Le 10 migliori serie tv del 2021 per il tuo binge watching di Capodanno - THE VISION

Nel 2021, come e più del 2020, le serie tv hanno confortato un anno particolarmente difficile, diventando oggetto anche di molti fenomeni social. Basti pensare alla polarizzazione prodotta da Squid game o da  LOL – Chi ride è fuori, forse le due più esemplari da questo punto di vista.  Per recuperare le migliori o anche solo concedersi un binge watching spietato durante le feste di Natale, questi sono i nostri consigli del 2021.

Maid (Netflix)

Quando una storia è in grado di suscitare reazioni e interpretazioni anche molto diverse tra loro di solito è una storia che funziona. È il caso di Maid, la serie Netflix ispirata dal memoir di Stephanie Land (Domestica. Lavoro duro, paga bassa, e la voglia di sopravvivere di una madre), che vede al centro il tema della violenza di genere e della povertà, ma anche il ruolo di una giovane donna madre, i disturbi psichiatrici e l’abuso di potere nelle sue varie forme. Maid parla di vicoli ciechi in cui le madri in difficoltà – in particolare se giovani, ma potenzialmente qualsiasi individuo – finiscono per ritrovarsi in trappola, invece che essere aiutate, come se la ruota delle possibilità che le circonda si stringesse sempre di più, fino a sembrare un cappio intorno al loro collo. Negli Stati democratici questa è la grande contraddizione portata dal liberismo e dal Capitalismo, per cui se hai successo è merito tuo, se fallisci devi per forza aver sbagliato qualcosa, e quindi perché qualcuno ti dovrebbe sostenere? Non sei forse inaffidabile? Questa però è una posizione fortemente individualista che si scontra invece con una visione assistenziale dello Stato (cosa che d’altronde negli Stati Uniti manca quasi del tutto).

Quello che Maid mette in scena, è l’inesauribile tensione del singolo dentro la società, in entrambe le storie lo sguardo è limpido, oggettivo nel registrare il frantumarsi del reale. La colpa, così come la virtù, è di tutti, chiunque può sbagliare e fare bene, dipende in gran parte dal contesto in cui si trova, ma è bene ricordare che in entrambi i casi le azioni sono mosse in primis dall’istinto animale a sopravvivere. Non c’è bene e non c’è male, buoni e cattivi, ci sono solo vittime e tregue. A volte, infatti, seguire le regole crea più male che bene, proprio perché la loro applicazione e osservanza in certi contesti appare semplicemente inumana, corretta ma ingiusta. In un mondo che negli Stati Uniti, così come in Europa e altrove, si muove a tutta velocità lasciando indietro chi non è in grado di restare al passo, c’è un enorme bisogno di narrazioni come quella di Maid

Squid Game (Netflix)

​​Squid Game rappresenta il punto di arrivo di una narrazione asiatica, di cui ne è esempio anche Parasite, che oggi si propone di denunciare le storture del Capitalismo, in particolare rispetto all’economia del debito che domina la vita di milioni di persone. Il debito è una dimensione di povertà che alle ristrettezze e alle difficoltà aggiunge un continuo stato di ansia, data dalle scadenze dei pagamenti, dagli interessi crescenti e dall’avidità dei creditori, ma anche dalla paura di non poter più partecipare in maniera attiva al mondo: lo stesso senso di esclusione che provano i bambini quando capiscono che nel formare le squadre verranno scelti per ultimi.

