Queer Eye è il programma più importante in TV ora

Uomo di quasi sessant’anni, Tom, passa la maggior parte del proprio tempo da solo, partecipando a raduni di auto d’epoca e bevendo una versione del Margarita di sua invenzione. Ha il Lupus e il cuore infranto: nonostante il divorzio dalla ex-moglie Abbie, è ancora convinto che lei sia l’amore della sua vita. Imparerà che non è vero che “La bruttezza non si può sistemare,” e troverà il coraggio di invitare nuovamente la donna di cui è innamorato a incontrarlo per un appuntamento. La trasformazione si deve ai Fantastici Cinque, un gruppo di ragazzi dichiaratamente omosessuali composto da Antoni Porowski, Tan France, Karamo Brown, Bobby Berk e Jonathan Van Ness, il cui compito è quello di rivoluzionare la vita del protagonista di turno, candidato da amici o parenti, agendo ognuno nel suo campo di esperienza. Rispettivamente: il cibo, l’abbigliamento, la cultura, il design della propria abitazione e il grooming – con cui si intende la cura di pelle, barba e capelli per l’uomo. Sono loro i protagonisti Queer Eye, il reboot prodotto quest’anno da Netflix della real fiction Queer Eye For The Straight Guy, andato in onda dal 2003 al 2007.

Partendo dalla concezione per cui tutti i gay sarebbero fatine magiche pronte a rivoluzionarvi la vita con i loro consigli di stile, Queer Eye agisce a un livello più profondo, trasformando lo stereotipo da fine a strumento con cui iniziare un confronto anche con gli oppositori più convinti. Ciò avviene, al di là di ogni etichetta o pregiudizio, dando un’individualità ben precisa – voce, corpo, debolezze – a quello che fino a poco prima era un nemico dai contorni indistinti, con un nome generico. Non a caso il programma è girato in Georgia, nel Sud-Est degli Stati Uniti, in cui nel 2010 è stata approvata una legge che riconosceva il matrimonio come la sola unione tra uomo e donna, con il 76% dei consensi. È l’immagine dell’America più dura, quella che vota a favore di Trump e costituita da un’economia in cui, anche nelle città in cui si registra una crescita dell’occupazione, il reddito famigliare medio non mostra progressi positivi.

La struttura di ogni episodio è sempre la stessa: i Fantastici Cinque raggiungono la casa del protagonista, ne studiano l’attuale situazione e iniziano a prenderne possesso. Tan gli insegna a scegliere abiti che lo valorizzino, senza stravolgerne lo stile o la persona, ma anzi, tenendo bene a mente anche i gusti personali; Antoni gli mostra come preparare piatti semplici o recuperare le antiche ricette di famiglia tradizionali, utili per promuovere il senso d’appartenenza a una o più comunità; Bobby gli riarreda la casa, Jonathan gli taglia barba e capelli per esaltarne il viso e crea per lui una beauty routine personalizzata, di solito non più lunga di cinque minuti; Karamo forza, attraverso attività ludiche o sportive, il superamento dei suoi confini. Poi, di solito, si piange.

Se si volessero delineare uno a uno i temi trattati dal programma, la lista sarebbe infinita. In un episodio emerge il rapporto tra Chiesa e omosessualità, quando Bobby si rifiuta di oltrepassare l’ingresso di una cappella e racconta di come da bambino fosse molto religioso, ma poi, crescendo, sia stato quasi costretto ad abbandonare la comunità perché non si sentiva accettato e anzi, percepiva un giudizio negativo nei confronti del suo essere gay. C’è quello in cui Karamo, l’unico ragazzo di colore del gruppo, si sente in pericolo mentre è alla guida e un poliziotto bianco gli intima di fermarsi, mostrare la patente e scendere dal veicolo. Dal suo volto e dalle sue parole, emerge tutta la paura di essere un’altra vittima del reiterato abuso di potere delle forze dell’ordine. Si scoprirà che era tutto uno scherzo.

I ragazzi non arrivano per imporre le proprie scelte, ma insegnano e imparano a loro volta, in un mutuo dare e ricevere basato sull’ascolto. Si mettono a disposizione l’uno dell’altro, lasciando che il punto di vista fornito allo spettatore non sia univoco, ma si modelli in base al confronto. Queer Eye affronta anche il momento delicato della resa, il periodo buio della vita che di solito segue un fallimento importante, quando alzandosi al mattino non ci si sente mai abbastanza, e tutto quello che si fa non è mai sufficiente, fino a convincersi che non ci si può meritare altro. Ci si costruisce un guscio fatto convinzioni, piccole bugie, abitudini tossiche, e poi ce lo si porta dietro: con amici e familiari, sul posto di lavoro, guardandosi allo specchio. Uscirne da soli non è facile, ma le storie di ogni episodio ci insegnano che non si tratta di un cambiamento repentino e netto, bensì di un mutamento che richiede piccoli passi per portarsi poco alla volta fuori dalla comfort zone che ciascuno ha creato per sé, cominciando a prendersi cura di se stessi.

