I 10 migliori film di un anno difficile - THE VISION

Come il 2020, anche il 2021 è stato particolarmente intenso per l’industria cinematografica mondiale, non tanto per il numero di film, condizionato dai titoli posticipati dall’anno precedente e dal fermo delle produzioni, quanto per la capacità di adeguarsi a una nuova realtà. Nonostante i botteghini dei cinema abbiano ancora bisogno di tempo per potersi riprendere appieno, l’anno che sta per finire ci ha finalmente permesso, gradualmente, di tornare in sala. Tra piattaforme di streaming e sale, questi sono i migliori 10 titoli usciti nel 2021 secondo noi.

Dont’t Look Up, di Adam Mckay

La trama di Don’t look Up, film scritto e diretto da Adam Mckay, è piuttosto semplice e inquietantemente familiare: la studentessa di astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre per caso l’esistenza di una cometa sconosciuta in rotta di collisione con la Terra. Il suo professore Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) ne calcola la traiettoria: l’impatto avverrà tra circa sei mesi, la sua velocità di spostamento è inesorabile e l’estinzione è certa. I due si recano immediatamente alla Casa Bianca, nel tentativo di convincere la presidente Janie Orlean (Meryl Streep) ad agire, ma nonostante il pericolo imminente e il rischio più che concreto, lei non sembra volersene occupare. Meglio distrarre l’opinione pubblica o trasformare l’apocalisse in una questione ideologica e politica, rendendo la giovane astronoma Kate lo zimbello del web e facendosi beffe della scienza. In un mondo dilaniato e ossessionato dal dilagante complottismo sui social, tutti cercano di approfittarsi di questa catastrofe alimentando una situazione assurda che ha però tratti pericolosamente reali. I personaggi sono messi in scena in modo superbo grazie a un cast stellare che conferma le proprie doti, in particolar modo negli scambi di battute tra Lawrence e Di Caprio, che riescono a portare a segno tutti i tempi comici. Grazie a una sceneggiatura minuziosa, il film di Mckay diventa una parodia stratificata di una contemporaneità spacciata, non solo da una crisi imminente, ma dall’avidità, dal narcisismo di chi non vuole ascoltare chi sarebbe più titolato a far valere le proprie ragioni. 

The Father – Nulla è come sembra, di Florian Zeller 

Uscito nel 2020 ma distribuito in Italia quest’anno, The Father è il primo film girato dal giovane scrittore e drammaturgo francese Florian Zeller, grazie a cui si è aggiudicato il Premio Oscar come Miglior sceneggiatura non originale (che in realtà è tratta da una sua stessa pièce del 2012). L’opera mette in scena la storia di uomo (uno straordinario Anthony Hopkins), che pur avendo superato gli ottant’anni è ancora forte, affascinante, carismatico e attivo. Man mano che la storia si sviluppa si capisce però che in realtà Anthony è malato di Alzheimer – non riconosce più le persone che gli stanno intorno e nemmeno a ricordare la storia della sua vita, è sempre più confuso. Anthony rifiuta le cure della figlia Anne (Olivia Coleman) e si sforza di tenere insieme quella che crede essere la sua identità. Eppure, la malattia avanza inesorabilmente e fa sì che la sua psiche sviluppi quelle che sembrano manie di persecuzione. Anthony inizia così a dubitare delle intenzioni dei suoi cari, delle sue capacità cognitive e della lucidità della sua mente, fino ad arrivare per forza di cose a mettere in dubbio la trama stessa del reale. Dopo un profondo crollo emotivo Anthony sembra tornare ad essere un bambino, cerca sua madre e dice di star perdendo le sue foglie, per poi scoppiare a piangere. Tutto ciò che gli resta sono le passeggiate al parco insieme alla sua infermiera, per godere della natura nelle belle giornate di sole prima della fine. Un film drammatico, che con una maestria unica racconta una delle malattie più terribili della contemporaneità, e lo fa dal punto di vista di chi la subisce.

Madres Paralelas, di Pedro Almodovar (Apple TV Amazon Prime)

Due donne condividono la stanza di ospedale prima di partorire. Sono entrambe single e al termine di una gravidanza non prevista. Janis (Penélope Cruz), è una donna di mezza età senza rimpianti e non vede l’ora di partorire. Ana (Milena Smit), invece, è un’adolescente spaventata da ciò che sta per succederle e da quello che potrà essere la sua nuova vita di madre, traumatizzata dal mondo che le sta intorno e vittima di un ingiusto senso di colpa interiorizzato. Janis prova a farle coraggio mentre per passare il tempo passeggiano in una sorta di limbo esistenziale tra le corsie del reparto. Pur scambiandosi poche parole, tra le due, complice il particolare momento e la differenza d’età, si crea una grande complicità, il resto, come spesso accade, lo farà il fato. Almodovar, raccontando la maternità, crea un film che mescola storia politica e individuale, il legame tra antenati e discendenti, il rapporto tra donne, tra madri e figlie e tra donne e uomini. Il regista ha dichiarato: “Come narratore, in questo momento sono queste madri imperfette, molto diverse da quelle che sono apparse finora nella mia filmografia, quelle che più mi ispirano. […] Alla fine faranno tutti parte di una famiglia pittoresca e inattesa, ma comunque vera e autentica”.

