Perché Alberto Angela dovrebbe raccontare lo sfruttamento nascosto fra quelle “Meraviglie”

Negli ultimi tempi si assiste di rado a esperienze televisive meritevoli di lode per la qualità che viene portata sullo schermo. Da questo punto di vista, Raiuno, da qualche anno, dimostra una costante volontà di rinnovamento dei propri palinsesti, seguendo la strada della valorizzazione della cultura italiana e dedicandovi ampi spazi anche in prima serata. 

In questo quadro è impossibile non tenere in considerazione il programma Meraviglie, condotto e curato da Alberto Angela, prodotto di grande impatto che riesce a ottenere un enorme successo in termini di ascolti. Dopo l’exploit della prima puntata (andata in onda il 4 gennaio del 2018), con un 23,8% di share (pari a più di cinque milioni di telespettatori), ha registrato un leggero calo, che comunque regala ad Angela una media di venti punti percentuali. Un risultato strepitoso, soprattutto se confrontato con lo share che lo stesso Angela ottiene con un suo altro progetto, Ulisse – Il piacere della scoperta (che si assesta su poco più di un milione di telespettatori), penalizzato dall’andare in onda su Raitre, nella prima serata del sabato, regno indiscusso di Maria de Filippi. 

Ma al di là dei dati statistici, il successo di progetti di divulgazione scientifica e culturale come Meraviglie è riuscire a portare in prima serata la ricchezza artistica di un Paese, che detiene il record di maggior numero di siti patrimonio dell’umanità riconosciuti dall’Unesco. È indubbio quindi il merito del programma nella valorizzazione della cultura e dell’arte italiane, attraverso un prodotto che dovrebbe e potrebbe essere esportato all’estero, seguendo l’esempio della Bbc che lo fa da anni con i suoi documentari.

Nella puntata andata in onda martedì 19 marzo, Alberto Angela ha portato le telecamere Rai a Ravenna. Chiudendo la porzione di programma dedicata alla storia del sepolcro di Dante Alighieri, il conduttore-paleontologo ha condiviso una riflessione personale, ponendo l’attenzione sull’importante ruolo che arte e cultura hanno svolto nel guidare il nostro Paese in situazioni di difficoltà, con il compito di ricordare sempre quale fosse l’identità del nostro popolo. È difficile non condividere un pensiero simile. Meno spontaneo, però, è chiedersi qual è il prezzo pagato per ottenere quelle opere d’arte che oggi definiamo “meraviglie”, e che avrebbero assolto la funzione di Stella polare per il popolo italiano nelle fasi più buie della sua storia.

L’occasione per riflettere su questo aspetto la offre la stessa puntata del 19 marzo, con la sezione del programma dedicata al Teatro San Carlo di Napoli, uno dei più prestigiosi e antichi teatri lirici d’Europa e del mondo.

Il San Carlo fu costruito e inaugurato nel 1737 su volontà di Carlo di Borbone. Nelle intenzioni del sovrano appena diciannovenne, il teatro destinato all’opera lirica avrebbe dovuto rappresentare l’apice di un progetto di rinnovamento urbano della città di Napoli, con lo scopo di renderla una grande capitale europea. Il Real Teatro rappresenta un emblema di magnificenza e di sfarzo del regno e della nobiltà partenopei. L’opera fu completata in non appena otto mesi e costò 75mila ducati. Ma è ancora più sorprendente il tempo impiegato per ricostruire il teatro dopo l’incendio del 1816: soltanto dieci mesi. La risurrezione della struttura, voluta fortemente da re Ferdinando I, diede vita all’attuale Teatro San Carlo, quello che oggi è possibile ammirare nel centro storico di Napoli ancora più imponente di quello ridotto in cenere.

Teatro San Carlo, Napoli

Al di fuori del Teatro, simbolo di potere e di lusso di una porzione nobiliare di Napoli e del Regno delle due Sicilie, però, lo spettacolo era ben diverso dalle opere liriche che venivano applaudite su quel palco.

Gli anni Trenta del Settecento rappresentarono un crocevia fondamentale per la storia del Mezzogiorno, e il 1734, anno di arrivo del nuovo re Carlo Borbone, segnò una svolta. A dire il vero, le ricostruzioni storiografiche si dividono: c’è chi esalta quegli anni come l’alba di un illuminismo prettamente italiano e chi invece tende a dissacrare la memoria del regno borbonico, ritenendo che l’immagine che voleva dare al resto del mondo fosse lontana dalla realtà. In effetti vari studi raccontano di come la situazione economica del Regno delle Due Sicilie fosse preoccupante. Le vie di comunicazione non erano all’altezza dell’ampiezza del regno: si racconta che chi partiva dalla costa adriatica pugliese si preoccupava di fare testamento. Leggenda o verità che sia, rappresenta comunque un indizio circa lo stato della viabilità del regno borbonico, che poco migliorò con le innovazioni tecniche di metà Settecento. 

La nuova amministrazione si caratterizzò subito per le enormi spese di rappresentanza, che fecero crescere a dismisura la tassazione. Infatti nel giro di vent’anni, nel 1754, le entrate fiscali aumentarono fino a dieci milioni di ducati, la maggior parte dei quali provenienti dalle imposte sulle persone fisiche. 

Carlo Luigi Rocco; Carlo Borbone a cavallo durante l’assedio di Gaeta,1734 ca., collezione privata

La politica economica e finanziaria del regno borbonico si caratterizzava per una strategia fiscale scellerata. Fino al 1741 si continuava ad adottare un sistema fiscale basato sui “fuochi”, ovvero sulle persone fisiche, in cui mancava ogni criterio di proporzionalità: una sorta di flat tax in base alla quale il nobile e il povero erano assoggettati allo stesso regime contributivo. In sostanza, il peso fiscale del regno borbonico gravava sulle masse popolari, costrette a vivere in condizioni di indigenza. Il tutto mentre all’interno del Teatro San Carlo continuava ad andare in scena lo spettacolo della lussuosa nobiltà partenopea e non.

