Restare un outsider è una scelta complessa che genera emozioni forti e contrastanti, quelle di Nitro - THE VISION

Negli ultimi dieci anni, il mercato musicale italiano è cambiato in modo radicale. Se un tempo nella top ten era normale trovare perlopiù artisti stranieri, oggi è l’opposto: una strana e imprevedibile forma di autarchia ha preso piede in modo irrefrenabile. In questa mutazione dei consumi e dei gusti del pubblico, il rap ha giocato un ruolo fondamentale: non più nicchia né margini del mercato musicale, oggi è la materia su cui si fondano le hit. Tanto per fare un esempio concreto, in pochi avrebbero scommesso, quindici anni fa, che un artista con il background e lo stile di Lazza sarebbe stato tra i primi cinque classificati al festival di Sanremo. A partire dall’ondata creata negli anni dieci del Duemila da Fabri Fibra, Marracash, Noyz Narcos, Salmo – per citarne alcuni tra i più importanti – e proseguita nel decennio successivo con l’arrivo della trap e della consacrazione ufficiale del genere a pilastro della discografia italiana, la fase storica che vive oggi il rap, genere che affonda le sue radici nell’underground, non solo in Italia ma in tutto il mercato musicale occidentale, è piuttosto singolare. Da un lato la forza del successo e della spinta propulsiva che questo crea, dall’altro l’inevitabile appiattimento, la massificazione di una musica che dovrebbe essere di rottura ma che spesso ormai è solo di accompagnamento. Non è facile oggi essere un outsider, nel vero senso della parola, riuscire a rimanere fedeli ai propri gusti e non farsi sedurre dalla facilità di un tormentone dozzinale, tradendo la propria natura artistica.

Ne ho parlato con Nitro, che di recente ha pubblicato il suo quinto album dal titolo emblematico Outsider, in occasione della collaborazione tra THE VISION e PULZE per la campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori. “I see your true colors shining through, so don’t be afraid to let them show your true colors”, cantava Cindy Lauper nel suo brano True Colors: mostrare i propri colori vuol dire permettere a chi è intorno a noi di scoprire chi siamo davvero. L’obiettivo di Pulze è appunto quello di usare i colori come mezzo per esprimere non solo i propri gusti ma anche le proprie emozioni.

Ciao Nitro, oggi siamo qui per indagare l’interconnessione tra colori, emozioni e musica. Ogni artista parte dalle proprie emozioni come fonte di ispirazione, e ad ognuna di esse si potrebbe probabilmente associare un colore. Se potessi abbinarne uno alla tua musica, quale sarebbe?

Nero, assolutamente. Da sempre è una costante sia del mio vestiario che del mio immaginario. Mi è sempre piaciuta l’atmosfera lugubre, dark, soprattutto quella metal. La mia musica, infatti, ha delle radici che oltre all’oscurità del metal si agganciano anche al genere black: il soul, il blues, il funk e tutte quelle sonorità prettamente nere degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.

Prendiamo tre colori e tre emozioni: il blu, calma ed equilibrio; il giallo, energia e solarità; e amber, intimità e calore. Quale canzone abbineresti, tua e di altri artisti, a ciascuna? 

Diciamo che il blu, oltre alla calma e all’equilibrio, io lo associo di più alla malinconia. Lo abbinerei a “Killing Me Softly” dei Fugees: anche l’amore è intriso di malinconia. Tra i miei pezzi invece, “TI DIREI”. Il giallo lo abbinerei a una canzone dei Led Zeppelin che adoro e che si chiama “Since I’ve Been Loving You” perché nonostante il pezzo abbia una carica blues, triste, ha delle chitarre rock che subentrano nell’arrangiamento e che rendono tutto molto solare ed energico. Essendo il giallo il colore della solarità e dell’allegria non è tra i colori con cui descriverei la mia musica, ma se dovessi abbinarlo a un mio brano ti direi “Lucifero”, perché parla della figura di Lucifero, appunto, umanizzandolo e cercando di far vedere che c’è del positivo anche nel negativo. Molte volte non c’è il cattivo vero, cattivi si diventa per tanti fattori, e se tutti ti danno del cattivo anche tu puoi cominciare a pensare davvero di esserlo. Infine, al colore più intimo, l’amber, assocerei il brano “Middle Child” di J.Cole.  È un pezzo che parla del suo essere un rappresentante della generazione di mezzo all’interno della sua scena musicale, e io mi sento fortemente associato a questa canzone, essendomi sempre percepito un po’ il “middle child” della scena rap italiana. Come mio brano invece direi “PARANOIA”, nonostante il colore della paranoia per me sia completamente diverso, ma lo scelgo per l’intimità che trasmette. È una canzone che parla di sensazioni che ho sentito in modo molto intimo e spero che chi la ascolti, avendo provato lo stesso, si senta meno solo. 

