Con “Rimini”, Seidl mostra la forza che ha il passato quando cerca di resistere nonostante tutto - THE VISION

C’è una canzone di De André, che sicuramente conoscerete, intitolata “Rimini” e che mi cantava sempre un mio ex musicista quando aveva imparato che in Romagna c’ero cresciuta. Inizia così: “Teresa ha gli occhi secchi / guarda verso il mare / per lei figlia di pirati / penso che sia normale. / Teresa parla poco / ha labbra screpolate / mi indica un amore perso / a Rimini d’estate”. Inutile dire che se hai passato tutte le estati della tua vita in riviera avrai almeno due grandi amori, per non dire tre o quattro da piangere su quelle larghe spiagge che col freddo si svuotano. La più grande caratteristica di quel tratto di Adriatico è proprio la mancanza di caratteristiche, che lo rende una sorta di astrazione metafisica, incapace di accogliere le qualità necessarie per farsi scenario di qualsiasi grande o speciale avventura.

Nonostante le luci, le discoteche e i locali, la riviera romagnola – e Rimini in particolar modo, come suo emblema – “tra i gelati e le bandiere”, porta con sé un’ostinata tristezza, una malinconia vischiosa, la stessa che De André ha saputo raccontare e che ha subito riconosciuto anche un altro grande narratore dello squallore straniante e patetico di certe realtà ai margini, il regista austriaco Ulrich Seidl, che ci ha ambientato la sua prima opera di fiction, scritta con la sua compagna Veronika Franz, Rimini – presentata in concorso a Berlinale e uscita nelle sale italiane il 26 agosto.

Il film si apre con una schiera di anziani tedeschi con deambulatore che si sforzano di cantare in coro una vecchia canzone: “So ein Tag, so wunderschön wie Heute / So ein Tag, der dürfte nie vergehn / So ein Tag, auf den man sich so freute / Und wer weiß, wann wir uns wiedersehn. / […] Ach wie bald entschwinden schöne Stunden” (Una giornata così, piacevole come oggi. / Una giornata così non dovrebbe mai finire. / Una giornata così l’abbiamo sognata a lungo. / E chissà quando ci rivedremo. […] / Ah, come passano veloci queste ore”). Tra questi vecchini c’è il padre di Richie Bravo – cantante d’hotel protagonista del film, interpretato da Michael Thomas, attore molto amato da Seidl – che poco dopo cerca di scappare dal piano della casa di riposo in cui si trova, maledicendo chi ha chiuso a chiave tutte le porte.

Il personaggio di Richie Bravo risale a quindici anni fa, all’epoca in cui Seidl stava girando con Thomas Import/Export e durante le riprese notò che l’attore era anche un cantante di talento. I film di Seidl hanno sempre processi di preparazione molto lunghi e meticolose esplorazioni delle location. Seidl voleva fare da tempo un film ambientato sull’Adriatico, con il mare d’inverno, lo stesso cantato così bene da Loredana Bertè nell’omonima canzone scritta da Enrico Ruggeri e Luigi Schiavone. Lo attraeva filmare gli edifici turistici chiusi, i bar disseminati sulla spiaggia, come in letargo, la città in bassa stagione, dimessa, perfetta per la storia sordida che aveva in mente. Per Seidl, d’altronde, la sceneggiatura è in costante dialogo coi luoghi in cui si svolge, i sopralluoghi, poi, possono ispirare a loro volta lo sviluppo della trama – in questa occasione è successo in particolar modo con le discoteche. Ci sono poi gli incidenti fortunati, quando dalla porta socchiusa entra l’inatteso: a Rimini, mentre veniva girato il film, ha nevicato, cosa che non accadeva da decenni e che ha contribuito ad arricchire simbolicamente la trama, con Richie Bravo che danza sulla neve caduta sulla terrazza dell’hotel.