Il protagonista è il quarantenne Gi-hun, interpretato magistralmente dall’attore Lee Jung-jae, che insieme ad altre 455 persone sommerse dai debiti, in fuga dai creditori o cadute nelle maglie del gioco d’azzardo, vengono chiuse in una sorta di isola-bunker labirintica che richiama le angosciose scale di Escher, per affrontare una serie di prove, superate le quali ci si potrà aggiudicare un montepremi che raggiunge la cifra finale di 45,6 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Chi perde viene fisicamente eliminato, in maniera spietata ma rapida e sistematizzata, come dimostrano le bare prontamente riempite con i cadaveri dei perdenti fatte sparire in un batter d’occhio. La lotta per il denaro è lotta per la vita perché, nel mondo fuori, la loro vita senza denaro non è una vita ma un inferno. E questa lotta per la sopravvivenza non contempla né l’amore, né il perdono o la compassione, né tantomeno la giustizia. Quando questi sentimenti e valori si affacciano sulla sceneggiatura a dare speranza allo spettatore esausto, non tardano a rivelarsi sentimenti e valori perdenti, da reprimere proprio per non perdere.

Squid Game dipinge egregiamente la disfatta di un sistema che non è stato in grado di garantire il benessere della maggioranza, ma dalla loro critica non emerge alcuna valida alternativa.

Raised by Wolves – Una nuova umanità, (Sky Atlantic)

Madre e Padre sono fuggiti da una Terra devastata verso il misterioso pianeta Kepler 22-b. Sono due androidi e con loro hanno sei embrioni umani, di cui uno solo sopravviverà: Campion.  La guerra sulla Terra era tra atei e zeloti, un popolo che adora una divinità chiamata Sol. Madre e padre allevano Campion come ateo, scoraggiando il suo crescente bisogno di pregare: “Tranquillo. Tecnocrazia. È l’unico percorso per progredire. La fede nell’irreale può confortare la vita umana, ma anche indebolirla”. Ben presto tra Madre e Padre inizia ad alimentarsi una frattura: la coppia di androidi dovrà confrontarsi non solo con una natura ostile ma anche con un’altra colonia di esseri umani presente su Kepler 22-b. 

È da queste premesse della science fiction che si sviluppa Raised by Wolves – Una nuova umanità, prodotta da Ridley Scott, la cui presenza ne influenza la qualità, l’iconografia, le tematiche affrontate, tanto che anche i due protagonisti si inseriscono nella scia di androidi con sentimenti umani spesso utilizzati dal regista. C’è un modo nuovo che Scotto coglie per raccontare come la genitorialità si interseca alle credenze religiose e in che modo il riconoscimento di un potere superiore, un codice di moralità stabilito da un Dio e l’idea che esista un’anima contribuiscano allo sviluppo personale. Se nel colonizzare i pianeti gli uomini riproducono gli stessi errori che hanno portato alla devastazione della Terra, cosa può accadere quando a crescerci sono degli androidi?

It’s a Sin (Starzplay)

La rappresentazione della comunità LGBTQ+ sul piccolo schermo e al cinema è stata a lungo segnata dall’infelicità, dall’incapacità di essere accettati da amici, parenti, colleghi e dalla società tutta, dalla malattia. L’arco narrativo di un personaggio LGBTQ+ non poteva e non doveva essere felice. L’Aids, in particolar modo, è stata spesso usata come metafora per sancire il destino a cui avrebbero portato comportamenti devianti. Non a caso, quando nel 1981 i Centers for Disease Control americani segnalarono sul loro bollettino un aumento improvviso di casi di polmonite in pazienti gay, l’Aids venne ribattezzato Gay-related immune deficiency, alimentando una narrazione politica mirata più alla punizione che alla prevenzione, nonostante già l’anno successivo fosse stato individuato in persone etero. Gli anni Ottanta colpirono profondamente la comunità LGBTQ+: alla perdita dei propri compagni si aggiunse l’indifferenza della politica e delle istituzioni. Eppure la gioia non si spense mai, lenì la tragedia e si intrecciò all’amicizia, all’amore, al fare comunità e al riconoscersi e trovare il proprio posto nel mondo. 

