Come l’hype ha cancellato il confine tra underground e mainstream

L’idea che musica underground e musica commerciale siano due rette parallele che non dovrebbero mai incontrarsi è storicamente ben radicata nell’ascoltatore italiano. La tendenza a vedere underground e mainstream come due concetti in aperta contrapposizione ha sicuramente danneggiato per anni il panorama musicale del nostro Paese: intere scene, come quella rap degli anni Novanta o quella ska e punk, sono implose nel momento in cui al loro interno si è iniziato a discutere se la strada giusta fosse rimanere fieramente indipendenti o  piuttosto aprirsi a un pubblico più grande e quindi eterogeneo. La scelta tra questi due estremi era considerata obbligatoria per qualunque artista che cominciasse a farsi conoscere.

Oggi il dualismo tra scena indipendente e mainstream sembra in parte superato: Lo Stato Sociale è un buon esempio di una realtà inedita nell’ecosistema della musica italiana. Prima della band bolognese era impensabile che qualcuno potesse permettersi di intonare durante i propri concerti Sono così indie qualche mese dopo essere salito sul podio della manifestazione più nazional-popolare che esista, ovvero il festival di Sanremo. Come se ciò non bastasse, qualche settimana fa è toccato sempre a Lodo Guenzi, il membro più in vista del gruppo, il compito di affiancare al bancone di X Factor quel Manuel Agnelli che a suo tempo, con la sua scelta di partecipare in veste di giudice al programma, aveva fatto incontrare per la prima volta la scena rock alternativa degli anni Novanta e i talent degli anni Dieci.

Manuel Agnelli

Si è creata una zona grigia tra il sottobosco underground e la musica che fa i grandi numeri. Questo mainstream di culto è di fatto l’espressione massima del pop se consideriamo il pop come la perfetta sintesi tra il prodotto di nicchia che appassiona chiunque nutra velleità intellettuali e il motivetto-tormentone in spagnolo in cui si incita l’amante platonica di turno a lasciarsi andare a una folle notte di passione. Questa visione del pop ha iniziato ad emergere solo nell’ultimo periodo, anche perché  le grandi label hanno iniziato a lasciare una maggior libertà di azione agli artisti, mentre un numero crescente di etichette più piccole, parallelamente, cominciava ad avere un approccio simile a quello delle grandi major, svuotando di significato il ragionamento alla base della vecchia dicotomia “indipendente/mainstream”.

Nel 2016 l’Accademia di Svezia giustificava la propria scelta di consegnare il Nobel a Bob Dylan spiegando che il cantante aveva il merito di: “Aver creato nuove espressioni poetiche nel solco della grande tradizione della canzone americana”. Secondo il sociologo Andrea Cossu, autore del libro It Ain’t Me Babe: Bob Dylan and the Performance of Authenticity, alla base del successo di artisti come Dylan ci sono proprio i due aspetti evidenziati all’interno della stringata motivazione al Nobel: l’originalità e l’autenticità. Anche se ovviamente la scena musicale italiana attuale rimane diversa da quella che permise a Dylan di far emergere questi due concetti, apparentemente in antitesi tra loro, sono tuttora aspetti importantissimi nel convincerci ad ascoltare un artista piuttosto che un altro.

Bob Dylan

A cambiare, rispetto al passato, non è la nostra immutata voglia di avere a che fare con qualcosa di genuino e originale, ma piuttosto i fattori che ci fanno percepire quel determinato album o quel determinato singolo come sincero e allo stesso tempo diverso. Edgar Morin ne La industria de la canción avanzava l’ipotesi che la canzone possedesse una doppia dimensione: musicale e verbale. Tenendo presente questa doppia dimensione Morin si chiedeva se per il successo di una canzone fosse più importante la parte musicale o il testo. Oggi la domanda di Morin sembrerebbe avere una nuova risposta, se è vero che l’ascoltatore medio non si concentra più sull’autenticità del suono come chi si interessava di musica negli anni Sessanta: a interessare oggi è la spontaneità che traspare dai testi. Se il cantante si esprime come mi esprimerei io e parla nei suoi pezzi di situazioni che potrebbero accadere anche a me nel quotidiano immediatamente lo sento vicino, percepisco che dietro chi ha scritto la canzone si cela una persona “vera”.