All’inizio del film, Richie torna in Austria per seppellire la madre insieme al padre e al fratello Ewald – interpretati rispettivamente da Hans-Michael Rehberg e da Georg Friedrich – che lo accoglie dicendo “Com’è tranquillo qui, eh”; e lui risponde laconico: “Com’è vuoto”. L’atmosfera è quella della provincia austriaca, raccontata in tanti romanzi di Thomas Bernhard e dallo stesso Seidl, in particolare nel documentario Im Keller, che in italiano potrebbe essere tradotto come “la taverna”, ma che in Austria,  in mancanza di un vero e proprio seminterrato, a volte viene allestita anche nei garage o nelle cantine. I due fratelli bevono la grappa distillata dalla mamma appena mancata e dicono che i suoi baci della buonanotte erano la cosa più bella al mondo. Si capisce subito che Richie è un sentimentale, uno dei pochi, ultimi, veri romantici. Nel seminterrato è pieno di roba, di ricordi, a cui i fratelli sparano con un fucile a pallini. Fanno una gara di corsa sui tricicli di quando erano bambini. Richie, poi, va a dormire nella sua cameretta e il giorno dopo vanno a prendere il padre con l’Alzheimer per il funerale.

Seidl ha ritmo nella lentezza, perché nelle sue inquadrature ci sono sempre simboli discreti, segnali, indizi, come nei dialoghi che seleziona. La madre non appare mai nel film, eppure il suo ricordo vive profondamente nei figli e in particolare in Richie, a cui ha fatto amare la musica sentimentale. Per lei non resta che la gratitudine per esserci stata ed essersi sempre presa cura di loro, e una canzone, la sua preferita, “Merci chéri” di Udo Jürgens, che vinse l’Eurovision nel 1966. Richie inizia a cantarla alla fine della funzione: “Merci, merci, merci für die Stunden, chéri” (Grazie per le ore, cara – quasi una versione austriaca di “Days”, dei Kinks, uscita due anni dopo). E a quel punto il padre, anche se in preda alla demenza, quando lo sente cantare improvvisamente lo riconosce e lo chiama per nome, un ultima volta. “Adieu… Unser Traum fliegt dahin” (“Addio, il nostro sogno vola via”). Poi Richie torna a Rimini, dove vive in una villetta che un tempo era stata bella, ma oggi cade a pezzi.

Richie Bravo canta lo Schlager, un tipo di ballata sentimentale diffusa in Europa Centrale, e il suo cavallo di battaglia è la canzone “Emilia”. Seidl ebbe modo di scoprire questo genere fin da bambino, quando sua madre, così come le donne delle pulizie, lo ascoltavano alla radio, proprio come Richie, che canta queste canzoni con totale onestà, trasporto e convinzione. Richie vive a pieno le emozioni che interpreta e il pubblico lo sente, parla di desideri insoddisfatti e delle delusioni che anche i suoi spettatori e spettatrici vivono o hanno vissuto. Ha una serie di relazioni con le sue non più giovani fan e i rapporti che intrattiene, spesso dopo i suoi spettacoli, vengono rappresentati con le tipiche inquadrature frontali e stranianti di Seidl, che danno una sfumatura grottesca alla realtà rappresentata. Riceve anche una visita da sua figlia Tessa, interpretata da Tess Göttlicher, che gli chiede parte del denaro che lui in teoria le deve, avendo lasciato lei e sua madre. Ma Richie non ha soldi, tira avanti con quel lavoro anche se non gli rende niente. È un vinto, o un fallito, a seconda dei punti di vista. La sua vita è un disastro, eppure non si arrende, spera di tornare di nuovo alla ribalta, al successo, anche se sembra a dir poco improbabile.

