“L’ultima corvè“, con Nicholson, svela magistralmente la corruttibilità umana di fronte al potere - THE VISION

Chiunque deve aver pensato, almeno una volta, che l’età adulta sia “una scoperta della geografia”, come l’ha definita lo scrittore statunitense Darryl Ponicsan nel suo romanzo d’esordio L’ultima corvè, del 1970. Per esserne convinta, a me è bastato un trasloco. L’impressione di trovarmi alla fine di una fase della mia vita, un’epoca storica del tutto personale, e di poterla sigillare con la scelta di trasferirmi, nonostante non stessi affatto cambiando emisfero, qualche anno fa mi sembrava qualcosa di molto adulto. Soltanto dopo essermi guardata la trasposizione cinematografica del libro, diretta da Hal Ashby e uscita nel 1973, ho iniziato a interpretare questa frase in modo diverso, vedendoci qualcosa di decisamente meno banale, e a cui non avrei potuto accedere soltanto comprando un biglietto, sola andata, del treno. Il diventare adulti, oggi, mi sembra avere a che fare con altre rotte e altri atlanti, meno precisi e più difficili da tracciare, con cui tentiamo di ritrovare, nel mondo esterno, le coordinate di ciò che siamo e di ciò che sentiamo, o i valori in cui crediamo, esattamente come accade ai personaggi nel corso del film.

L’ultima corvè è un viaggio e al tempo stesso un rito di iniziazione, in cui i protagonisti, muovendosi al di sopra dei meccanismi del potere, scelgono di dare nuove regole al rapporto che li unisce. A compierlo sono due sottoufficiali e una recluta appena arruolata nella marina militare statunitense, che pur avendo ben presente il ruolo assegnato loro dall’esercito, si trovano a viverlo in contraddizione, divisi tra le infinite variabili che attraversano le relazioni umane, e che spesso ci portano a dubitare del nostro codice etico, quando non riconosciamo in chi ci circonda gli stessi principi in cui crediamo. Le evoluzioni del loro legame, infatti, sfuggono al sistema di gerarchie che avrebbe dovuto dividerli, nel momento in cui scoprono un sentimento di profonda vicinanza reciproca; ma anche al loro intimo senso di giustizia, che li porta a rivalutare più volte l’immagine che hanno di sé stessi e degli altri due.

Questo istinto soggettivo, su cui tentano di basare la loro correttezza, funziona come l’ago magnetico di una bussola, e indica anche le tappe del tragitto che Billy Somawsky (interpretato da Jack Nicholson, in una performance attoriale indimenticabile) e Richard Mulhall (Otis Young) percorrono per scortare Meadows (Randy Quaid), un ragazzo quasi maggiorenne ma tutt’altro che adulto, verso il carcere di Portsmouth, dove lo aspettano, nella più classica tradizione statunitense, otto anni di reclusione per aver rubato quaranta dollari all’asta di beneficenza della sua nave. Come spesso mi è capitato quando ho scoperto un’affinità elettiva, la conoscenza tra i personaggi non procede in linea retta, ma per contrattempi – quelli dettati dall’esterno, ma soprattutto quelli interiori, che impediscono l’incastro tra la loro personalità e il ruolo di guardia o prigioniero che si sono trovati a ricoprire. Da una parte c’è il ghigno indecifrabile di Somawsky, un misto tra la strafottenza più spinta e la rabbia soffocata dei reietti, che rende la sua figura molto più sospetta di quella del ragazzo che ha in custodia; dall’altra i dubbi di Mulhall, che non riesce più a identificare il truffatore nella sua stessa storia, dato che qualsiasi cifra di denaro non sembra paragonabile alla sentenza con cui la marina ha derubato Meadows, togliendogli otto anni di vita. Anche il presunto ladro, in realtà, è – quasi – innocente, perché “malato” di cleptomania, e viene subito scagionato, almeno agli occhi dei suoi accompagnatori, anche solo per il suo modo scomposto di stare al mondo – lo stesso che rende la realtà degli adolescenti incomprensibile a tutti gli altri, e che posso riconoscere in ciascuna foto della me diciassettenne.

Sono questi dettagli “fuori posto” a rappresentare l’elemento sovversivo, che stringendoli in un legame sempre più intimo, li porta a sostituire i comandi ricevuti dall’alto con delle scelte personali, come a voler avvicinare l’incarico che devono portare a termine al loro modo di sentire. Somawsky e Mulhall, infatti, iniziano a sciogliere sempre più spesso le manette di Meadows, azzerando le separazioni iniziali. Il tragitto verso Portsmouth sembra così rispecchiare il percorso di emancipazione che i tre vivono interiormente, accompagnandoli alla scoperta di un’America di contrasti, gravida del cortocircuito che ha coinvolto il Paese nel corso dell’intera decade successiva al Sessantotto.

