Negli ultimi anni, con l’arrivo dei nuovi media e la diffusione capillare di tecnologie che fino a poche decine di anni fa erano catalogabili come delirio futurista, la musica ha moltiplicato la sua presenza nelle nostre vite. Ovunque c’è una colonna sonora che possiamo scegliere, avendo accesso a librerie infinite a nostra disposizione: ci siamo abituati allo streaming come fosse sempre stato parte della nostra vita, eppure non è così. Come per ogni cosa, le rivoluzioni di questo tipo hanno vantaggi e svantaggi, soprattutto per chi ha fatto dell’arte il proprio lavoro, e il rischio con l’enorme quantità di contenuti prodotti oggi è che la musica venga data per scontata, come un sottofondo costante che rimane acceso in qualsiasi condizione. In questo panorama stimolante ma anche destabilizzante, esistono esempi di come l’arte non debba per forza farsi schiacciare dalla quantità: Paola Turci è una di loro. Cantautrice e musicista parte fondamentale dell’industria discografica italiana, non solo per la sua carriera lunga oltre trentacinque anni – il suo album d’esordio, Ragazza sola, ragazza blu, è del 1988 – ma anche per il modo in cui si è sempre posta rispetto alla musica. Mai accomodata in un ruolo di puro intrattenimento, le sue canzoni sono tutt’altro che un fondale o un semplice ritornello. Il suo contributo alla scena cantautorale italiana è una ricerca che va a fondo nel senso stesso della musica come luogo di consapevolezza e sensibilizzazione. Dal femminismo alla coscienza sociale fino al ruolo della donna nell’industria musicale, Paola Turci negli anni ha sempre raccontato la realtà oltre che la bellezza e la forma.
Ne ho parlato con lei in occasione della collaborazione tra THE VISION e PULZE per la campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori. “I see your true colors shining through, so don’t be afraid to let them show your true colors”, cantava Cindy Lauper nel suo brano “True Colors”: mostrare i propri colori vuol dire permettere a chi è intorno a noi di scoprire chi siamo davvero. L’obiettivo di Pulze è appunto quello di usare i colori come mezzo per esprimere non solo i propri gusti ma anche le proprie emozioni.
Ciao Paola, oggi siamo qui per indagare l’interconnessione tra colori, emozioni e musica. Ogni artista parte dalle proprie emozioni come fonte di ispirazione, e ad ognuna di esse si potrebbe associare un colore. Se potessi abbinare un colore alla tua musica, quale sarebbe?
Ti direi sicuramente il rosso scuro. Perché è potente, è umano, fa parte del nostro corpo, anche se lo vediamo solo qualche volta. E perché è un colore che mi ha sempre dato la sensazione di farmi provare una vera e propria pulsazione.
Prendiamo tre colori e tre emozioni: il blu, calma ed equilibrio; il giallo, energia e solarità; e amber, intimità e calore. Quale canzone abbineresti a ciascuna?
Al blu associo la mia canzone “Stato di calma apparente”, non soltanto perché c’è la parola “calma” dentro ma anche perché non ho mai vissuto un vero e proprio equilibrio, è sempre uno stato apparente, appunto. Anche l’album capolavoro di Joni Mitchell, Blue, lo associo a questo colore. Con il giallo, invece, penso a una canzone che io ho intitolato “Mani giunte” e che quando l’ho cantata con J-Ax è diventata “Fuck you”: mi rimanda all’energia esplosiva e al divertimento estremo di averla suonata insieme dal vivo. Anche “Paloma Negra” di Chavela Vargas per me è un brano estremamente giallo, che peraltro lei cantava a ottantacinque anni, con un’energia incredibile: è pieno di vitalità e di passione, ma anche di gelosia. Come tono, l’amber mi fa pensare a una traccia che scrissi anni fa dal titolo “Adoro i tramonti di questa stagione”: ho avuto subito in mente l’estate e quel periodo dell’anno fatto di luce. Anche Florence and the Machine è un’artista che associo all’ambra, soprattutto per i suoi capelli: se penso a lei e a quel colore, mi viene in mente il brano “What kind of man”, dell’album How big, How blue, How beautiful.
Pensi che il tuo genere musicale sia in grado di trasmettere tutte le sfumature delle tue emozioni?
A volte, non sempre. Ma questo è un bene perché vuol dire che ho ancora da cercare, la strada non è finita.
Quanto contano le contaminazioni da altri generi nel tuo processo creativo? Ascolti musica diversa da quella che poi fai?
Per me sono fondamentali, perché arricchiscono e ti fanno vedere delle versioni nuove e diverse di te. Amo lasciarmi ispirare, e noi artisti siamo fatti per essere ispirati, anche se alle volte lo dimentichiamo. Ascolto quasi solo musica diversa da quella che faccio: ho cominciato consumando i dischi dei Rolling Stones, oltre che le canzoni d’autore. Patti Smith in particolare è sempre stata una guida per me, anche se non ho mai replicato ciò che ha fatto lei nella musica, ma mi ha ispirata davvero molto.
Hai esordito alla fine degli anni Ottanta con l’album Ragazza sola, ragazza blu. A distanza di anni senti ancora quel colore come parte di te?