È da queste storie che si muove It’s a Sin, scelta anche dal Guardian come miglior serie tv dell’anno, e creata da ​​Russell T Davis, già autore di Years & Years e Queer as Folk. Ogni episodio si muove in avanti di qualche anno, arrivando a coprire l’intero decennio fino al 1991 e raccontando l’epidemia di Aids nel Regno Unito, le politiche discriminatorie di Margaret Thatcher, attraverso la voce di un gruppo di ragazzi diciottenni che si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto, in un appartamento ribattezzato Pink Palace, a Londra. Anche quando diventa più cupa, It’s a Sin non perde mai l’ironia e la leggerezza che caratterizzano la scrittura di Davis. Alla spensieratezza e alla libertà dell’età si mescolano ben presto la paura e lo stigma sociale, la rabbia. Non tanto per gli errori personali commessi, quanto per i deliberati rifiuti istituzionali a confrontarsi con quanto accaduto.

Omicidio a Easttown (NOW TV)

Grazie a una scrittura capace di disegnare ogni personaggio con perizia, rendendolo profondamente reale, Omicidio a Easttown è una storia intensa e soddisfacente, che ribalta ogni cliché del genere televisivo: un thriller non nel senso classico del termine, ma un indagare sull’umano, in particolar modo sulla psicologia di una donna. Il titolo originale, Mare of Easttown, è infatti molto più esplicito della traduzione italiana nel definire il vero fulcro del progetto: Mare Sheehan, detective cinica e introversa, non è il personaggio fisso e irreprensibile a cui siamo stati abituati, ma una figura capace di rivelarsi gradualmente, aprendosi verso un passato traumatico e disvelando così la propria vera natura. Mare è divorziata, ha perso un figlio e la sua carriera sembra a uno stallo quando a un caso irrisolto di una ragazza scomparsa si aggiunge un omicidio che getta sconforto e rancore tra i cittadini della provincia. 

Ciò che colpisce immediatamente di Omicidio a Easttown sono i tipici ingranaggi dei perfetti thriller: una piccola cittadina della Pennsylvania senza fascino e degradata dalla povertà; tempi narrativi dilatati capaci di fondere indissolubilmente gli spazi esterni; cittadini con drammi familiari e personali che si sviluppano al loro interno. Eppure, la miniserie prodotto Hbo, candidata a 16 Emmy e vincitrice di ben quattro premi tra cui quello per miglior attrice protagonista e miglior scenografia, offre una versione molto più intima della tipica storia poliziesca. Nessun gesto, nessuna linea del volto di Kate Winslet è sprecata o fine a se stessa nella riuscita di questo dramma umano e interiore. 

La ferrovia sotterranea (Amazon Prime Video)

Adattata dall’omonimo romanzo del premio Pulitzer Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea racconta il doloroso e straziante viaggio di Cora (Thuso Mbedu) e Caesar (Aaron Pierre) che, fuggiti dalla piantagione di Randall, in Georgia, sono alla ricerca della libertà dopo una vita passata in schiavitù. L’unico modo per fuggire, nel periodo poco precedente alla Guerra di secessione americana, sembrava essere uno degli ingressi della ferrovia sotterranea, appunto, da cui si poteva raggiungere il Nord. Le pietre miliari delle narrazioni cinematografiche della schiavitù appaiono infatti in tutta la loro violenza – fustigazioni terribili, abusi sessuali e stupri –, manifestazioni brutali di ciò che il cacciatore di teste Ridgeway, alla ricerca di indizi dell’esistenza della ferrovia sotterranea sulle tracce di Cora e Caesar, definisce “l’imperativo americano” di soggiogare ed eliminare l’identità e il retaggio di ciascun Nero per impedirne l’emancipazione. 