Dietro il repentino e sorprendente successo de I Cani o di Calcutta c’è proprio quella capacità di giocare all’interno delle canzoni con riferimenti che siano immediatamente comprensibili. Questi riferimenti, come ricorda Giovanni Bitetto, funzionano proprio perché altro non sono che “Una serie di simboli che concorrono a ricostruire un’idea di quotidianità vissuta fra il facile sentimentalismo e il disagio di una condizione precaria”. Qualche anno dopo il successo de Il Sorprendente Disco di Esordio de I Cani, Niccolò Contessa spiegava così il successo di una delle tracce più celebri di quel disco: “Quando è uscito Wes Anderson, scritto nel 2009 e pubblicato nel 2010, parlare di un personaggio contemporaneo mi era sembrato fresco e fico. Lo era rispetto alla canzone italiana, che aveva uno sguardo un po’ troppo generico e rivolto al passato, vintage”. Oggi sarebbe ingenuo pensare che piazzare un riferimento a una qualunque icona contemporanea in una canzone possa contribuire in maniera sostanziale a creare un hype simile a quello che scatenarono ai tempi I Cani. Rispetto al 2010 la citazione del quotidiano è diventata comune anche nell’asfittico panorama musicale italiano, al punto che, persino nei testi delle hit radiofoniche, è  diventato naturale trovare amori che durano quanto le storie su Instagram e “eserciti del selfie”. Questo perché anche il pop apparentemente più spregiudicato ormai sente la necessità di suonare “vero” all’orecchio dell’ascoltatore. In questo senso è paradigmatica la scelta del cantante più popolare del nostro paese, Vasco Rossi, di intitolare il suo ultimo singolo La Verità

Still dal video di Wes Anderson, I Cani

L’autenticità, nella musica di oggi, non si veicola comunque solo attraverso quello che si dice: è importante anche come lo si dice. L’immediatezza che ha fatto riconoscere tantissimi fan nei pezzi di Frah Quintale è direttamente connessa a quella tendenza della nostra società a comunicare attraverso messaggi brevissimi che vogliono essere immediatamente chiari. Liberato canta in napoletano perché ha capito benissimo che così facendo crea una immediata connessione con un luogo e con una particolare fetta di pubblico. Anche dietro la scelta di Carl Brave e Franco 126 di esprimersi in un romano che risulti comunque facilmente assimilabile anche a chi è nato fuori dal Grande Raccordo Anulare c’è la cosciente voglia di apparire il più spontanei e sinceri possibile alle orecchie di un qualunque ascoltatore.

Per capire come è cambiata la nostra idea di originalità si deve inevitabilmente tornare al concetto di postmoderno. Come in generale tutta la cultura, anche la musica nell’era postmoderna  segue una politica e un’estetica della frammentazione. Se è vero che di postmoderno si parla dalla seconda metà del Novecento, la sua sublimazione in musica arriva nel 1996. In quell’anno Josh Davis, con il nome d’arte di Dj Shadow, fece uscire il suo primo album Endtroducing….. Si tratta di un disco storico: mai prima di allora si era provato a creare un album mettendo insieme letteralmente “pezzi” di brani altrui. Non c’era niente di originale nel disco di Dj Shadow, che nelle 16 tracce assemblò decine di campioni estrapolati da alcuni dei 60mila dischi che formavano la sua collezione. Endtroducing….. era l’apoteosi del post moderno in musica come lo era Pulp Fiction nel cinema: il trionfo del reinventare. Nel momento in cui risultava ormai chiaro che non era più possibile inventare nulla di completamente nuovo tanto valeva rielaborare elementi già esistenti, anche molto diversi, e unirli tra loro per creare qualcosa di comunque a suo modo originale.

Con il solito ritardo, anche la musica italiana pare aver digerito la lezione e oggi anche da noi il grado di originalità di un pezzo cambia in base a quanto inedito suoni il mix tra i diversi elementi pescati dal passato utilizzati nella creazione. Qualche mese fa Alice Oliveri faceva notare quanto la hit dei Thegiornalisti Questa nostra stupida canzone d’amore fosse un patchwork di frammenti di hit del passato. Non si tratta di un caso isolato: anche Torna a Casa dei Måneskin è un mosaico di suggestioni molto diverse tra loro. A cambiare di volta in volta è spesso soltanto l’immaginario richiamato: quello cui fa riferimento il giovanissimo gruppo uscito da X Factor è ovviamente differente da quello di un trentacinquenne con la cronica nostalgia degli anni Ottanta come Tommaso Paradiso.

