“Il potere del cane” ci ricorda quanta vita sprechiamo cercando di essere chi non siamo - THE VISION

Fu all’età di ventidue anni che Thomas Savage lasciò il Montana, ritornandoci solo saltuariamente prima di abbandonarlo quasi del tutto. In quella terra solitaria a nord delle Montagne Rocciose, da cui non vedeva l’ora di allontanarsi il più possibile, ci era cresciuto da quando aveva cinque anni e la madre si era unita in secondo matrimonio con il proprietario di un ranch. Savage ambientò in quei luoghi ben otto dei tredici romanzi che sviluppò nell’arco di poco più di quarant’anni, rivivendoli continuamente. Il suo era come un atto di protesta. A stargli stretti erano i limitati ruoli e possibilità di espressione a disposizione degli uomini e delle donne che vivevano nei campi tra la sua città, Dillon, e la contea di Lemhi, nell’Idaho. Le sue storie ritraggono spesso, infatti, una mascolinità atrofizzata, in cui il desiderio omoerotico tende a essere mascherato dall’omofobia; anche i personaggi femminili, forti e non convenzionali, ne svelano la deliberata intenzione di intorbidare le norme di genere. I paesaggi aridi avrebbero il potenziale di trasformarsi in siti di confine in cui riconfigurare le identità se solo a queste non fosse continuamente negata la liberazione che deriva dall’abbracciare il cambiamento. Sono gli scritti di un autore che trova nella parola il mezzo più congeniale per affrontare la complessità della propria sessualità. A differenza di molti altri scrittori occidentali, Savage ha definito una versione più intimista, spesso sovversiva del genere western. I suoi romanzi raccontano di famiglie disfunzionali, di solitudini e del soffocante provincialismo nelle piccole città settentrionali.

Quando nel 1967 lo scrittore pubblicò Il potere del cane, il genere western aveva già conosciuto il suo periodo di maggiore splendore e si apprestava a essere sopraffatto dalla fantascienza e dal fantasy. Nonostante il consenso unanime della critica, il libro vendette poco o niente, venendo dimenticato fino a una ristampa del 2001, con cui iniziò a essere considerato un classico. Da quegli anni le definizioni di mascolinità si sono moltiplicate e ampliate, ed espressioni e identità differenti da ciò che è considerata la norma sono diventate più visibili, e un po’ più accettate, anche all’interno della cultura dei cowboy. “Ora anche il western più classico sembra più internazionale, sessualmente ambiguo e stilizzato di quanto potesse sembrare una volta”, osserva lo storico Josh Garrett-Davis nel saggio What Is a Western?(Cos’è un Western?)

In questo senso, Il potere del cane è forse il romanzo più intimo di Savage, in cui lo scrittore condensa non solo la propria giovinezza, ma lo scarto tra il suo modo di essere al mondo e l’ambiente duro, misogino e machista in cui si era ritrovato a crescere. Mentre le città erano state travolte dal progresso, il ranch dei fratelli Burbank, protagonisti della storia, evoca un universo ancorato a usi e tradizioni incompatibili con la nuova società. Gli stessi mandriani sembrano uomini che giocano a fare i cowboy secondo un’idea precisa ma non più realistica. Una performance convincente non fosse per le sigarette troppo dritte, le grafie inaspettatamente eleganti, il piacere con cui indossano lo Stetson, il cappello in feltro, e i chaps, per proteggere le gambe a cavallo. “È una sorta di post-western”, ha commentato Jane Campion, autrice dell’adattamento cinematrografico de Il potere del cane, presentato in concorso alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove la regista è stata premiata con il Leone d’argento per la regia. Erano dodici anni, da Bright Star, che Campion non realizzava un lungometraggio, anche perché impegnata nelle riprese della serie televisiva Top of the Lake. “Nessuno ha una pistola”, ha aggiunto. La regista ha raccontato che l’idea della pellicola è nata da un incubo: lei in sella a un cavallo sconosciuto che non riesce a domare e che la trascina lungo una discesa ripida e stretta. A rileggere a ritroso la storia, sembra un destino comune a tutti i protagonisti del film. 

Phil (Benedict Cumberbatch) è spigoloso e ha tutte le caratteristiche di un vero macho: sa andare in sella, è arguto, suona il banjo e sembra sopportare ogni dolore e disagio. È talmente sicuro di sé che anche un bagno caldo ne mina l’apparenza che si è scelto, ricoperto di sporcizia dalla testa ai piedi com’è. Ha poco da temere dagli altri. Phil è però anche un uomo in fuga da se stesso e dal ricordo di Bronco Henry, il mentore che in gioventù l’ha salvato, insegnandogli ad annodare la corda, a individuare le forme delle colline e ad affrontare il freddo, e che ora l’ossessiona. George (Jesse Plemons), che del fratello subisce gli insulti per il proprio fisico massiccio, è taciturno e del tutto privo di senso dell’umorismo. Una certa idea di mascolinità non lo preoccupa: quando Rose (Kirsten Dunst), la vedova della locanda in cui un giorno si fermano a mangiare, accetta di sposarlo esplode nella gioia. “È così bello non essere più soli”.