Una donna promettente, di Emerald Fennell

Scritto e diretto da Emerald Fennell, Una donna promettente è stato definito pressoché ovunque il revenge movie dell’era del #MeToo. La protagonista Cassie, interpretata da Carey Mulligan, devastata dal suicidio della sua migliore amica Nina, stuprata ai tempi dell’università mentre era ubriaca e caduta in depressione nell’indifferenza di tutti, ha l’abitudine di fingersi semi-incosciente nei locali notturni per poi sconvolgere con la sua sobrietà e le sue domande gli uomini che ogni volta si sono offerti di riaccompagnarla a casa, meditando altri intenti. Non solo, è anche in caccia di coloro che all’epoca non hanno fatto nulla per la sua amica. Il personaggio di Mulligan ribatte ai comportamenti di coloro con cui entra in contatto con proporzionalità di effetto. Ne risulta così una sorta di perfetto contrappasso attuato non col fine di ripagare un torto subito con la stessa moneta, ma di illustrare argomentazioni in maniera dialettica. Ecco dunque che ciascun passaggio della trama affronta con metodo ogni singola obiezione venga fatta abitualmente nei casi in cui la vittima era sotto l’effetto di alcol o droghe. Nell’esaustività delle argomentazioni trattate è evidente come Fennell non stia parlando solo a coloro che ritengono certi episodi delle ragazzate per le quali non ha senso “rovinare la vita di una persona” (ma di un’altra guarda caso sì), che non hanno idea del perché i campus universitari siano stati ribattezzati “terreni di caccia” o che non abbiano seguito nulla dell’evoluzione delle politiche sull’espressione del consenso come atto attivo; Fennell sta anche stuzzicando in tutta evidenza coloro che condividono gli assunti dei movimenti odierni per la parità di genere, ma al contempo temono si stia andando incontro a tentazioni di totalitarismo e “caccia alle streghe”, chiamando tutti noi a una forte presa di posizione.

 Il potere del cane, di Jane Campion

Presentato alla Biennale del Cinema di Venezia, Il potere del cane, adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967, ha segnato il ritorno al cinema di Jane Campion a dodici anni da Bright Star. Suddiviso in cinque capitoli, è ambientato nel Montana degli anni Venti e segue i due fratelli Burbank, George (Jesse Plemons) e Phil (Benedict Cumberbatch), proprietari di un ranch e accomunati solo dal lavoro: se il primo è più mite e sottomesso, aperto al prossimo, il secondo è crudele e meschino, un uomo che ha fatto delle sue paure una gabbia da cui non riuscire a muoversi. Incastrato nel ricordo dell’amico Bronco Henry, tragicamente scomparso e di cui custodisce tutti i cimeli, il personaggio di Cumberbatch finisce per confermare e al contempo decostruire il mito virile dei western americani, anacronisticamente machista. Le ellissi e i lunghi silenzi che indugiano sulle praterie e le colline, quelle in cui solo pochi riescono a vedere un cane che abbaia e che ricordano i più vivi quadri di Andrew Wyeth, lasciano allo spettatore il compito di cogliere da sé gli angoli in cui si sono nascosti i demoni: l’alcolismo di Rose – interpretata da Kristen Dunst in una performance che ha raccolto un plauso unanime –, moglie di George e madre di Peter, figura centrale dell’intera storia grazie allo scarto tra il suo modo di essere uomo e quello stabilito dai canoni dell’epoca. “Libera la mia anima dalla spada, la mia volontà dal potere dei cani”, recita il Salmo 22 che dà il titolo al film, pronunciato nel momento in cui per la Bibbia Gesù si fa martire sulla croce. Ed è proprio nel riuscire a sfuggire a quei “cani”, sembra dirci Campion, che si trova la chiave per rispondere a un’unica domanda: “che tipo di uomo sono e sarei potuto essere?”. 

