Sono passati 40 anni da London Calling ma è ancora perfettamente attuale

Summer/Leto è un film russo uscito, non senza difficoltà, nel 2018. La pellicola racconta la storia vera di un triangolo amoroso che coinvolse due dei più importanti esponenti della scena underground rock russa di quasi quarant’anni fa. La parte più interessante di Summer è il racconto di come fosse complicato ascoltare musica occidentale nella Leningrado di inizio anni Ottanta, in cui si svolge la vicenda. Non è difficile immaginare che la maggioranza dei dischi importati di nascosto servissero ai giovani russi per immergersi in una cultura lontana e dai contorni per loro indefiniti, ma questo discorso non poteva valere per London Calling. Il terzo album dei Clash, uscito nel 1979 ed evocato più o meno direttamente nel film, funzionava a qualunque latitudine, perché il richiamo che partiva dalla capitale inglese era stato pensato per arrivare a qualunque ascoltatore del mondo, senza pericolo di essere frainteso.

I sottotesti e le vicende umane raccontate in London Calling ne fanno un manifesto politico dalla grande valenza sociale, e nel 2019 il grido di allarme di Joe Strummer e soci suona più attuale che mai: il mondo in cui avevano paura di ritrovarsi i Clash è quello in cui viviamo oggi. Quarant’anni fa la forza dirompente del  movimento punk si era già esaurita: Sid Vicious era morto e con lui era scomparsa anche la sua band, i Sex Pistols. Qualche tempo dopo, alcuni emuli come il leader dei Germs Darby Crash ne avrebbero imitato fino in fondo la parabola autodistruttiva, ma buona parte della scena punk aveva capito che era necessaria un’evoluzione e già si iniziava a parlare di post-punk, grazie a gruppi come i Joy Division. Nel 1998 persino Tim Yohannan, il fondatore della fanzine punk per eccellenza Maximum Rock&Roll, si sarebbe arreso alla fine dell’illusione in cui aveva creduto fino all’ultimo: “Nel 1982 speravo davvero che, grazie alla controcultura punk il mondo avrebbe potuto cambiare in meglio. Ora non la penso più così. Credo che sia diventato più un rifugio per persone alienate che desiderano creare qualcosa. Non credo più che possa essere un veicolo di cambiamento sociale”. I Clash avevano intuito vent’anni prima di Yohannan che il punk come era stato inteso fino ad allora era ormai una scatola vuota. Sapevano però che, integrando quell’esperienza con nuovi spunti, sarebbe potuto nascere qualcosa di nuovo.

I Clash erano d’altronde già agli esordi molto diversi da gruppi come i Sex Pistols. La filosofia di quelle band era fondata su un forte nichilismo: il pessimismo dei Sex Pistols si riassumeva in quel No Future ripetuto ossessivamente, quasi fosse uno slogan. Mancava a quella scena una visione politica che andasse oltre la sistematica distruzione. Non ci si poteva più accontentare dell’anarchia semplicistica di chi proclamava: “Non so quello che voglio ma so come ottenerlo”. In Italia nel 1979, God Save the Queen si sentiva sul finale di Fegato, fegato spappolato di Vasco Rossi e non era un caso: quella dei Pistols era una rabbia cieca che serviva solo a ingrossare fegati e esacerbare i conflitti già esistenti. I Clash sapevano che quell’approccio non avrebbe funzionato e cercarono un’altra strada.

Joe Strummer e gli altri membri della band vivevano in un’Inghilterra dove crescevano malcontento e insoddisfazione: la gente perdeva il lavoro, i giovani rinunciavano ai loro sogni, la violenza aumentava in quelle strade dove i Clash erano cresciuti e il governo dava la colpa di tutto a un nemico che veniva da fuori: gli immigrati, gli altri Paesi europei, il mondo che non voleva accettare la diversità degli inglesi. Nel 2018, la giornalista Carole Cadwalladr andrà nel paesino gallese dove praticamente tutti hanno votato per la Brexit e ritroverà lo stesso clima di quei giorni. In quella cittadina dove non c’era neanche un immigrato e la maggior parte degli edifici era stata costruita grazie ai fondi europei, tutti dicevano di voler lasciare l’Europa perché la colpa dei problemi era degli stranieri e dei “poteri forti” che operavano dall’altra parte della Manica. Secondo Lucinda Mellor, l’ultima moglie di Joe Strummer, il leader della band “credeva nell’arte come comunicazione universale, qualcosa che potesse unirci tutti”, e quindi con il resto dei Clash creò un disco il più universale possibile, nelle sonorità e nei testi. In un mondo che si stava chiudendo usciva London Calling, un album che voleva parlare a tutti senza fare differenze e che per questo si apriva con la frase: “Londra chiama le città lontane”.

La Londra di cui si parla nella canzone che dà il titolo all’album è una città confusa e impaurita che somiglia alla capitale del post Brexit: nessuno sa quale sarà il suo futuro. Potrebbe affondare, come suggeriscono i Clash, o salvarsi in extremis, come già successo in passato. La differenza rispetto a prima è che ora Londra non è più un luogo esotico e lontano, neanche per chi la guarda dall’Italia. La metropoli è più che mai al centro delle nostre vite: tutti hanno almeno un amico, un parente o un partner che ha cercato fortuna da quelle parti e un eventuale fallimento di Londra sarebbe uno choc per un’intera generazione, abituata a vedere la città del Big Ben come una delle ultime speranze e degli ultimi luoghi dove forse si può sperare in una possibilità di realizzazione. Ma il discorso non si ferma a Londra: quei versi scritti in piena Guerra Fredda, con il timore di un’imminente catastrofe nucleare, oggi sembrano riferirsi a un pianeta che abbiamo reso sempre più inospitale: “L’era glaciale sta per arrivare, il sole si sta avvicinando”. Sembrano proclami apocalittici ma in realtà sono solo frasi formulate da chi è consapevole della direzione verso cui si sta andando: un disastro naturale dalle conseguenze inimmaginabili.