Ancora un po’ sì. Quel blu ha rappresentato la malinconia, e io sono fatta anche di questa emozione, di solitudine. Oggi magari sarebbe diverso, non sono più da sola, oggi forse sarebbe Ragazza felice, ragazza blu.
Hai sempre coniugato la musica alla sensibilizzazione rispetto a temi sociali importanti. Quale tua canzone veicola il messaggio più forte e in modo più efficace?
Credo che la mia canzone più rappresentativa da questo punto di vista sia “Bambini”, anche perché è il brano che più viene ricordato quando si parla di musica che veicola un messaggio. E quando viene citata, l’immagine che evoca è immediata: si parla di bambini come vittime innocenti, dei bambini che si vedono sulle fotografie, armati e disarmati. Credo che tra tutti i miei brani, questo riesca a suscitare la maggiore empatia in chi l’ascolta.
Da quando hai iniziato la tua carriera da cantautrice fino a oggi hai visto dei cambiamenti in positivo rispetto alla posizione delle donne nell’industria musicale? Cosa cambieresti tu adesso?
In confronto ai limiti di allora vedo che molte cose sono cambiate. Ma non siamo ancora arrivati al dunque, al punto in cui possiamo dire che non c’è più un sistema patriarcale, né maschilismo. Le donne non sono ancora trattate allo stesso modo degli uomini, ma non solo nella musica: quella è un riflesso, il lavoro è lo specchio della società. Rispetto a prima, però, oggi ci si propone in modo molto più determinato. Nonostante questo, esiste ancora una lacuna profonda, un vero e proprio gap lavorativo, dovuto a un retaggio del passato. Io istituirei un’iniziativa concreta per supportare lavorativamente le donne nell’industria discografica: sarebbe bello avere molte più figure femminili che ricoprono professioni come produttrici, musiciste, tecniche, foniche. Se guardi certe fotografie ci sono sempre e solo uomini attorno a un certo tipo di mestiere. Allargherei questo aspetto, spronando sia le donne che gli uomini a pensarla in modo diverso. Anche perché non c’è nulla di immutabile: è stato solo un errato insegnamento, si può cambiare.
Quanto forte senti il legame musicale con la tua città d’origine, Roma?
Se penso all’ispirazione romana penso alla mia casa d’origine, con i miei genitori. Alla mia infanzia e alla mia adolescenza passata chiusa in bagno a suonare, quando ho avuto la mia prima chitarra, a undici anni. Tutta la mia vita trascorsa con i miei genitori l’ho vissuta suonando o andando a ballare in discoteca. Poi a diciannove anni, molto presto, è arrivato Sanremo, dopo il pianobar storico, La Cabala, dove fui scoperta: da quel momento in poi la musica è diventata a tutti gli effetti il mio lavoro, ed è sempre stato così. Non ho avuto grandi rapporti con altri musicisti romani in quel periodo di formazione, molto più dopo, con amici come Max Gazzè e Niccolò Fabi.
Ti sei mai sentita in qualche modo svantaggiata dal fatto di essere una musicista donna?
No, mai. Sono sempre stata molto attenta a questo tipo di differenziazioni e ci tenevo che ci fosse nei miei riguardi un atteggiamento che non mi penalizzasse in quanto donna. Mi sono battuta sin da subito affinché mi venisse riservato un trattamento paritario. È una forma di difesa – o di attacco, in alcuni casi – che ho sempre avuto in automatico e non mi ha mai lasciata.
Ti senti libera come artista in Italia oggi?
Libertà è una parola troppo complessa, ma posso dire che mi sento libera di essere, questo sì. Libera di scrivere le canzoni che voglio. Ma non siamo liberi, è la vita che viviamo che ci porta a entrare dentro a un meccanismo dal quale non si può mai essere davvero liberi.
Pensi che oggi la musica in Italia abbia un ruolo che vada al di là dell’intrattenimento?
Dovrebbe averlo, e invece non è così. Io ho sempre rifiutato l’idea che la musica sia solo intrattenimento. Nei miei anni di carriera sono stata così attenta a questo aspetto che alle volte mi dava fastidio persino mi dicessero che facevo parte della categoria dello spettacolo. Io non mi sento parte di questa categoria, io faccio canzoni e canto, che è diverso: è musica, è qualcosa di profondo. Sono sempre stata molto precisa a proposito di questo aspetto. Al contempo, però, in Italia c’è molto intrattenimento. La responsabilità è di chi ha deciso di trattare così questa forma d’arte e di espressione, ma anche di chi ha deciso di scriverla in questa ottica. E, ovviamente, di chi ha deciso di guadagnarci, per intrattenere.
La musica per te è più un impulso irrefrenabile o un modo per scaricare la tensione?
Credo che per me sia entrambe le cose. Forse è più un impulso. Scrivere musica per me è un’urgenza che mi trova anche impreparata, senza penna, senza registratore. Ma è anche un modo di tirare fuori quello che ho dentro ed esprimere tutte le cose che sento: è un modo di trovare un centro, come quando sei in assenza di gravità.
Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con PULZE, il pratico dispositivo di heated tobacco realizzato da Imperial Brands, che scalda il tabacco senza bruciarlo, in occasione della campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori.