuole la tradizione di sinistra, è partito il circo dell’analisi della sconfitta. Come analizziamo noi le sconfitte non le analizza nessuno. Un tonfo annunciato, e tutta la boria del mondo nel decifrarne i motivi. Per la prima volta nella storia del partito, elettori e rappresentanti hanno avuto la stessa visione: lasciamoli governare, lasciamoli andare alla deriva. E cosa c’è di più spocchioso di un pensiero del genere?

Loro, gli inadeguati, quelli scelti dal “popolino bue” andranno a schiantarsi e distruggeranno un Paese, resteranno soltanto le macerie. L’abbiamo pensato tutti noi sinistrorsi 2.0. E come abbiamo gonfiato il petto, quando si è profilata l’alleanza Lega-Cinque Stelle. Come a dire: “lo sapevamo già, sono populisti e ignoranti, era scritto che stessero insieme.” È poi partita una masturbazione mentale al pensiero di flat tax e reddito di cittadinanza, abolizione della legge Fornero, referendum sull’Euro, borsa che crolla, spread alle stelle, no-vax all’arrembaggio. E il comitato di conciliazione. Cosa c’è di più fascista di un comitato di conciliazione? La lettura delle bozze del loro programma ha portato la nostra alterigia a livelli mai visti prima.

Poi abbiamo aperto gli occhi. Abbiamo capito che c’è poco da ridere: noi non siamo rappresentati politicamente e gli altri, gli elettori che per anni abbiamo denigrato, non sono per niente scontenti di fronte all’ammucchiata gialloverde, con Berlusconi alle porte e riabilitato. Tutt’altro: era proprio quello che gli elettori chiedevano. Lega e M5S insieme, la valvola di sfogo contro i “poteri forti”. Il nostro è stato un brusco risveglio. Abbiamo semplicemente capito di essere dalla parte del torto. È finito il tempo delle filippiche contro il suffragio universale, della presunta superiorità morale, delle torri d’avorio dalle quali sputacchiare invettive anacronistiche. Abbiamo perso, bisogna farsene una ragione.

Nel caso dovessimo fare la fine della Grecia, con quelli che consideriamo gli scellerati piani politici dei nuovi barbari già in rampa di lancio, saremmo gli ultimi a poterci permettere di aprir bocca. Perché questo è il governo che ci meritiamo, e lo meritiamo per cinque lunghissimi anni. Il nostro senso di superiorità è sempre stato ingiustificato. Letta-Renzi-Gentiloni non sono Gramsci-Togliatti-Berlinguer, e noi non siamo i nostri padri, e nemmeno i nostri nonni. La retorica dei fasti di un passato mai vissuto, e delle utopie idealiste, ha fatto perdere il contatto con la realtà a una generazione allo sbando. La generazione che cerca una consolazione in una tavola di Makkox, o in un barlume di lucidità di Scalfari, che pretende un senso d’appartenenza ormai annacquato. Siamo la generazione senza punti di riferimento se non quello dello snobismo di rimando.

Questo non vuol dire tollerare gli estremismi o legittimare forze politiche a noi distanti, ma tra critica e presunzione la differenza è abissale.

Per quanto tempo ancora ci aggrapperemo ai congiuntivi di Di Maio e alle felpe di Salvini? Arriverà un momento in cui smetteremo di analizzare al microscopio i disastri di Roma e Torino, in cui non guarderemo più i vecchi video dei leghisti che insultano i meridionali. A quel punto probabilmente continueremo a non fare niente, se non tentare di convincerci della limpidezza degli occhi di Martina, del passato rosso del compagno Delrio, della placida pacatezza di Gentiloni. Continueremo ad aspettare il cadavere del nemico dalla nostra riva privilegiata. Attenderemo il fallimento altrui, senza metabolizzare il nostro. Faremo il tifo per le interferenze, per gli ostacoli sulla strada del nuovo governo. Caro Draghi, non cancellare nemmeno un centesimo del debito pubblico. Caro Juncker, cantagliene quattro a questi zoticoni. Spread, vieni a salvarci. In poche parole: tiferemo per l’apocalisse, punendo anche noi stessi. È la nostra espiazione.

La nostra passività è disarmante, bisogna prenderne atto. Non basta la consolazione di fronte alle scenette di Travaglio e Scanzi che provano ad arrampicarsi sugli specchi per giustificare l’inciucione. Non basta la risata leggendo il post di Di Battista che parla di “poteri forti che hanno fatto crollare l’ultimo governo-Berlusconi” e nemmeno rispolverare le vecchie dichiarazioni di Grillo contro i leghisti e la “politica corrotta”. L’ironia sulla scatoletta di tonno e sul “tutti a casa” perde il suo valore quando a farla è uno sconfitto cronico. Ormai siamo entrati in una fase di assuefazione, l’abitudine all’ostracismo è radicata in noi tanto da diventare una seconda pelle.

Arriveranno giorni migliori, ma non saranno questi.

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