Rose, abituata a dover riempire la propria giornata con il lavoro, si ritrova abbandonata da un momento all’altro a causa degli affari del marito, la passività della femminilità borghese troppo stretta per poterle piacere. Si sposta nervosamente da una stanza all’altra, aiutando le cameriere che non vogliono il suo aiuto ed eludendo lo sguardo sadico di Phil, che come un carnefice la sfida per ottenere disperatamente le attenzione di George, fino a ritrovarsi, perseguitata dall’isolamento in una terra di soli uomini, a cedere all’alcolismo. È l’ultima solitudine, quella di Peter, il figlio di Rose, a legare gli altri fantasmi. Peter (interpretato da Kodi Smit-McPhee, la cui performance gli è valsa un Golden Globe come migliore attore non protagonista) non ha il fascino manipolatore di Phil, ma ha il vantaggio dell’outsider: rifiutato per la sua effeminatezza e il suo risoluto disinteresse per il codice dei cowboy, ha poco da temere dagli altri o da se stesso. Non sa cavalcare, intrecciare una corda o conciare una pelle, ma riesce a guardare direttamente negli occhi il mandriano. In una delle scene più potenti del film, il ragazzo cammina senza vergogna e con sfrontata fierezza come una “femminuccia” secondo il codice del gruppo, lasciandosi guardare dagli uomini presenti in una manifestazione della propria identità che giustamente non conosce vergogna. Il ragazzo farebbe di tutto per sua madre: “Che uomo sarei se non desiderassi la felicità di mia madre?”, dice.

Il potere del cane del titolo è infatti un riferimento al Salmo 22, in cui un uomo giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza, guarda al proprio dolore e chiede aiuto a Dio: “Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto. Libera dalla spada la mia vita, dalle zampe del cane l’unico mio bene. Salvami dalle fauci del leone e dalle corna dei bufali”. Quel potere del cane che in Savage e nell’adattamento di Campion viene a coincidere non solo con la sofferenza della repressione della sessualità ma con quelle pulsioni profonde e incontrollabili che ci imprigionano e consumano, contro cui a volte sentiamo di dover resistere. Forse per una fortuita casualità, nel 1922 Rudyard Kipling, autore, tra gli altri, de Il libro della giungla, scrisse una poesia dallo stesso titolo. Dico fortuita perché sono proprio i versi di Kipling, forse più del Salmo, a dare voce alle quattro solitudini che, come fantasmi, si muovono e danzano l’una con l’altra nello svolgimento del dramma. “C’è abbastanza dolore di per sé affinché uomini e donne possano riempirsene le giornate. E quando siamo sicuri di averne ancora una scorta, perché andiamo a cercarne altro?”. Un moto quasi naturale, a cui è difficile dare una risposta, e che seppur appartiene a ognuno sulla Terra, personaggi di finzione e non, o forse proprio per questo, viene incarnato al meglio dalla rabbia comune di Phil Burbank, che nella tragica incomprensione di se stesso finisce per autoflagellarsi più di tutti. Peter –  il personaggio del romanzo in cui Savage rivedeva più se stesso, avendo avuto delle storie con altri uomini pur essendosi legato a una donna, Elizabeth Fitzgerald – è il solo che forse può capirlo perché è l’unico a condividere con lui il segreto dell’ombra sulla collina, che assomiglia al profilo di un cane con la mascella spalancata. Un segreto che fino ad allora il mandriano pensava potesse appartenere solo a lui ed Henry Bronco. È in quel momento che il rapporto tra i due cambia e Phil inizia a riconoscere Peter come simile, promettendogli di regalargli una corda realizzata dalla pelle delle mandrie, come solo il suo mentore aveva fatto prima con lui. Le vulnerabilità sepolte negli anni sotto strati di crudeltà vengono alla luce: la mascolinità che così instancabilmente veniva celebrata dal western, in lui non è un rimedio alla debolezza, ma una sua copertura. Eppure anche Peter non è solo che un altro uomo. 

È proprio nella continua tensione verso gli altri e verso se stessi fondata sullo scarto tra la maschera che ci si sente costretti a portare e ciò che in piena libertà si sente di essere che le vite degli uomini finiscono per cedere. Ciò che Campion porta in scena ne Il potere del cane è una storia capace di rivelare le pieghe nascoste della psiche umana e raccontare le emozioni nella loro complessità. Non c’è giudizio o stigma nel suo sguardo, ma un lampo che coglie l’universalità del dolore delle vite sospese nel limbo dell’emarginazione e dell’ambiguità. Non saremmo tutti che uomini più liberi se riuscissimo ad allontanarci dall’ideale di dovere aderire a un determinato modo di pensare, di agire, di sentire – e, parallelamente, di non pensare, di non agire, di non sentire – per giustificare il nostro stare al mondo, ripartendo piuttosto dai nostri desideri per cedere, questa volta con piacere, al potere del cane.

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