“Un anno, una notte” mostra come è stato, per gente comune, sopravvivere all’attentato al Bataclan - THE VISION

Sono da poco passate le nove e quaranta di sera quando un’auto si ferma all’ingresso di una sala concerti nell’XI arrondissement di Parigi. All’interno, gli Eagles of Death Metal, una nota band rock californiana, hanno iniziato a suonare da circa un’ora davanti a centinaia di persone. Sono alla sesta canzone, Kiss the devil – Who will kiss the devil on his tongue? / I’ll love the devil! / I’ll kiss his tongue! –, mentre all’assolo di chitarra si mescola con quello che sembra il rumore di un petardo. Poi urla, il fragore che si fa riconoscibile e diventa spari, altre urla. È il 13 novembre 2015 e da alcuni minuti in sei zone diverse della città, perlopiù in centro, alcuni kamikaze si stanno facendo detonare con delle cinture esplosive o sparano con armi automatiche a chiunque vi sia intorno. Bar, ristoranti, stadi. Al Bataclan tre terroristi appartenenti all’Isis uccidono novanta persone e ne prendono centinaia in ostaggio per ore. Secondo alcune ricostruzioni, chi riuscì a sopravvivere lo fece fingendosi morto, nascondendosi sotto ai cadaveri e scappando nei bagni, dalle uscite di sicurezza e sul tetto. Dalle interviste contenute in uno speciale del New York Times per la commemorazione del primo anniversario della tragedia, emergono non solo le inaspettate brevi occasioni in cui in molti sono riusciti a fuggire, come il tempo di ricarica dell’arma, ma anche la grande umanità e gentilezza con cui le persone cercavano di consolarsi e aiutarsi a mettersi in salvo a vicenda. “Stai bene?”. “Corri”. “Niente,” racconta la giornalista che curò le interviste, “può raccontare il dolore come le parole di chi lo ha vissuto”. È lo stesso impulso da cui parte Un anno, una notte, l’ultimo film di Isaki Lacuesta, al cinema dal 10 novembre, che mostra la vita di una coppia sopravvissuta all’attentato del Bataclan. Molto, di ciò che ruota attorno al film, ha a che fare con la sopravvivenza. 

L’opera si basa, infatti, su Paz, amor y death metal, un romanzo autobiografico dello scrittore spagnolo Ramón González, presente nella sala concerti con la fidanzata e una coppia di amici. Non solo: anche il produttore del film, Ramón Campos, era a Parigi con la sua famiglia quella notte. C’è, insomma, un bisogno impellente di raccontare non ciò che è stato – di cui i social media, tramite i video condivisi permisero una prima ricostruzione, e che le analisi dei giornali sezionarono e ricomposero momento per momento – ma ciò che significa vivere dopo un trauma simile. Se a quasi sette anni di distanza gli effetti della tragedia hanno prodotto anche un’ondata di film francesi incentrati sul terrorismo, sulla sicurezza, sul conflitto culturale, poco spazio era stato finora lasciato alle ricadute di quegli eventi: come cambia il nostro corpo, la relazione con gli altri e con lo spazio, come si trasforma la sensazione di sapere chi siamo, chi vogliamo essere; quanto si fa forte, o meno, il desiderio di non essere definiti dalla violenza subìta.

Al cuore del film c’è la storia di una coppia di giovani innamorati che entra nella sala concerti credendo in un futuro condiviso e che, quando ne esce, si ritrova sfasata: è come se ciascuno dei due iniziasse a vivere a un tempo e in un luogo diverso dall’altro, pur ritrovandosi nella stessa stanza. La prima volta che incrociamo lo sguardo di Ramón (Nahuel Pérez) e Céline (Noémie Merlant) camminano per strada, in un luogo che sembra come avulso da qualunque realtà, quasi fosse una piccola bolla galleggiante, cangiante e dorata, una di quelle palle con la neve che, nel girarla, offre la speranza che per un momento tutto possa cambiare. Attorno a loro, le vie sono silenziose, i suoni ovattati. Indossano una coperta isotermica, si stringono al suo interno. È solo quando il rombo di un autobus che trasporta gli altri sopravvissuti all’attentato gli si muove accanto che l’esistenza torna a farsi cosciente. 