Still dal video di Torna a Casa, Måneskin

Torna a Casa è anch’essa un pastiche di riferimenti a successi del passato, anche se si tratta di un passato più vicino: la Marlena protagonista del pezzo potrebbe tranquillamente essere una cugina della Mary che a inizio anni duemila scappava “correndo nel buio di una ferrovia” in un pezzo dei Gemelli Diversi e, anche a livello musicale, è facile sentire nel pezzo echi del lavoro di gruppi che sicuramente hanno influenzato la band romana, cresciuta negli anni Zero, come le Vibrazioni o i Negramaro. Si è sempre rielaborato degli spunti del passato, ed è giusto farlo, ma questi esempi rendono palese quanto il grado di originalità di una canzone rischi di essere influenzato principalmente  dal livello di raffinatezza di quel processo di ibridazione che ormai sta alla base di ogni hit. Il rischio è di ritrovarsi ad ascoltare una musica sinistramente simile a quella “musica gastronomica” di cui parlava Eco nel saggio La canzone di consumo. Una musica per cui il plagio era l’ultima e più completa soddisfazione delle esigenze del mercato. Nella musica “gastronomica” la novità viene inserita in piccole dosi con il fine di solleticare l’interesse del compratore senza dimenticarsi di assecondare la sua pigrizia.

Il fatto che per la prima volta si apprezzi il continuo incontro tra aspetti molto diversi tra loro ha permesso però anche a tanti artisti che erano rimasti sospesi tra due generi di avere finalmente la meritata attenzione da parte di un pubblico ampio. Coez è esploso solo nel 2017 con Faccio un Casino ma questo album non era che il terzo capitolo di un percorso che Coez aveva già iniziato con i due dischi precedenti: dopo il primissimo Figlio di nessuno del 2009, all’interno di Non Erano Fiori e di Niente di che già c’erano ballate come Lontana da me o Jet che presentavano la struttura di un successo come La musica non c’è. Allo stesso modo la title track di Niente di Che somigliava al pezzo che ci ha tenuto compagnia per mesi e che ha dato il nome a Faccio un Casino. Coez era già quell’artista che oggi riempie le playlist di Spotify solo che, nel momento in cui erano usciti i suoi precedenti album, una larga fetta di pubblico non aveva ancora realizzato di essere interessata a quell’incrocio tra rap e pop di cui l’artista romano è senza dubbio il massimo esponente.

Coez

Un anno fa in una storia sul suo profilo Instagram il rapper sardo Salmo aveva spiegato che per lui era anacronistico continuare a imputare a un artista di essersi “venduto” o di essere diventato “commerciale”: “Il 70% degli italiani usa Spotify senza abbonamento, o ascolta musica da YouTube, in ogni caso gratis. Quindi se non c’è la vendita di quale commercio parlate?” L’osservazione di Salmo ci porta a chiederci però se, a questo punto, non sia da ripensare anche la stessa idea che abbiamo di ciò che sia pop. Se l’accessibilità, alla musica e non solo, è diventata universale la conseguenza diretta di ciò è che tutto potenzialmente può essere pop, nell’accezione più ampia del termine.

Salmo

Per alcuni media come la televisione diventa quasi impossibile muoversi in un panorama così ampio, dove qualunque cosa può potenzialmente arrivare a influenzare la cultura pop in un tempo molto più breve. La televisione italiana, una volta compreso che sarebbe stato impossibile raccontare una scena musicale tanto ampia e composita, ha preso una decisione netta: ha fatto scomparire la musica dai palinsesti. Nel nostro paese sono rimasti in onda pochissimi programmi musicali. A fare grandi numeri restano solo i talent, il Festival di Sanremo e, d’estate, una rivisitazione al risparmio di quel meraviglioso e costosissimo carrozzone che era stato il Festivalbar, destinato a cambiare nome ogni anno a seconda di quale multinazionale investa i soldi per sponsorizzarlo.

