Quando i talent show sono approdati in Italia, nel primo decennio del Duemila, le reazioni sono state contrapposte. Da un lato un grande entusiasmo per la novità di format come X Factor o Amici di Maria De Filippi, tradotto in ascolti sempre alti e molta visibilità per i concorrenti, dall’altro una certa diffidenza sia da parte della stampa che da quella di un pubblico musicale più esigente. Era infatti normale associare una certa aura dozzinale a chi veniva da un programma televisivo, una tendenza che con il tempo si è completamente ribaltata. Dai Maneskin a Marco Mengoni fino a Mahmood, personaggi di spicco del pop italiano che hanno abbondantemente superato i confini nazionali grazie anche alla rinascita di manifestazioni come l’Eurovision, la musica nata in televisione non è più solo di massa. O meglio, non è più solo commerciale, ma ha anche delle sue nicchie sperimentali e non per forza legate agli stilemi classici delle trasmissioni incentrate sulla ricerca di talenti musicali. In questo panorama attuale molto roseo per il consumo di musica italiana, dove le classifiche vengono dominate da artisti nostrani che spesso hanno un passato nei talent, spiccare all’interno della grande offerta musicale contemporanea, spinta soprattutto dai nuovi mezzi di fruizione, diventa più complesso rispetto a qualche decennio fa, proprio perché la possibilità si sono moltiplicate e le etichette di genere non sono più rigide e a compartimenti stagni come un tempo.
Ne ho parlato con Alessandro De Santis e Mario Francese, in arte I Santi Francesi, che nonostante l’età hanno già diverse esperienze nel campo della musica in televisione, sia come vincitori dell’ultima edizione di X Factor che per esperienze pregresse. Ci siamo incontrati in occasione della collaborazione tra THE VISION e PULZE per la campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori. “I see your true colors shining through, so don’t be afraid to let them show your true colors”, cantava Cindy Lauper nel suo brano “True Colors”: mostrare i propri colori vuol dire permettere a chi è intorno a noi di scoprire chi siamo davvero. L’obiettivo di Pulze è appunto quello di usare i colori come mezzo per esprimere non solo i propri gusti ma anche le proprie emozioni.
Ciao Alessandro e Mario, oggi siamo qui per indagare l’interconnessione tra colori, emozioni e musica. Ogni artista parte dalle proprie emozioni come fonte di ispirazione, e ad ognuna di esse si potrebbe probabilmente associare un colore. Se poteste abbinare un colore alla vostra musica, quale sarebbe?
A: Direi blu elettrico, quello un po’ fastidioso, vibrante. Quasi tutte le copertine delle nostre ultime canzoni hanno dentro questo colore: è un legame che è nato un po’ di anni fa, quando ci siamo imbattuti nella definizione di blue screen of death, un concetto che si usa in informatica. Quando sul computer compare una schermata blu vuol dire che c’è un errore irreparabile, e noi negli anni abbiamo associato molto spesso la musica sia a una cosa positiva che a un problema grave, una “condanna”.
Prendiamo tre colori e tre emozioni: il blu, calma ed equilibrio; il giallo, energia e solarità; e amber, intimità e calore. Quale canzone abbinereste a ciascuna?
A: Al blu associo la canzone “Misread” dei Kings of Convenience, perché è contenuta nell’album Riot on Empty Street, con il quale sono cresciuto; mi dà calma a priori, così come Paolo Nutini e altri artisti che ascoltavo da piccolo. Giallo invece per me è la nostra canzone “Buttami giù”, molto bella da suonare dal vivo, uno dei miei pezzi preferiti. Amber invece lo collego a “Vasco da Gama” di Colapesce, è intima ma anche sensuale e calda.
M: Blu, di calma ed equilibrio, per me è la nostra canzone “Pagliaccio”, ad oggi è sempre una di quelle che mi emozionano di più suonare. Con il giallo mi viene in mente “The Hype” dei Twenty One Pilots, li ascolto sempre: ha i suoni energetici del rock pur essendo diverso dai suoni classici che caratterizzano il genere. Amber per me invece è “Non è così male”, il nostro singolo di X Factor, una canzone che parla di un tema molto personale.
Pensate che il vostro genere musicale sia in grado di trasmettere tutte le sfumature delle vostre emozioni?
A: Non credo dipenda dal genere musicale. Il nostro ha le potenzialità per esprimere tutto, ma alla fine siamo noi ad esprimerci. Sta sempre all’artista tradurre tutto quello che ha in testa.
