30 anni dopo “Fa' la cosa giusta” è ancora il miglior film su razzismo e violenza

A trent’anni dall’uscita, l’errore principale che si tende a fare quando si analizza Do the Right thing (Fa’ la cosa giusta) del regista newyorchese Spike Lee è ridurlo a una storia strettamente statunitense, a una riflessione sull’identità e sul razzismo che non riguarda noi europei. È come se si innescasse un meccanismo di autodifesa: ci convinciamo che quelle prime parole pronunciate nel film, quell’esortazione a “svegliarsi”, non siano dirette anche a noi. Ammettere che il quartiere di Brooklyn in cui si svolge la vicenda si sia trasformato in un’allegoria del nostro mondo significherebbe d’altronde mettere in crisi le nostre certezze e la convinzione di essere profondamente anti-razzisti, aperti nei confronti delle altre culture.

In realtà credo non esista un’altra pellicola statunitense che racconti gli italiani in maniera tanto fedele, nel bene e nel male: non viene riproposto nessun classico stereotipo, i connazionali nel film non sono né “brava gente” né mafiosi che gesticolano. Si tratta di personaggi reali, inseriti in un contesto dove la loro identità dovrebbe in teoria convivere e arricchirsi amalgamandosi con quella degli altri. È proprio un attore feticcio di Spike Lee, l’italo-americano Giancarlo Esposito, a evidenziare l’abilità del regista nel capire la psiche degli italiani e la loro maniera di relazionarsi con altri gruppi: “Mio padre è napoletano e mia madre nera. Sentii subito che Spike aveva compreso molto profondamente la mentalità degli italiani. Credo che lui capisca in particolare quanto gli italiani si sforzino di apparire sempre come brave persone, quanto siano interessati a rivestire un ruolo nella comunità”.

Quello di comunità è un concetto chiave per capire l’importanza culturale del racconto a più voci di Fa’ la cosa giusta. Dal 1989 poco è cambiato: in una società sempre più individualista, i film si focalizzano quasi sempre su un unico personaggio perché l’industria dell’intrattenimento ha intercettato il crescente disinteresse del pubblico per quelle narrazioni che spingano a una riflessione collettiva. Questa scelta ha come conseguenza che, anche temi universali come il razzismo, vengono trattati insistendo sulle implicazioni che questi problemi hanno sui singoli protagonisti, depotenziando in questo modo la portata sociale di certi argomenti. Fa’ la cosa giusta resta prezioso soprattutto perché, con la sua miriade di personaggi, ognuno con la sua specifica identità, ci ricorda che non si può affrontare tutto come se fosse una questione strettamente personale, in cui l’unico punto di vista da tenere in considerazione è il proprio.

Il film è incentrato sulla giornata vissuta da una comunità multirazziale. I suoi membri sono accomunati solo dal vivere un clima di tensione molto attuale, in cui si ha sempre la sensazione che i conflitti nascosti a fatica sotto il tappeto possano esplodere da un momento all’altro. Le incomprensioni tra i personaggi nascono dal rifiuto di ognuno di andare oltre gli stereotipi per conoscere davvero l’altro e la sua cultura. In una sequenza iconica Spike Lee ce lo mostra facendo sfogare con lo sguardo dritto in camera un rappresentante di ciascun gruppo: ogni monologo è una sequela di insulti basati su classici pregiudizi e serve a spiegare che un melting pot non è garanzia di integrazione. Anche se vivono nella stessa strada che ha per epicentro la pizzeria, i protagonisti si odiano fra loro e hanno paura che mischiandosi possano “sporcare” la propria identità. Si assiste alla creazione di fazioni divise in compartimenti stagni: l’asiatico col suo negozio dove vende qualunque cosa viene sbeffeggiato dagli stessi clienti mentre latini, neri e italiani litigano per delle foto su un muro o su chi abbia prodotto la musica migliore.

Una parziale eccezione in questo senso è il nero Mookie, interpretato dallo stesso Spike Lee, che ha una fidanzata portoricana e lavora per alcuni italiani, rappresentando una sorta di trait d’union delle diverse anime del quartiere. La frattura però rimane profonda ed è un’insanabile fonte di incertezza, come fanno intendere anche determinate scelte registiche dell’autore brooklynese. Il film è formato da una serie di sequenze quasi autonome e per questo si cambia tono e registro in maniera schizofrenica: anche all’interno della stessa scena, non si sa mai se finirà tutto in farsa o se ci sarà un epilogo drammatico dello spaccato di vita raccontato. A volte lo stile diventa quasi documentaristico: nella scena in cui i ragazzi del quartiere aprono gli idranti per garantirsi un po’ di refrigerio, Spike Lee sceglie di dare l’idea di avere una certa distanza dai soggetti inquadrati, come se si trattasse di un reportage. L’instabilità di una situazione in cui al massimo ci si sopporta ma sicuramente non ci si ama è reso anche dalle tante inquadrature sbilenche, quei dutch angle che danno sempre la sensazione che il personaggio inquadrato possa scivolare via dallo schermo senza appiglio.