Pensi che il tuo genere musicale sia in grado di trasmettere tutte le sfumature delle tue emozioni? 

Sì, perché non mi sono mai posto l’idea di voler comporre un tipo di musica solo. La prima volta che ho ascoltato il rap ho capito che era un genere basato sulla libertà. Prendo ispirazione da tutto, è una deformazione professionale, ogni cosa può diventare una canzone. Sono molto stimolato dalle rime, per me è uno input creativo molto intelligente attraverso cui far passare un concetto, come se fosse normale, spontaneo. Non è detto poi che farò rap per sempre, magari se un giorno non fossi più attratto da questa forma di espressione potrei fare altro, dalla poesia alla scrittura o alla regia. Di base faccio fatica a vedere la mia vita senza creare qualcosa. 

Quanto contano le contaminazioni da altri generi nel tuo processo creativo? Ascolti musica diversa da quella che poi fai?

Io ascolto tantissima musica diversa da quella che faccio. Ricordo che l’anno del Covid-19 l’artista più ascoltato nella mia libreria era James Brown. Mi piacciono soprattutto cose vecchie: amo il calore che c’era nella musica, sia per gli strumenti analogici sia per l’umanità dell’errore, della micro-imperfezione. 

La musica è suono ma è anche immagine: quanto è forte la tua immagine in relazione alla musica che fai? Che ispirazioni mescoli?

La mia immagine è molto forte perché è molto didascalica. Credo che l’estetica di un rapper sia forte quando puoi descriverla in poche parole. Di me dicono “è il rapper con i capelli lunghi”, per esempio. Oppure che sembro un metallaro, e già così mi colloco molto bene. Mi è sempre piaciuta la stravaganza, gli artisti che ammiro sono vestiti in modo un po’ eccentrico, anticonformisti. Sono molto ispirato, ad esempio,  dall’esagerazione di artisti come Erykah Badu, Busta Rhymes. Ci sono giorni che mi sento di esprimermi più nel loro mood e mi vesto molto colorato, altri in cui mi sento più System of a Down e indosso solo il nero.

Il tuo ultimo disco si intitola Outsider, nella storia della musica chi è secondo te l’artista che lo è stato di più?

Luigi Tenco. E penso di non dover neanche spiegare il perché.

È ancora possibile essere un outsider nella scena rap italiana?

Sì, con i dovuti calci in culo che ti arrivano di conseguenza. Forse oggi nella musica abbiamo un’idea di successo troppo legata ai numeri. Per me la vera ricchezza è riuscire a fare quello che voglio ogni giorno, guardarmi allo specchio ed essere fiero di quello che creo. Se qualcuno riesce a scrivere anche cose più commerciali perché è nel suo gusto personale e compatibile con il suo essere artista sono molto contento per lui o per lei, ma io vengo da un contesto formativo in cui la musica che andava e che veniva apprezzata da tutti a me non piaceva, non mi diceva nulla. Mi piacevano le cose che potevano fare colpo su pochi. Di conseguenza, avendo immagazzinato negli anni solo pezzi lontani dal gusto della massa, non faccio canzoni mainstream. Basta accettare il proprio ruolo e sapere che tu stai bene lì, perché se facessi musica un po’ più semplice o più per tutti, con il vantaggio magari di essere primo in classifica ma magari con brani che non mi rappresentano, quel primo posto non lo vedrei neanche mio.

Credits: Asia Michelazzo

Pensi che il rap, oggi in Italia, sia ancora un genere che riesce a provocare o si è accomodato in uno status di convivenza con il mainstream? 