Questo nuovo panorama televisivo ha cambiato il rapporto tra artista e tv: ai tempi dei nostri genitori l’approdo in tv certificava il raggiungimento del successo su base nazionale del cantante. Oggi l’artista vede la televisione come una vetrina: questo succede ovviamente nei talent, tanto per i concorrenti quanto per i giudici, ma anche al Festival di Sanremo. In passato vincere Sanremo rappresentava il viatico alla gloria imperitura. Partecipare, o vincere, a Sanremo nel 2018 non rappresenta più l’apice della carriera di un cantante ma anzi spesso il Festival diventa un trampolino di lancio verso un successo vero che, come dice Salmo, passa in primis dallo streaming. Francesco Gabbani, che pure aveva una carriera decennale in gruppi come i Trikobalto, si è fatto conoscere davvero dal grande pubblico con la vittoria in Liguria, ma la sua partecipazione sanremese in quel momento non era stata pensata di certo come un riconoscimento della sua centralità all’interno della scena musicale italiana.

Francesco Gabbani

Anche all’interno di programmi non propriamente musicali lo spazio per i cantanti è diminuito e, paradossalmente, a essere ospiti in televisione non sono quasi mai gli artisti più seguiti o più ascoltati sulle piattaforme di streaming. Per assecondare i gusti di telespettatori in media sempre più anziani la tv generalista si concentra spesso su artisti avanti con l’età o artisticamente sul viale del tramonto. Questo porta a volte a situazioni al limite del grottesco: un paio di settimane fa Nick Luciani, uno dei tanti “biondi” dei Cugini di Campagna, è diventato il protagonista di diversi servizi di due programmi di Rai e Mediaset: Le Iene e Nemo. Alla fine di quella manciata di giorni Luciani poteva dire di aver ricevuto una maggior attenzione televisiva di quella riservata a molti dei nomi ai vertici delle classifiche.Ora che nemmeno più l’apparizione televisiva basta a certificare l’effettiva ascesa all’Olimpo delle star, la figura dell’artista mainstream non è più chiaramente riconoscibile. Nel momento in cui scompare il mainstream “puro” scompare anche il suo contrario: muore definitivamente infatti anche il mito dell’artista bohémien disinteressato al riscontro di pubblico di cui la scrittrice Zadie Smith parlava qualche anno fa in un intervento al Festival delle Letterature a Roma sul tema della creatività.

In un clima come quello attuale a fare fatica ad emergere non solo i singoli artisti ma anche e soprattutto i trend musicali. Come ricordava Albi Scotti in un articolo sul tema pubblicato sul numero 73 di Dj Mag, il problema delle nuove tendenze musicali è che non hanno basi solide. Le nuove tendenze “esplodono”, prendono un nome, prima ancora che abbiano effettivamente tratti e schemi ben precisi oltre che un bacino di utenza abbastanza ampio. Il punk, il rap, la musica reggae e persino il reggaeton hanno visto passare del tempo prima di riuscire a entrare nell’immaginario comune: questo tempo è servito a dare a questi generi una effettiva identità e delle radici forti. Oggi i migliori esponenti di scene appena affermatesi, come quella future bass, vengono immediatamente inseriti all’interno delle produzioni pop, se non altro come autori, prima ancora che il genere di cui dovrebbero essere i massimi portavoce si sviluppi in maniera chiara. Se scrivete future bass su Google troverete artisti diversissimi, da Marshmello agli ODESZA fino a Flume e Martin Garrix, perché non è facile inquadrare il genere.

Flume

La trap oggi sulla bocca di tutti ha avuto una ascesa rapidissima che potrebbe finire con la stessa velocità. In America a farsi portavoce del genere è stato un produttore nato nel 1991 come Lex Luger a inizio decennio, mentre in Italia se ne è iniziato a parlare come trend solo a fine 2014 dopo i primi successi di Sfera Ebbasta. Nello spazio di meno di un lustro la trap ha finito per essere inglobata nell’universo pop e, se in Italia può succedere già di vedere artisti mainstream “coverizzare” i successi del genere, negli States, ormai i suoni trap entrano anche in hit radiofoniche come Dark Horse di Katy Perry. Gli artisti oggi, a prescindere da quale sia il loro genere di riferimento, non propongono più rivoluzioni tout-court, ma reagiscono reinventando continuamente gli stilemi musicali e l’immaginario che certi generi si portano addosso. In un mondo dove i confini tra quello che è “di moda” e quello che dovrebbe essere “alternativo” sono labili e facilmente scavalcabili, parole come “mainstream” e “underground” esistono solo per mera convenzione ed è tempo di farcene una ragione.

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