La persona peggiore del mondo, di Joachim Trier

Niente a che vedere con la goffaggine leziosa di Amélie né con scenari amorosi immaginari, a cui è stato spesso accostato, La persona peggiore del mondo, di Joachim Trier, rispecchia alla perfezione la tradizione cinematografica scandinava: si divide chirurgicamente in dodici capitoli, più un prologo e un epilogo – a riprova dell’innegabile influenza che il teatro ha avuto – all’interno dei quali seguiamo la storia di Julie, protagonista interpretata da Renate Reinsve. Sin dal prologo, la storia di Julie ci presenta un ambiente e un modo di vivere la vita ben distanti da quelli a cui siamo abituati. La vita di una millennial norvegese intelligente e curiosa viene rappresentata con estrema fluidità nella molteplicità delle sue scelte. La cosa bella di questo film, dunque, è proprio la sua ambientazione così scarna e scorrevole, facilitata dalla neutralità in cui si trova la protagonista. Quando il problema principale dell’esistenza non è arrivare a trent’anni con uno stipendio sufficiente a pagare un monolocale di 30 metri quadri e mezza bolletta della luce, si possono analizzare con il microscopio i lati più introspettivi e astratti della trama, creando un universo di pensiero al contempo iper-soggettivo – ma non per questo inverosimile o surreale. Julie, che contrariamente ad Amélie non è affatto connotata da una narrazione leziosa e femminile in senso più stereotipato del termine, è tanto sfaccettata e profonda da riuscire a far immedesimare anche chi, per esempio, non sa come può sentirsi una donna rispetto al tema dell’aborto – trattato qui con un rispetto e una naturalezza di esposizione che raramente si riscontrano in altri racconti. La persona peggiore del mondo è un film che restituisce allo spettatore la bellezza di una scrittura profonda, intensa, con cui Joachim Trier è stato capace di ritrarre talmente tanti aspetti dell’esistenza della sua protagonista – e di quella del mondo attorno a lei: l’ecologia, la malattia, il femminismo, persino il tema della cancel culture – da far passare lo spettatore dalle risate per i dettagli più stupidi – spesso cinici e volutamente ridicolizzanti – alle lacrime amare.

 È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino (Netflix)

Splendide panoramiche sul golfo di Napoli, Maradona e lo scudetto, San Gennaro, Pino Daniele: tutti gli elementi che saltano all’occhio a un primo sguardo di È stata la mano di Dio sembrano voler suggerire che il film possa essere una perfetta ricostruzione degli stereotipi più cari al regista, gonfi di retorica, facili ammiccamenti. C’è la magnificenza gloriosa, ci sono i personaggi simbolo, le pause, le figure inspiegabili, oniriche e grottesche, ci sono tutti gli elementi tipici del suo stile, ma sono come alleggeriti dalla smania di comunicare qualcosa, perché è già tutto dentro ai personaggi e alla città di Napoli. Non ci sono rumori né frastuoni, non c’è il caos pantagruelico conviviale partenopeo, anche se c’è il mosaico familiare scherzoso, contraddittorio e folle di ogni famiglia. È stata la mano di Dio è un percorso intimo, delicato e al contempo mitologico all’interno dell’adolescenza dell’alter ego del regista napoletano – Fabietto Schisa, interpretato da un giovane attore esordiente di grande talento, Filippo Scotti – e della sua famiglia. Fuori da ogni retorica pietista e dalla potenziale drammaticità – che pur è presente in mille forme nel film – il senso di questa opera è, nella sua particolarità familiare, quello di dare senso anche alla cosa più atroce che ci possa accadere, come la perdita di entrambi i genitori in un’età molto precoce, attraverso il racconto, il mezzo universale e intramontabile che abbiamo come esseri umani di stare in vita anche dopo la morte. Una sintesi della sua poetica, oltre che della sua estetica, in un dipinto che mette insieme tutto ciò che simbolicamente descrive la sua esistenza ma che diventa anche nostro.

Moment Like This Never Last, di Cheryl Dunn (MUBI)

Questo documentario di Cheryl Dunn è dedicato alla figura del grande artista Dash Snow (Dashiell Alexander Whitney Snow), una vera e propria icona della subcultura newyorkese tra gli anni Novanta e gli Zero. La sua esistenza breve e caotica, rapidamente consumata tra arte e fotografia, dipendenze, sesso e continue provocazioni al potere mette in luce un uomo che ha fatto della ribellione al sistema la sua ragione di vita. Figlio di una ricca famiglia di New York, Snow rinnegò le sue origini e scelse la strada come scenario della sua arte e la periferia come habitat della sua inesauribile sete di libertà, condividendo la sua esistenza con writer, skater e pusher. Moments Like This Never Last, mescolando con un buon ritmo narrativo sgranate immagini di repertorio a interviste contemporanee, fa emergere fin dall’inizio le varie anime di questo personaggio scisso: quella del figlio ribelle in perenne conflitto con la madre, del marito borderline che oscilla tra momenti di estrema passione e insopportabile insofferenza, del padre affettuoso e al tempo stesso dell’artista sregolato e in guerra costante con il sistema. Dunn, grazie al suo film, riporta in vita uno dei personaggi che nel corso dei decenni hanno incarnato a pieno la più autentica anima del punk.