Penso che dare fastidio, che era la forza vincente di un certo tipo di rap negli anni addietro, non sia più la priorità di questo genere musicale. Quando c’era la seconda ondata di rap mainstream, tra il 2006 e il 2008, quando sono usciti i vari Marra, Fibra, Club Dogo, Cor Veleno, c’era un senso della provocazione diverso rispetto a oggi. Mi spiego meglio: i Dogo davano fastidio a livello sociale, Fibra ti dava fastidio a livello emozionale, diceva delle cose che non si potevano dire ad alta voce, mentre Marra entrambe le cose insieme. La corrente comune era il suscitare una sensazione. Oggi sembra che ci stiamo un po’ accontentando di essere il sottofondo invece di essere qualcosa che fa pensare. Lo posso anche capire, perché con tutti gli input che dà la società di oggi, facendoti pensare in continuazione a cose a cui magari non dovresti neanche pensare, ci sta che la musica ti allieti e non ti rimandi dentro a quel tunnel di domande. Però le canzoni che danno fastidio sono diventate i capisaldi della mia educazione, non solo della mia musica. A certe cose che ho sentito nelle canzoni io credo come se fossero messaggi scritti in un libro sacro. Sarò sempre dalla parte di chi vuole dare fastidio, non ci posso fare niente, sono un dissidente fino alla fine. 

Il brano che dà il nome al tuo ultimo album, OUTSIDER, si apre con questa frase: “Non c’è niente che mi fa più pena di un pezzente che difende i ricchi, a dirla esatta se muore un monarca me ne stappo un’altra e brindo ai miei diritti”. Pensi che la nostra generazione abbia a mente quali siano i suoi diritti? 

Credo proprio di no, così come non li avevano a mente neanche quelli prima di noi e quelli ancora prima. Se ci rendessimo conto di come la ricchezza è mal distribuita nel mondo andremmo coi forconi e le pale da chi di dovere a prenderci quello che ci spetta. Da una persona che ha fatto un po’ di soldi nella vita, penso di sapere di cosa parlo. Anzi, mi sono sentito più volte in difetto dicendo “Cazzo, mio papà doveva lavorare una cifra per avere questi soldi che ho, mentre io li faccio in venti minuti suonando”. Mi faceva sentire in colpa questa cosa, e quindi so che c’è anche un troppo, ci sono tante cose non necessarie della quale faccio uso io per primo. Quindi mi chiedo, veramente non ci può essere, oltre che una soglia minima di lavoro e di stipendio per tutti, che è giusta, anche una soglia massima di guadagno? Così da distribuire meglio la ricchezza, che è troppo concentrata solo nelle mani di singole persone che rischiano di istituire un monopolio, sia a livello di potere politico che mediatico. Se uno ha miliardi e si compra qualsiasi cosa, poi tutti daranno ragione a lui, no?

E in Italia direi che ne abbiamo avuti di esempi simili. 

Sì ecco, non voglio essere troppo radicale, però troviamo un modo di distribuire questa ricchezza. Anzi, rendiamoci conto noi “poveri” che siamo di più, siamo in maggioranza.

Andiamo al tuo passato con l’ultima domanda: dieci anni fa pubblicavi il tuo primo album, Danger. Che sensazioni ti provoca sentirlo oggi? Che colore aveva per te quel disco?

Il colore di Danger per me è il rosso: quel disco è proprio rabbia pura, anche sragionata. Non ti so dire che effetto mi fa perché non ascolto la mia musica una volta che è uscita, ogni tanto mi capita di riascoltare qualcosa perché mi devo ricordare le canzoni da fare dal vivo, però ecco, mi fa effetto la mia voce. È cambiata molto, negli anni si è ingrossata parecchio. Sembro un altro io, però sempre io, come quando riguardi le foto da piccolo. Però mi mette sempre il sorriso perché mi ricorda un bel periodo. Se c’è una cosa di cui vado fiero è che siccome i miei dischi sono scritti da una persona che pensa tanto, perché anche a vent’anni pensavo molto, ero più stupido in tante cose ma pensavo molto lo stesso, quindi anche a risentirli dopo tanti anni invecchiano bene. Certe cose che ho composto da piccolo le penso anche adesso, se avessi espresso cose più superficiali magari mi sarei vergognato, ma erano testi sentiti.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con PULZE, il pratico dispositivo di heated tobacco realizzato da Imperial Brands, che scalda il tabacco senza bruciarlo, in occasione della campagna “Feel the tones, feel the Pulze”, volta ad esplorare l’interconnessione tra musica, emozioni e colori. 

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