La storia non è però un’ode al dramma e alla sofferenza, bensì un percorso di rinascita e riumanizzazione di chi è stato privato da sempre della propria libertà interiore. La tragedia vissuta è piuttosto quella dell’abitudine, di un’eterna stasi in cui i giorni e le ore passano sempre uguali a se stessi, non prevedendo alcuna via d’uscita. La ferrovia sotterranea, i cui 10 episodi sono stati adattati da Barry Jenkins con l’aiuto dello stesso Whitehead, è un prodotto visivamente complesso e poetico, giocato su sequenze oniriche e simboliche che si alternano a orrori fisici e psicologici, messi in scena nella loro crudezza e nella costante ricerca di verità eterne. Resuscitare prospettive perdute elevando la voce di coloro che a lungo sono rimasti inascoltati, ricomponendo minuziosamente una memoria collettiva che sia fatta anche di luce e nuove speranze, e non solo dell’oppressione dovuta al suprematismo bianco, è ciò che rende questa serie una tra le più rilevanti e meglio riuscite del 2021. 

Wandavision (Disney+)

Approdata su Disney+ come prima miniserie Marvel, Wandavision, pur se destinata al grande pubblico, è in realtà un prodotto a suo modo autoriale. Il primo episodio vede Wanda e Visione catapultati in una sitcom degli anni 50: il pubblico in studio, il bianco e nero, il formato 4:3. Nelle prime tre puntate, in un mirabile omaggio alla storia della tv, lo stile televisivo si adatta infatti a quello di ogni decennio del secolo scorso: la fotografia, i costumi, il modo di recitare, gli effetti di camera. Un lavoro dettagliato che permette allo spettatore di riconoscere immediatamente l’epoca rievocata senza indizi espliciti. 

Wanda Maximoff ha perso tutto: se stessa, l’amore, uno scopo. Incapace di affrontare il dolore, ha costruito una versione alternativa della realtà in cui tutto è come desidera. “Che cos’è il dolore se non l’amore che continua?”, le chiede Visione, il marito, in una delle scene più intense della serie. Ciò che la muove è la difesa a ogni costo della propria felicità: non deve salvare il mondo da un nemico esterno, ma da se stessa, e in questo sconvolge tutte le regole a cui gli eroi e le eroine della Marvel ci hanno abituato da decenni. Wanda è al contempo eroe e carnefice, ed è proprio questa dualità a permettere alla serie di condurre una riflessione sul lutto, il dolore e il dispendio di energie che serve per non affrontarlo mai. Un tempo eterno, in cui l’immobilismo fa da padrone. 

LOL – Chi ride è fuori (Amazon Prime Video)

Quello che forse è mancato a tutte le produzioni dei colossi dello streaming fino a questo momento è quell’atmosfera di sano cazzeggio che abbiamo respirato in LOL – Chi ride è fuori e che è dato anche dal fatto che molti dei talent presenti già si conoscessero e fossero dunque a loro agio nelle interazioni. Un cast variegato per età, genere, provenienza e talento che, pur dovendosi attenere ai meccanismi del format, ha portato in dote, chi più chi meno, la propria fetta di pubblico e le proprie capacità, che hanno saputo essere valorizzate da un grandissimo lavoro di scrittura e montaggio. Nonostante il budget e un cast di nomi così popolari, in pochi avrebbero scommesso sul successo di LOL – chi ride è fuori, eppure è innegabile che sia stato un fenomeno televisivo come non se ne vedevano da tempo. I social sono stati invasi da meme, gli account dei talent che hanno partecipato al programma hanno avuto un’impennata di follower e nelle settimane di lancio se ne è discusso non solo in rete ma anche sui giornali. 

LOL ha avuto il merito di arrivare al momento giusto: il pubblico ha voglia di televisione leggera, anzi leggerissima, e il format ha divertito anche grazie al cast formato da nomi noti e meno noti, giovani e meno giovani, fenomeni del web, comici della generalista e volti Sky, a riprova che l’incontro tra generazioni e sensibilità diverse giova alla televisione e piace al pubblico di tutte le età. Insomma, una televisione nuova e di successo è possibile, i talenti giovani ci sono e possono coesistere con le vecchie glorie, le nuove piattaforme hanno soldi da investire e il pubblico c’è. Il futuro sembra sorridere alla televisione a patto che si cambi il modo in cui di solito si leggono i fenomeni televisivi.