In una canzone dall’impianto insolitamente pop, come la new-wave Lost in the Supermarket, la band disloca in un tempo passato l’azione per raccontare liberamente i fantasmi della società contemporanea: un brano che inizia con la rievocazione nostalgica dell’infanzia si trasforma in una aspra critica del consumismo esasperato. Il protagonista fa tutto quello che crede giusto per integrarsi: guarda i programmi in tv, fa la raccolta punti delle marche di tè e ascolta compilation di musica commerciale, ma tutti questi sforzi non gli bastano per non sentirsi alienato e perso in un mondo che è sempre più simile a un grande supermarket. In un contesto del genere, la solitudine può portare alla completa apatia che prova Ray Gange, il protagonista del film Rude Boy di cui si parla in Rudie Can’t Fail. Ray è l’archetipo di tutti quei giovani senza più speranza nel futuro e senza più ambizioni che sfogano la loro frustrazione sugli altri. La sua violenza è però solo una delle strade possibili: l’autobiografica Hateful racconta il fallimentare tentativo di sfuggire alla mancanza di prospettive rifugiandosi nella droga. Il brano è strutturato come un monologo cinematografico, sul genere di quello recitato allo specchio da De Niro in Taxi Driver dell’amico Scorsese, e fa capire quanto non basti una dipendenza per dimenticare i problemi. “Quest’anno ho perso degli amici. Quali amici?” è una domanda che ci facciamo tutti quando ci accorgiamo che per i nostri coetanei spesso il segno di massima indignazione e risentimento verso una persona si traduce nell’eliminazione del contatto sui social.

In una società in cui le relazioni sono tanto labili è facile che proliferi l’odio per il diverso. A metà anni Settanta sulle reti inglesi andavano in onda due sitcom, Till Death Us Do Part e Love the Neighbours, che raccontavano il rapporto tra inglesi e immigrati, rendendo molto chiaro il razzismo latente dell’epoca – tanto che molti episodi vengono oggi ampiamente censurati. Prodotti come questi nascevano dall’odio che si respirava in quartieri come Brixton, dove i Clash avevano partecipato alle rivolte con i tanti amici giamaicani con cui erano cresciuti. Il bassista Paul Simonon scrisse la sua prima canzone, Guns of Brixton, proprio per raccontare questo clima di guerra perenne nelle strade: un governo reazionario indossava per comodità la divisa della polizia, autorizzandola a diventare l’esecutrice materiale di una repressione violenta.

I Clash erano diversi da chi li aveva preceduti perché non si limitavano a dipingere e a criticare la situazione, ma invitavano a lavorare per migliorarla: già nella scelta delle sonorità era chiaro quanto la band credesse nella musica come strumento di aggregazione e cambiamento. London Calling mischia influenze diversissime e diventa un disco “globale” nel senso migliore del termine: c’è il reggae con cui i Clash sono cresciuti in Guns of Brixton, c’è il rock degli anni Cinquanta nella cover Brand New Cadillac, ma trovano spazio anche le suggestioni jazz di Jimmy Jazz, lo ska di Wrong ‘Em Boyo e gli echi latino-americani di Spanish Bombs. I generi sembrano fondersi, confondersi, per poi rivelare magari di possedere radici comuni, come le possiedono le culture che ne stanno alla base. Anche per questo, David Bowie dirà che i Clash: “hanno trasformato il punk in un movimento politico serio”. Pat Gilbert nel suo libro Clash. Death or glory, spiega bene perché i Clash non possono essere giudicati solo per il loro lascito musicale: “Sotto il profilo politico, l’impatto dei Clash è stato sismico. Si sono schierati con enorme entusiasmo al fianco di Rock Against Racism e della Anti-Nazi League, chiarendo così a tutti la loro posizione multiculturale. In quel periodo le questioni dell’immigrazione e del razzismo stavano dividendo pericolosamente il Paese. I Clash hanno convinto migliaia di ragazzi bianchi in età scolare che bisognava capire e ammirare la cultura altrui: questo è probabilmente uno dei più grandi obiettivi raggiunti dalla band. Indubbiamente i Clash, pur usando strumenti antiquati come i concerti dal vivo e la pubblicazione di LP, hanno politicizzato migliaia di individui. I loro dischi erano lezioni di storia culturale e sociale”.

Oggi non possiamo più ascoltare London Calling con il distacco emotivo del diciassettenne bolognese Alex D, il protagonista del romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Nell’ultimo quarto di secolo le distanze si sono accorciate e, nel bene e nel male, certi problemi sono diventati globali. Uno dei versi dell’ultimo brano dell’album recita: “Ho un lavoro ma non paga abbastanza” ed è inevitabile non riconoscersi in certe frasi. La chiamata da Londra non è più neanche un’interurbana, è arrivato il momento di rispondere.

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