Come lo stesso Alberto Angela affermava nella puntata del 19 marzo, il patrimonio artistico del nostro Paese è sempre lì, pronto a ricordare qual è la nostra identità, della quale dobbiamo essere orgogliosi. La città di Napoli non potrebbe non essere fiera di un gioiello incastonato nel suo centro storico, com’è appunto il San Carlo. Il paradosso sta nel fatto che gran parte di queste opere non nascono con l’intento di rappresentare la cultura italiana, ma sono spesso la manifestazione della grandezza di case reali, di famiglie borghesi, di signorie e comuni, piccoli o grandi imperi. Addirittura, come nel caso del Teatro San Carlo, si tratta di un segno più che evidente del passaggio di una dominazione straniera. È paradossale notare come un monumento sorto con l’intento di glorificare un sovrano straniero possa poi essere riconvertito a emblema della cultura italiana. Ma d’altronde quello che sembra un paradosso potrebbe essere uno degli elementi peculiari della nostra identità culturale. L’Italia è stata terra di passaggio di vari sovrani e dominazioni, e ognuna ha lasciato in eredità un qualcosa che davvero ricorda ciò che il popolo italiano è stato nella sua storia: una popolazione tormentata nella propria indipendenza, variegata nei propri costumi e fin troppo complessa per essere racchiusa in categorie nazionalistiche. 

Giacinto Gigante; Scene di vita popolare a Napoli

Ci si potrebbe inoltre chiedere quale prezzo sia stato pagato per avere queste opere d’arte meravigliose che il mondo intero ci invidia. Sicuramente si potrebbe rispondere facendo leva sullo stato di povertà in cui il popolo era costretto a vivere. Ma sarebbe una falsità ritenere che la gran parte delle opere artistiche realizzate nel corso dei secoli siano state la principale causa delle difficili condizioni sociali ed economiche di chi ci ha preceduto nel nostro Paese. Utilizzando sempre i dati forniti in precedenza in merito al Teatro San Carlo è possibile avere un esempio di quanto detto. Per la costruzione dell’opera sono stati impiegati 75 mila ducati, che appaiono nulla se confrontati ai milioni destinati al mantenimento della casa reale borbonica e dei suoi palazzi. Anche se il costo del teatro può sembrarci basso, si deve considerare come in realtà questa cifra sia il risultato di una manovalanza sottopagata e probabilmente sfruttata. 

Oggi è sempre più raro assistere alla realizzazione di opere d’arte destinate a rimanere come segni indelebili della nostra cultura. Anzi, portare a termine un’opera infrastrutturale pare essere già di per sé un’impresa. Risale a pochi giorni fa l’immagine del presidente del Consiglio Conte, accompagnato dal ministro delle Infrastrutture Toninelli, che festeggia per aver sbloccato il cantiere della SS 640, ovvero la statale Caltanissetta Agrigento. Una scena che rievoca quelle dell’inaugurazione dell’autostrada del Sole, avvenuta cinquantacinque anni fa. 

La prima pietra dell’autostrada del Sole viene posata, 19 maggio 1956

Se un tempo vi era il sovrano che con le casse reali sovvenzionava la costruzione di monumenti, per rendere una città una grande capitale europea, oggi al suo posto si trovano governi poco inclini al finanziamento di simili progetti. Con ogni probabilità la ragione di questo cambiamento si trova nella mancanza di quella che un tempo era la volontà di rappresentare con le opere d’arte e con i monumenti la grandezza e la forza di un “potere politico”. L’arte aveva un forte significato propagandistico, perché era il segno apparente di una potenza da ostentare all’esterno, per intimorire i nemici stranieri, e all’interno, per incutere rispetto e ammirazione nei sudditi. Oggi questa necessità è venuta meno: non servono più le arti a tal scopo, ma è sufficiente un saldo positivo nei conti pubblici, una situazione di indebitamento pubblico sostenibile e l’ottenimento di una valutazione positiva da parte delle agenzie di rating. Non a caso l’ultima occasione in cui in Italia l’arte e l’architettura hanno svolto questo ruolo è stato il periodo del ventennio fascista. Emblematica è la vicenda della costruzione della sede del Pnf (Partito nazionale fascista), un palazzo immenso che inizialmente doveva sorgere nel centro di Roma, a testimonianza del potere del governo. Poi si optò per una sede diversa e l’opera fu realizzata dove si trova ancora oggi, poco lontano dal Foro Italico. Quella struttura ospita attualmente il ministero degli Esteri. È sufficiente fare una passeggiata lungo la facciata esterna del palazzo della Farnesina per respirare un’aria di mastodontica autorità, la stessa che caratterizza altre opere dello “stile mussoliniano”.

Palazzo della Farnesina nel 1959

Nonostante i secoli che separano il teatro San Carlo dal palazzo della Farnesina, ieri come oggi la povertà e l’indigenza continuano a dilagare fra gli strati più bassi di una società sviluppata, quale dovrebbe essere l’Italia del Ventunesimo secolo. Forse questo è l’unico elemento che nel corso del tempo pare non sia mai stato rivoluzionato. Ma quanto meno, il povero di oggi potrà consolarsi osservando le “Meraviglie” ereditate dal passato, ricordandosi che dietro le stesse non si celano solo i nomi di famosi artisti, ma anche il sudore di un popolo ormai abituato ai sacrifici.  

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