D’altronde, a questo mondo non viviamo da soli e la presenza nelle nostre vite di persone a cui vogliamo bene dovrebbe essere uno degli stimoli più forti – oltre all’amor proprio, che spesso purtroppo si perde – per dare sempre il meglio di sé. Nella loro battaglia per l’accettazione e l’inclusione, Tan, Jonathan, Bobby, Antoni e Karamo, scardinando uno degli “standard” più nocivi, soprattutto oggi: quello del maschio alpha, bianco, etero e razzista. Con il proprio lavoro, i cinque mostrano che anche gli uomini non devono necessariamente corrispondere a un canone predefinito di mascolinità per poter essere definiti più uomini, anzi: ognuno lo è a proprio modo, semplicemente perché prima di essere uomo o donna, etero o gay, siamo tutti persone.

Se facciamo di continuo una cosa, finirà per sembrarci normale: così, se continuiamo a lasciare che al potere abbiano accesso solo gli uomini, ci sembrerà che solo gli uomini vincenti abbiano diritto e capacità di ottenerlo. Non le donne e non determinati tipi di uomini. Si insegna alle donne a non essere quello che viene elogiato negli uomini, ma ora, a differenza del passato, quando non serve più essere “il sesso forte”, le qualità da considerare sono ben altre rispetto a quelle fisiche. Come ci ricorda Chimamanda Ngozi Adichie in uno dei suoi più grandi testi, sempre attuale e necessario, Dovremmo essere tutti femministi, un sistema che separa gli uomini e le donne in due gruppi distinti e complementari continuare a educare ed educarci alla disparità di genere. Questo non è dannoso solo per le donne, ma anche per gli uomini, perché assegnare ruoli precisi significa circoscriverne la virilità e le passioni e ridurne l’autostima, innescando un circolo vizioso.

La potenza del programma sta nel mettere in discussione anche la comunità LGBTQ+. In uno degli episodi più importanti, commoventi e controversi della seconda stagione, il gruppo incontra Skyler, un ragazzo transessuale appena uscito dalla sala operatoria per una mastectomia. L’episodio mostra come l’essere omosessuale non garantisca l’essere più informati o aperti di persone eterosessuali. Quando nasciamo o facciamo coming out, non riceviamo alcun manuale: sta a noi decidere se e come partecipare alla vita della comunità e decidere di informarci correttamente sulla vita delle altre persone che ne fanno parte. Durante i primi minuti in cui Skyler si presenta, raccontando la propria storia, Tan esordisce dicendo di non aver mai incontrato nessun* transgender, e che lui è il primo. La risposta del ragazzo è spiazzante, tanto banale quanto potente nel modificare la percezione comune della realtà: “Sono la prima persona a dirti apertamente di essere trans.” È un’etichetta data dalla società, non la prima informazione che qualcuno, solitamente, comunica presentandosi. Tan risponde di non aver mai vissuto davvero la vita della comunità LGBTQ+, ma vuole sapere e per questo fa domande, si informa. Dovrebbe essere lo spirito d’ognuno, a prescindere dalla sessualità.

Ammetto di essermi scoperto un grande fan di Queer Eye, nonostante i miei iniziali pregiudizi sui programmi di makeover, in particolare quelli italiani, in cui l’imposizione e lo scherno sono spesso più forti del confronto. Volendo trovare una pecca, nemmeno poi così piccola, il problema dello show sta proprio nell’utilizzo della parola queer. Preciso: Jonathan Van Ness è meraviglioso quando, in un bar di provincia del Sud più profondo degli Stati Uniti, si presenta in gonna. Anche i vestiti che indossiamo rispecchiano chi siamo. Ma non è sufficiente. Sarebbe bello se la comunità LGBTQ+ venisse rappresentata non solo attraverso la G. D’altronde, la nostra battaglia è una lotta per l’accettazione e l’inclusione di tutti. Anche transessuali, bisessuali, eterosessuali, lesbiche, non binari possono essere esperti di design, cibo, cultura, grooming e fashion, e possono apportare il loro punto di vista affrontando determinate tematiche con una delicatezza e, soprattutto, una conoscenza elevate. A quando, quindi, un gruppo di Fantastici Cinque più variegato? Certo, meglio un piccolo passo che niente, e Queer Eye ne rappresenta certamente uno bello lungo, soprattutto oggi, in cui si festeggia la storica decisione di porre la dicitura “Gender X” sul certificato di nascita di chi è nato a New York, permettendo agli adulti che lo desidereranno di poterlo modificare senza l’obbligo di una certificazione medica.

Mi chiedo come verrebbe accettato un programma simile in Italia, ma soprattutto quanto sia possibile produrlo. A prescindere dalle difficoltà del periodo storico e politico, e degli episodi di violenza omofoba e razzista – che di certo non mancano nemmeno in America – ci sono personalità del mondo dello spettacolo pronte a mettersi in gioco così apertamente, senza temere per la propria carriera? Ne dubito.

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