The White Lotus (NOW TV)

Ambientato in un resort di super lusso a Maui, The White Lotus segue i giorni di villeggiatura di un gruppo di ospiti. All’apparenza dalla trama insignificante, viviseziona invece con molta ironia il privilegio – che sia di genere, di classe sociale o etnia –, una questione che, forse più in America che in Italia, negli ultimi anni ha acquisito sempre più spazio nel dibattito pubblico. Critica, intelligente e cinica, la serie è il ritratto grottesco di un’élite – da cui emerge quelle che è forse la migliore performance della carriera di Jennifer Coolidge –, che non cerca di raggiungere la propria versione migliore, come accade invece in Nine Perfect Strangers, serie similare andata in onda nello stesso periodo, ma mostra con molta franchezza, e incoscienza, quella peggiore. “Ci viene chiesto di scomparire dietro le maschere, l’obiettivo è donare una sensazione di vaghezza”, spiega il direttore del resort alla stagista hawaiana appena assunta. 

Le disuguaglianze – tra lavoratori e ospiti, tra capitalismo ed espropriazione delle terre alle popolazioni native – si accumulano in un crescendo che svela le strutture di potere a cui siamo così abituati da non fare più caso: mentre rendono i loro non-problemi delle immani catastrofi, pensando che con il proprio denaro si possa comprare tutto, mentre altre pur di non perdere il lavoro nascondono di essere entrate in travaglio. Mike White, il creatore della serie, è troppo intelligente per rendere i personaggi completamente distanti dagli spettatori: le loro idiosincrasie rispecchiano occasiono e dialoghi comuni in cui, volenti o nolenti, ci siamo ritrovati tutti – o che abbiamo persino finito per alimentare. Un ritratto sociale dissacrante che mette in scena i più bassi, bassissimi, istinti dell’essere umano.

Only Murders in the Building (Disney+)

Nell’enorme complesso di appartamenti Alcona dell’Upper West Side newyorkese, il giovane manager finanziario Tim Kono (Julian Cihi) viene trovato morto nel suo appartamento a causa di quella che sembra una ferita da arma da fuoco autoinflitta. I suoi vicini – l’ex detective televisivo Charles (Steve Martin), il regista egocentrico di Broadway Oliver (Martin Short) e Mabel (Selena Gomez), una giovane donna intenta a rinnovare l’appartamento della zia – sono gli ultimi ad averlo visto vivo qualche minuto prima in ascensore. Quando loro, pur se schivi e poco inclini a fare amicizia, scoprono di avere una passione in comune – l’amore per i podcast true crime – si convincono che la polizia abbia commesso un errore a classificare la morte di Tim come suicidio, decidendo di indagare insieme per svelare la verità e lanciare un podcast per risolverlo.

Creato da Steve Martin insieme a John Hoffman e co-prodotto da Dan Fogelman, la serie andata in onda su Disney+ è fortemente ispirata al gioco da tavolo Cluedo del 1948, da cui non mancano infatti elementi caratteristici come assassini, indizi improbabili da escludere – tra cui Sting in persona e un gatto morto – e un mistero che si ripiega su se stesso all’emergere di nuove prove in cui i tre sembrano imbattersi senza nemmeno rendersene conto, in un ingarbugliarsi sempre più fitto delle indagini. Only Murders in The Building è caratterizzata da un’incompetenza dei protagonisti al limite del comico e dell’umoristico, che vuole rendere la serie al contempo una parodia del genere investigativo e una sua esaltazione, enfatizzata dalla scelta della struttura narrativa di far proseguire la serie al pari delle puntate di un podcast. In questa commedia satirica, brillante e anche un po’ macabra, si ritrova però qualcosa di molto più profondo e commovente di un semplice intento parodistico: un’indagine sull’amicizia, sul dolore e sul rimpianto.

 

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