Nel loro vagare tra scenari urbani consumati, quasi del tutto esausti, dopo aver perso la coincidenza con cui avrebbero dovuto percorrere il tratto di strada successivo, i protagonisti scoprono l’umanità semi sotterranea dei bordelli e delle seconde classi dei treni – ancora riservate a chi si trovava al di sotto di un netto confine sociale –, in cui riverberano i sentimenti di divisione che attraversavano gli Stati Uniti all’epoca. La sensazione è quella di essere immersi in una realtà in frantumi, dove l’habitus culturale dominante, ereditato da un passato di razzismo e proibizionismo – a cui si rifà anche il barista che si rifiuta di versare uno shot a Meadows, scatenando l’ira di Somawsky – non riesce più ad assorbire le spinte del presente, innervate dalla contestazione giovanile e dai nuclei di resistenza che aveva generato – come quello rappresentato da una comunità buddhista incontrata per caso dai protagonisti. La posizione dei marinai permette di osservare gli Stati Uniti e i loro abitanti come da una teca, con lo sguardo lontano di chi sa di appartenere a un altro pezzo di mondo – o forse a nessuno in particolare –, e quindi riesce a captare la prossimità di una soglia epocale. L’atmosfera che pervade il film, e che soltanto i protagonisti sembrano intuire, infatti, è percorsa da un presagio negativo, in cui confluiscono le premesse di una rottura dolorosa: quella che in seguito alla guerra del Vietnam avrebbe messo in discussione un mondo fatto a immagine e somiglianza dell’impero statunitense, iniziando a corrodere i pilastri del suo “sogno”.

Jack Nicholson, con la sua attitudine bullesca e il corpo tatuato come un galeotto, materializza nel personaggio di Somawsky l’impeto della controcultura, non solo come movimento storico, ma come atteggiamento eversivo, che non accetta imposizioni. La sua capacità di incarnare l’inconsueto, il non convenzionale – come ha fatto in altri film tra cui Chinatown, Professione: reporter o Qualcuno volò sul nido del cuculo – serve, in questo caso, a rappresentare una figura che vive in sé stessa una contraddizione significativa. Somawsky, infatti, è la personificazione di un agente patogeno, apparentemente inaffidabile perché capace di insidiare il sistema, come dimostra l’opera di persuasione con cui convince Mulhall – che, al contrario, prova sempre a fargli da coscienza – a liberare Meadows per la prima volta. Allo stesso tempo, però, è proprio il desiderio insopprimibile di vivere sempre un po’ al di sopra delle regole altrui, per seguire le sue, a dargli la potenza della protesta, della contestazione contro il pensiero dominante, che tutti vorremmo avere il coraggio di innescare quando non riusciamo a ritrovare i valori in cui crediamo negli altri o nel nostro contesto.

Ed è proprio a Somawsky che Meadows si affida, aggrappandosi alle dritte che questo gli dà durante la sua prima sbronza, mentre vomita in un motel, o fuori dalla stanza lercia in cui sta per fare sesso con una prostituta, o ancora, ai banconi su cui ordinano i loro sandwich al formaggio, per imparare a umiliare i camerieri quando sbagliano il suo ordine. La fiducia spontanea con cui segue i consigli dell’amico, senza mai pensare di metterli in dubbio, è la stessa che si ha nei confronti di chi vuole fare da guida, non da guardia, mettendosi sul nostro stesso piano invece di abusare del potere che gli è stato dato. Trattando Meadows “da adulto”, infatti, è come se Somawsky trovasse per lui un nuovo spazio nel mondo, più ampio, in cui può rivendicare quelli che sono i suoi desideri senza più paura di essere schiacciato da quelli degli altri. Per questo, quando il secondo insegna al primo i segnali che i marinai danno alle navi, in una delle scene più rappresentative del film, la loro parità non è attestata soltanto da un gesto che li rende simili, quasi identici, mentre sono l’uno davanti all’altro in mutande, a braccia tese. In quel momento è l’idea di condividere un codice comprensibile soltanto a chi ha fatto le stesse scelte di vita, ad annullare ogni possibile distanza.

Forse è proprio per aver preso troppo sul serio il ruolo d’adulto appena guadagnato che Meadows, alla fine, decide di tentare la fuga, tradendo così la stessa amicizia che glielo aveva conferito e tutte le sue regole. La scelta che fa per liberarsi è in realtà quella che lo imprigiona definitivamente, rendendolo davvero un truffatore, perché lo riporta alle logiche della sopraffazione che i tre avevano tenuto fuori dal loro rapporto. A partire dal suo gesto, infatti, l’iniziazione torna al principio, rivelando la nostra incapacità di sovvertire le dinamiche di potere, quando pensiamo di poterle aggirare attraverso la prevaricazione, invece di passare per i legami.

In un modo che è crudo e allo stesso tempo delicato, L’ultima corvè ripercorre le possibili traiettorie delle relazioni tra esseri umani, mostrando i riferimenti sempre provvisori con cui tentiamo di intercettarle e comprenderle. La ricerca itinerante di sé che i protagonisti si trovano a compiere, infatti, mostra la difficoltà di preservare tutti quei principi di correttezza che riteniamo irrinunciabili, senza lasciarli intaccare o deviare dagli atteggiamenti che gli altri hanno nei nostri confronti e dalle ingiustizie che possiamo subire. Il loro tentativo di ribellione, a ben vedere, dura soltanto finché riescono a rimanervi attaccati, anche quando le interferenze esterne li fanno sembrare troppo fragili. Per questo tutte le volte in cui scegliamo di continuare a far sopravvivere i nostri principi, dopo che li abbiamo visti fallire o quando ci sembra non vengano riconosciuti da quasi nessuno, possiamo considerarlo un vero e proprio gesto di resistenza, la premessa essenziale di ogni contestazione.

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