Fin dalle prime scene è chiaro come Rimini racconti la fine dolorosa di un’epoca. Stabilimenti balneari immersi nella nebbia; scivoli d’acqua esposti alle intemperie, come intestini rovesciati; grigio; immigrati seduti in attesa di non si sa cosa, forse che passi la giornata; hotel semichiusi, con le sedie ammonticchiate nella hall. Richie Bravo ricorda con tinte più fosche un grande personaggio – reale – della riviera romagnola, il cantante Giacomo Gherardelli, che per decenni ha intrattenuto i villeggianti con cover dei brani che hanno fatto la storia della musica italiana popolare, dagli anni Sessanta in poi, da Albano a Little Tony, passando dai Pooh ai Nomadi, così come con barzellette in dialetto romagnolo. Una delle sue tappe fisse era in una pensione poco distante da dove andavamo noi in vacanza, a Lido di Savio (non troppo lontano da Rimini), e con le mie amiche ci nascondevamo dietro ai cespugli per spiarlo mentre si preparava nella sua roulotte, per poi uscire vestito con pantaloni e giacca di pelle nera con le frange, stivali, e capelli tinti di nero corvino. Per questo è bastato vedere il trailer di Rimini per capire di che mondo Seidl stesse parlando, un mondo che pensavo nessuno nel 2022 si sarebbe mai preso la briga di raccontare sul grande schermo. E non mi ha stupita che proprio questo regista si fosse imbarcato in questa scomoda impresa. Inizialmente il film doveva chiamarsi Wicked Games e raccontare la storia di due fratelli, uno “scappato” a Rimini e uno in Romania, poi Seidl si è reso conto che da quella storia dovevano svilupparsi due film separati, uno per ciascun fratello, così ha girato Rimini e Sparta, in concorso al SSIFF, l’International Film Festival di San Sebastian, che compongono un vero e proprio dittico.

In Rimini, Seidl mostra la città durante l’inverno, con bus pieni di pensionati, spiagge deserte e nebbia, la stessa che occupava un ruolo fondamentale nei film di Federico Fellini, ma che qui assume tratti simbolici molto diversi, pur emergendo dalle stesse terre e sabbie, a riprova che qualcosa si sta – o si è già – irrimediabilmente spezzando, sta scomparendo, sempre più al largo. Il film è girato con lenti widescreen in CinemaScope e lunghezze focali ultra sottili, che mostrano un ambiente architettonico che decade, dimenticato per nove mesi all’anno, di cui nessuno si cura. Le pareti sporche o sbrecciate, i soffitti prefabbricati, le luci al neon, il cemento scheggiato. Rimini è il contraltare di Amarcord. Non c’è alcuna catarsi in questo film, solo il dolore sordo del disfacimento, del passato che in qualche modo trova il modo di resistere, pur sapendo che verrà spazzato via. Seidl mette in scena, osserva e filma lo squallore dell’esistenza in maniera spassionata, senza trasporto o emozione. Il mondo si sfalda sotto il peso del tempo che passa, dei figli che crescono, dei genitori che invecchiano e si avvicinano sempre di più alla morte, dei valori che cambiano o svaniscono. Il desiderio resta vivo, ma il corpo che abita e gli ambienti in cui si consuma si putrefanno. Seidl lacera la realtà e ci mette di fronte – quasi in maniera oscena – a un non-detto che non abbiamo la forza di esprimere.

Mi sono chiesta spesso cosa portasse tante persone sull’Adriatico piuttosto che in altri lidi, più scenografici, più paesaggisticamente “belli” se vogliamo, ma forse è proprio questo mescolio tra vita e morte, sogno e disfatta, fascino e repulsione, allegria e malinconia, bolgia e abbandono a far nascere questa attrazione particolare, desiderio e rimpianto. Rimini, la provincia Austriaca e forse tutte le provincie del mondo – che a ben vedere per certi aspetti si somigliano – guardano l’orizzonte verso il mare, speranzose, e al tempo stesso affondano le radici nella terra su cui crescono, radici che fanno soffrire se estirpate per poter raggiungere un’idea o un’ideale. Ed è lì che affonda il loro lirismo, nonostante tutto, nella loro insanabile ferita nata dallo strappo necessario per salvarsi, essere felici forse, rincorrere una promessa che spesso viene disattesa. “E due errori ho commesso / due errori di saggezza / abortire l’America / e poi guardarla con dolcezza / ma voi che siete uomini / sotto il vento e le vele / non regalate terre promesse / a chi non le mantiene”.

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