L’iconico personaggio di Radio Raheem, che porta sulle nocche le parole “amore” e “odio” in una citazione del film del 1955 La Notte corre sul fiume, spiega bene in un monologo la stretta correlazione tra questi due sentimenti. L’odio vince, in contesti tanto familiari come quelli rappresentati nel film, perché spesso è più comodo. Il razzismo degli uni verso gli altri non ha nessuna base o convinzione teorica ed è quello che cerca di spiegare Spike Lee non prendendo una chiara posizione sugli eventi raccontati. Lo fa esaltando la natura grottesca di questo atteggiamento di comodo: mostra sia il nero che dice di odiare gli italiani con un trancio della loro pizza in mano, sia il razzismo in fondo simile del nostro connazionale Pino. Quest’ultimo prova a giustificare il suo odio selettivo per le persone di colore che ha intorno, separandole in maniera totalmente arbitraria dai suoi miti sportivi e musicali. Per il personaggio interpretato da John Turturro, icone nere come Prince o Magic Johnson (che qualche anno dopo combatterà anche i pregiudizi che accompagnano la sieropositività all’HIV) non sono equiparabili in nessun modo ai neri cui serve ogni giorno la pizza: le considera degne della sua ammirazione e giustifica questa incongruenza asserendo che sono “meno nere” di chi incontra nel suo microcosmo a Brooklyn.

Nessuno dei protagonisti si sente d’altro canto razzista o ammette di esserlo: ogni comportamento divisivo viene interpretato da chi lo compie come un semplice gesto di autodifesa, un atteggiamento necessario per salvaguardare la propria identità culturale. Le battutine a sfondo razziale che Sal scambia reciprocamente con Mookie o il suo cocciuto rifiuto a mettere la foto di un nero sul muro sono comportamenti che il proprietario della pizzeria non interpreta come possibili spie di un proprio sopito pregiudizio verso chi è diverso. Certe azioni vengono sottovalutate all’inizio anche dallo stesso spettatore: il personaggio interpretato da Danny Aiello d’altronde afferma di considerare Mookie un figlio e tratta sua sorella con smodato affetto, sembra legato al quartiere e ai suoi abitanti. Nessuno si aspetterebbe da lui una reazione violenta. Eppure sul finale anche Sal esplode e perde il controllo, dimostrandosi diverso da ciò che era convinto di essere: tramite questo sfogo, Lee forza il pubblico a confrontarsi con quei pregiudizi e quelle paure che si nascondono nel profondo di ognuno di noi, anche di chi è sicuro di essere profondamente anti razzista.

Il gesto che certifica quanto Sal abbia completamente perso la testa ha un forte valore simbolico: nel momento in cui usa la mazza da baseball, utilizzata in molte aggressioni ai neri di quegli anni, per distruggere il voluminoso stereo di Radio Raheem, Sal sta attentando alla sua stessa identità. Quella radio che il personaggio di Bill Nunn usa per ascoltare a ripetizione Fight the Power, un brano rap contro l’oppressione dei neri di un gruppo politicamente in prima linea come i Public Enemy, serve infatti a Radio Raheem per connotarsi e riaffermare con orgoglio quale sia la cultura a cui appartiene e in cui crede. Non è un caso che, dopo aver considerato Sal responsabile della sua morte, i neri si vendichino del pizzaiolo riducendo in macerie il suo locale: la pizzeria è infatti per Sal quello che la radio è per Radio Raheem, il simbolo delle sue radici e di tutto quello che lo rappresenta.

In un mondo tanto superficiale e in crisi di valori, dividersi in gruppi e farsi la guerra tra poveri sembra inevitabile. La polizia si trova così a fare da arbitro della contesa, pestando in maniera disincantata a destra e a manca, incapace di ristabilire l’ordine rinunciando alla violenza spiccia. Spike Lee non si ferma all’immagine forte della vetrina rotta, come in un classico film sulla razza perché non vuole caricare di significati positivi un gesto che resta deprecabile. Non ci sono buoni o cattivi. Non è importante stabilire chi effettivamente “faccia la cosa giusta” ma piuttosto condannare una società che pensa di deciderlo in maniera barbara, arrivando a dimenticare la propria umanità e calpestando la dignità altrui.

Il regista mostra nel tragico epilogo quanto avesse ragione Martin Luther King quando sosteneva che la strada da percorrere fosse quella della non violenza e del dialogo. Non è un caso che il film si chiuda con una citazione del reverendo, affiancata da un’opinione antitetica di Malcom X: “La violenza,” dice King, “è un modo poco pratico e immorale di avere giustizia. Non funziona perché è una spirale discendente che porta tutti all’annientamento. La vecchia legge dell’occhio per occhio dente per dente lascia tutti ciechi. È immorale perché punta a umiliare l’opponente piuttosto che a capirlo. La violenza è immorale perché spinge all’odio piuttosto che all’amore. Distrugge le comunità e rende impossibile la fratellanza. Lascia in eredità alla società il monologo e non il dialogo. La violenza finisce per distruggere anche se stessa. Crea amarezza nei sopravvissuti e brutalità nei distruttori”.

La violenza lascia dietro di sé il nulla, ancora di più in tempi in cui l’indignazione e la voglia di capire durano il tempo di un post sui social. Il giorno dopo i tragici fatti della nottata la vita ricomincia sempre uguale: la società di oggi si è abituata a dimenticare tutto e tutti in fretta, eroi e vinti. La domanda che si fa alla fine il deejay e coscienza del quartiere Samuel L. Jackson, “Impareremo mai a vivere insieme?”, rimane nell’aria, dopo trent’anni ancora senza risposta.

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