Quando si risvegliano nel proprio letto – o almeno Ramón, perché Céline non è riuscita a dormire che un paio d’ore – la loro intimità inizia a fratturarsi. È la prima notte, la notte che segue il giorno in cui sono stati a un passo dall’essere ammazzati. Glielo ricordano i lividi sulla pelle. Al mattino erano vivi, si erano svegliati, erano andati a lavoro, lui aveva fatto tardi, lei lo aveva aspettato ridendo, erano felici e adesso sono dei sopravvissuti, sfiniti dalla stanchezza e dal terrore. Ciò che è accaduto quella notte li ha travolti. Lui ora è ossessionato dal guardare il telegiornale, dallo scandagliare ogni pagina del web per scoprire la sorte dei terroristi, legati allo Stato islamico, coinvolti non solo negli incidenti al Bataclan ma anche in altri attentati avvenuti la stessa notte a Parigi. Prende ferie dal lavoro, dove nessuno sembra sapere cosa dirgli, poi torna, poi si licenzia. In poco tempo, il suo comportamento diventa sempre più irregolare e conflittuale, mentre su un quaderno cerca di ricostruire nei singoli dettagli quanto avvenuto nella sala concerti. È soprattutto la faccia di uno degli assassini che vorrebbe ricostruire, ce l’ha impressa nella mente, ma col passare dei giorni tutto si fa sempre più sfocato. Nel ricordare, costringe anche lei a farlo. Céline però non vuole, non ha detto a nessuno che era lì quella sera. Poi i genitori si preoccupano, alla fine va tutto bene, perché fargli prendere uno spavento per niente. Il padre l’ha chiamata mentre si nascondeva sotto a un tavolo, il corpo insanguinato di uno sconosciuto accanto, gli spari nell’altra stanza. “Papà, siamo al cinema, meglio che ci sentiamo un’altra volta o la gente si arrabbierà”. Dimenticare, a volte, aiuta a sopravvivere. Lo ripete anche a Carlos (Quim Gutiérrez) e a Lucie (Alba Guilera), che erano lì con loro quella notte, ma per cui l’elaborazione del trauma acquisisce un’altra forma ancora. Ognuno di loro, infatti, ha vissuto l’attacco e le conseguenze in modo totalmente differente, eppure i loro resoconti ci mettono di fronte alla possibilità di come questa storia potrebbe essere la storia di ciascuno di noi, un’esplorazione universale di un evento traumatico, della forma che acquistano l’identità, l’amore e la perdita.

È nei dettagli più banali di come la vita vada avanti a ogni costo che Un anno, una notte trova la sua forza più grande. Se gli eventi dell’attentato vengono parzialmente ricostruiti solo attraverso dei flashback, senza diventare mai il motore dell’azione, questo si ritrova nel modo di affrontare le più piccole cose quotidiane. Céline ha paura di uscire di notte, Ramón ha degli attacchi di panico e ogni giorno crede di morire. Una sera, pochi giorni dopo l’attacco, Céline, Ramón, Carlos e Lucie si ritrovano a casa per bere e, in terrazza, iniziano a leggere i messaggi che hanno ricevuto da amici, parenti e conoscenti: “In greco ‘crisi’ significa ‘opportunità’”; “Dio scrive dritto con righe storte” – sì, proprio Dio “scrive dritto con righe storte”; “The show must go on”, lo spettacolo deve continuare. È una scena quasi surreale, che ci interroga su come tutti noi tendiamo a reagire alla tragedia e che evidenzia come i quattro giovani si sentano disconnessi dal resto del mondo: solo loro possono sapere com’era essere lì, eppure anche loro non sono d’accordo su quanto sia accaduto, sulle sue conseguenze. Ed è proprio su questo sentimento che Ramón e Céline si scoprono sempre più divisi. D’altronde, “Consolami” è uno degli imperativi più difficili a cui adempiere quando si smette di comprendere l’altro.

Accanto a questi interrogativi, la musica è un altro dei protagonisti del film, come racconta il regista spagnolo Isaki Lacuesta, due volte vincitore al San Sebastián International Film Festival e alla sua prima prova internazionale con Un anno, una notte, presentato in anteprima alla 72esima Berlinale. “L’attacco è avvenuto in un’arena da concerto e uno degli obiettivi espliciti dei terroristi era quello di attaccare lo stile di vita rappresentato da quei brani che sono stati interrotti dalla sparatoria”. “L’obiettivo della pellicola,” spiega Lacuesta, “è quello di far sviluppare agli spettatori la capacità di rivisitare e ripensare gli eventi che hanno stravolto la vita di Ramón e Céline, perché considerati cruciali per comprendere il mondo di oggi”.

C’è un passaggio nel memoir di Emmanuel Carrère Vite che non sono la mia, in cui lo scrittore e giornalista francese cerca di rispondere a domande simili a quelle sollevate dalla pellicola – Come si racconta il dolore? Cosa ci fa più paura? Come si riceve la sofferenza degli altri? – dopo aver assistito alla morte del figlio di una coppia di amici e della sorella della sua compagna, in cui scrive che la malattia, ma più in generale “il terrificante approssimarsi della morte”, sono capaci di insegnarci chi eravamo, chi siamo, o meglio “dove siamo”. Sta proprio qui l’essenza più terrena e martellante di Un anno, una notte – così come forse dell’esistenza stessa: capire se stiamo vivendo davvero la vita che abbiamo voluto e che desideriamo.

Segui Giuseppe su The Vision