Dune, di Denis Villeneuve

Presentato al Festival del Cinema di Venezia dopo un lungo posticipo a causa della pandemia, il Dune di Denis Villeneuve ha dovuto affrontare più di una prova, essendo anche il secondo adattamento dopo quello di David Lynch del 1984. Ambientato in un universo in cui le risorse naturali e il controllo dell’ambiente sono al centro di feroci battaglie politiche, Dune è ricco di riflessioni su cosa significhi doversi adattare a un clima del tutto ostile alla vita umana e su come sia necessario agire collettivamente e con uno sguardo di lungo periodo se si vuole attuare una trasformazione ecologica duratura. L’ecologia non è però il suo unico tema. Si trovano anche ragionamenti complessi sul potere, la religione e la mitizzazione, l’ascesa e il declino degli imperi e il lato oscuro dell’eroismo, oltre che riflessioni sulla coesistenza tra essere umano e ambiente. L’ispirazione per il suo capolavoro era arrivata all’autore mentre lavorava a un reportage giornalistico su un progetto del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense che avrebbe permesso alle autorità locali di domare le immense e incontrollabili dune di sabbia che si formavano sulla costa dell’Oregon, e mettevano in pericolo la popolazione locale, piantando delle graminacee europee nell’area. Osservando le dune invadere una vicina autostrada, Frank Herbert, che scrisse il romanzo nel 1965, rimase affascinato dalle implicazioni di ciò che accade quando l’uomo e la natura si scontrano. Come fa dire l’autore a uno dei suoi planetologi più illustri, “la più alta funzione dell’ecologia è la comprensione delle conseguenze”. E di conseguenze, sulla Terra, ne dobbiamo affrontare sempre di più.

Shiva Baby, di Emma Seligman

Il film di esordio della regista Emma Seligman, Shiva Baby, è la perfetta trasposizione cinematografica dell’incubo di qualsiasi persona introversa – o anche semplicemente riservata –, costretta a interagire con un’orda di persone che, educate ma indefesse, si informano su potenziali “fidanzatini”, esami e progetti per il futuro. In Shiva Baby l’introversa vessata da domande stupide è una giovane studentessa universitaria, Danielle (interpretata da Rachel Sennott), per la quale lo shiva del titolo, il funerale ebraico a cui è costretta a partecipare, diventa il teatro di una grottesca rimpatriata che include un’infinità di parenti e amici dei suoi genitori, nonché la sua ex ragazza e l’uomo più grande di lei con cui ha avuto rapporti sessuali a pagamento, che arriva alla cerimonia accompagnato dalla biondissima moglie shiksa (ovvero non ebrea), Kim, e con la loro adorabile figlia. Mentre cerca di mantenere il controllo sul caos emotivo in cui questi incontri l’hanno gettata, Danielle sembra perdere quello sulle sue azioni. I dialoghi serrati e brillanti, coronati sempre da una battuta caustica o da una freddura, si inseriscono nel solco della migliore tradizione della commedia newyorkese a là Woody Allen, mentre gli ambienti chiusi e la sensazione di claustrofobia ricordano il Roman Polanski di Carnage. Seligman sviluppa il cortometraggio omonimo che aveva girato ai tempi dell’accademia cinematografica a New York, mantenendo la cornice dello shiva e l’impostazione teatrale classica, circoscritta nel tempo, nel luogo e nell’azione scenica. La sceneggiatura, però, ricorda molto di più quella di uno spettacolo del teatro dell’assurdo, dove il protagonista è del tutto in balia di agenti esterni che ne annichiliscono la volontà, l’energia e la forza vitale.

La peculiarità di questo film, e il suo merito, è quella di dare voce a una generazione ancora poco rappresentata sul grande schermo, se non in narrazioni semplicistiche e appiattite sulla retorica dei ragazzini che il Time ha definito “pigri, superficiali e narcisisti”. Danielle non è uno stereotipo, ma incarna in maniera attendibile il senso di disagio e smarrimento che ogni ventenne prova al suo primo contatto con il mondo degli adulti, è il personaggio del romanzo di formazione ideale che tutti noi viviamo nei periodi cruciali della nostra vita, come, per esempio, la scelta dell’università. La cosiddetta Generazione Z, povera, precaria, incerta, ma allo stesso tempo autoconsapevole del grado di libertà personale a cui può ambire, è una generazione che non chiede né giudizi né tantomeno una sorta di generosa comprensione da parte degli adulti: rivendica semplicemente il diritto a esistere.

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