M: Il fatto che noi spazziamo abbastanza con i generi probabilmente ci aiuta in questo senso, non ci fermiamo mai a un solo mood.
Quanto contano le contaminazioni da altri generi nel vostro processo creativo? Ascoltate musica diversa da quella che poi fate?
A: Noi ascoltiamo di tutto, la mia playlist di Spotify sembra quella di un pazzo. Si va da Ron al death metal. Io ascolto prevalentemente musica che poi non suono più: musicalmente, vengo fuori dal rock e dal metal. Ultimamente mi trovo spesso a risentire band che mi hanno formato come gli Scorpions o i Kiss, anche se ora suono tutt’altro.
Quando vi siete conosciuti avevate gusti musicali diversi o eravate già allineati con i vostri punti di riferimento? Che colore aveva la vostra vita in quel momento?
M: Noi veniamo da mondi musicali diversi, Alessandro molto più metal, appunto, io invece più rock progressivo degli anni Settanta. Ci siamo conosciuti in studio e quello che facciamo ora non è nemmeno una sintesi di tutto quello che ascoltiamo, è qualcosa di diverso, va oltre i riferimenti che abbiamo immagazzinato entrambi. Ci siamo allineati col tempo. Ti direi che all’epoca, quando io e Alessandro ci siamo incontrati, il mio colore era l’ocra.
A: Io invece direi che era verde acerbo, come un limone non ancora maturo.
Ivrea, la città dove vi siete conosciuti, è una città con una scena musicale elettronica importante, basti pensare a Cosmo e a Ivreatronic. Vi sentite in continuità con questa tradizione o siete qualcosa a parte?
A: Non parlerei di continuità, però sì, c’è un filo che ci lega. Abbiamo passato un’adolescenza a Ivrea nel periodo in cui Cosmo è esploso. Credo tutt’ora che insieme a I Cani sia uno degli artisti italiani migliori degli ultimi vent’anni. Sicuramente ci sono tante cose di elettronica in quello che facciamo, abbiamo preso molta ispirazione nonostante siamo su un binario diverso.
Come si gestisce l’impulso creativo quando si è in due? Quali momenti della giornata sono la maggiore fonte di ispirazione?
M: Forse, quando l’ispirazione diventa un meccanismo non ha più senso. Le cose accadono a caso, ed è bello così. La sera è il momento migliore, specialmente quando vivevamo insieme e ci ritrovavamo a casa dopo aver lavorato.
A: È vero, la sera era il momento più bello quando vivevamo insieme, anche se secondo me la migliore ispirazione è quella che arriva di mattina e poi passi tutto il giorno a lavorare a un pezzo.
Vi siete mai sentiti schiacciati dal fatto di essere in televisione, con le sue regole e i suoi limiti?
A: Quando eravamo un po’ più piccoli, durante la nostra prima esperienza in televisione, ci siamo sentiti più in difficoltà. Proprio perché eravamo molto giovani, non sapevamo cosa stavamo andando a fare, ma quell’esperienza è stata poi fondamentale per quella successiva a X Factor. Lì ci siamo divertiti veramente tanto, siamo stati trattati bene da tutti.
M: Le regole della televisione alla fine servono per i suoi ritmi allucinanti, lo sapevamo già che era così e ha senso che ci siano perché funzioni. Forse l’unica cosa davvero difficile è stata dover far entrare una canzone nei tempi televisivi, con il limite di un minuto e mezzo: quello sì che è una sfida, ma è anche un esercizio interessante.
Da vincitori di X Factor ma anche da giovani, secondo voi la musica oggi ha lo spazio che si merita nella nostra televisione?
A: Di spazio ne ha, però potrebbero cambiare alcune cose. Potrebbe diventare più giovane, più contaminata, ma devo dire che in Italia lo spazio non manca. Abbiamo un sacco di manifestazioni, d’estate ogni sera c’è un festival diverso in tv. Credo che il fatto di doversi svecchiare un po’ al massimo sia un problema del mezzo di comunicazione in sé e del suo pubblico, non della musica.
Da sempre, il tema dei giovani scansafatiche è al centro dei salotti e della stampa. Voi avete sin da molto piccoli dimostrato una certa determinazione, vi sembra che i vostri coetanei siano davvero così addormentati come li descrive il mondo degli adulti?
A: Non è questione di essere addormentati, ma conta molto la famiglia in cui sei cresciuto, la scuola che hai frequentato e tutto quello che ti è successo intorno fino ai tuoi quindici o sedici anni circa. Noi abbiamo avuto il culo di sapere già da piccolissimi – io a dodici anni per esempio – cosa volevamo fare: sono salito su un palco e ho detto bene, questo è quello che voglio fare di lavoro. Da lì poi è tutto in discesa, mentre spesso mi capita di sentire persone che non sanno cosa fare nella loro vita. E se a venticinque o ventisei anni non hai ancora trovato la cosa che ti piace fare, l'”eudaimonia”, come diceva Galimberti, è un problema di amore per sé stessi. In questo credo che la scuola giochi un ruolo fondamentale nel modo in cui cerca di omologarci, quando siamo in realtà tutti molto diversi.
M: Io mi sono sempre riempito la giornata di cose da fare e al contrario sono arrivato al punto di dovermi fermare, per cui sì, percepisco un’esagerazione insensata nel racconto dei giovani da questo punto di vista. Poi certo, il periodo che viviamo non aiuta, non essendoci molto lavoro in generale è normale che un po’ di sconforto generazionale ci sia.
Un tema centrale dell’industria musicale contemporanea è la produttività che può diventare un peso per gli artisti. Come gestite voi la pressione? Avete mai sentito addosso la cosiddetta “Fear Of Missing Out”?
A: Io non credo di aver mai percepito questa pressione, anzi metterei una “N” in questa sigla, Need Of Missing Out. La sento però fortemente nel mondo attorno a me, nella paura di non essere sempre collegati, di perdersi le cose. Per quanto riguarda la produttività invece, a livello musicale non abbiamo ancora avuto la “fortuna” di sentire il peso della pressione addosso, non abbiamo mai dovuto pubblicare più del dovuto. Sicuramente però oggi c’è un ricambio più veloce, la musica dura molto meno. Dipende dal target e dal tipo di contenuti: ci sono pezzi che vengono fuori da sessioni che servono palesemente per durare poco e poi sparire.
Secondo voi Internet ha snaturato la creatività imponendo una performatività troppo veloce ai musicisti?
A: Internet non impone nulla, ma c’è un mondo intorno a noi che ci condiziona. Forse io non sento questa fretta anche perché non voglio sentirla. Più che la produttività, Internet sta influenzando tutto ciò che non ha a che fare con la creatività: ci chiedono di sapere quando andiamo in bagno, cosa mangiamo. Questa è forse la parte che mi piace meno, preferirei si desse più importanza alle canzoni che a ciò che riguarda la mia vita privata.
M: Nel nostro caso, nessuno ci obbliga a pubblicare un singolo ogni settimana e a volte, come ti dicevo prima, è proprio quando non cerchi le cose che accadono. Senza l’ansia di produrre, è importante cogliere l’attimo più che cercarlo.
Qual è secondo voi lo stato attuale della musica strumentale in Italia? Pensate stia vivendo un periodo di rinascita rispetto all’ultimo decennio?
A: Non so se è in risalita questa tendenza alla riscoperta degli strumenti musicali ma sicuramente negli ultimi anni c’era stato un calo, le band erano sparite. Credo che l’interesse per la musica suonata non sia dovuto agli strumenti ma alle canzoni: quando un pezzo funziona e l’atmosfera è giusta puoi suonarlo col banjo o con le mani, l’importante è che hai qualcosa da dire. Quando ero piccolo, per esempio, vedevo l’idolo di una band che mi piaceva e mi veniva magari di suonare la chitarra, la batteria; negli ultimi anni invece mi è successo spesso di incontrare ragazzi molto giovani che già si facevano regalare programmi per produrre musica sul computer, che è una cosa molto diversa dal suonare. È bene che esistano entrambe le possibilità, ma bisogna tenere a mente che sono due cose diverse.
M: Quando sai usare bene gli accordi ti escono anche idee migliori. Poi la contaminazione tra elettronico e strumentale, come dicevamo prima, è la prova che la musica è in continua evoluzione, non si torna mai indietro. Al massimo si pescano cose dal passato, quello sicuramente, non torneremo mai agli anni Settanta ma magari può tornare un modo di suonare, un’atmosfera di quel periodo, ed è figo.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con PULZE, il pratico dispositivo di heated tobacco realizzato da Imperial Brands, che scalda il tabacco senza bruciarlo, in occasione della campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori.